Riceviamo e pubblichiamo.
Il collettivo Te Kedas Donde Kieras (TKDK) nasce circa sette anni fa, quando diverse persone – tra cui anche alcune che esperivano sulla propria pelle la condizione di vivere in Europa senza documenti – si riunirono per lottare contro il razzismo e le frontiere. In questi anni sono passate tante persone nel collettivo e ciò ha fatto sì che questo sia in continuo cambiamento e crescita, sebbene ci siano basi comuni chiare a dargli forma. Attualmente ci definiamo come un collettivo anarchico che si propone di portare avanti la lotta contro razzismo e frontiere da una prospettiva antiautoritaria, contro lo stato, femminista e per una liberazione totale dalle oppressioni. Ogni giorno vediamo come si perfezionano e crescono i meccanismi di discriminazione: le leggi razziste – come l’attuale legge sull’immigrazione – accompagnate dalla macchina delle espulsioni, le retate razziste nei quartieri, le carceri speciali per migranti, i CIE e la militarizzazione delle frontiere. Questa situazione è stata normalizzata, fa sembrare inevitabile anche l’inaccettabile e si basa su un sistema razzista che abbiamo interiorizzato e che classifica le persone in prima, seconda e terza categoria secondo il luogo di nascita, il colore della pelle, la classe sociale, il genere ecc. Questa classificazione permette di costruire una rete di dominio che genera paura, esclusione e sfruttamento. Paura, esclusione e sfruttamento che il capitalismo utilizza per svilupparsi grazie a una manodopera a buon mercato e utile, negando la dignità, la libertà e la vita ai/alle migranti. Al contempo, tanti media e politici alimentano discorsi xenofobi come via di fuga al disagio sociale. Perciò nel TKDK vogliamo lottare contro le espressioni più ovvie e tangibili del razzismo- come retate ed espulsioni- però anche contro la struttura sociale su cui queste si poggiano, il mondo che le genera e il razzismo che ognun@ di noi porta dentro. Partendo da questa base, nel TKDK non crediamo in una riforma delle leggi sull’immigrazione, in un maggiore assistenzialismo verso le persone migranti o in un miglioramento delle condizioni di vita dei/delle detenut* all’interno dei CIE; crediamo invece nella libera circolazione delle persone, nella distruzione delle frontiere esterne e interne e nelle relazioni libere e solidali. Da qui, da questa rabbia e da questa passione, facciamo questo lavoro da formichine, convocando manifestazioni e presidi davanti al CIE di Zona Franca; producendo materiali, opuscoli e adesivi, organizzando discussioni e giornate antirazziste; informando tramite una trasmissione alla radio, coordinandoci con altri collettivi, agendo giorno dopo giorno e con diverse modalità contro tutte le facce del razzismo e delle frontiere, mostrando solidarietà con azioni quotidiane, individualmente e collettivamente da una prospettiva anarchica. Inoltre è attivo un supporto legale gratuito e collettivo, con cui proviamo, oltre a condividere le conoscenze giuridiche, a creare uno spazio di incontro e di scambio di informazioni. Molti consigli e contributi utili sono raccolti nel “Manuale contro la reclusione e le espulsioni”, tradotto (fino a ora) in castigliano, francese, inglese, russo e arabo. Dal 2013 abbiamo deciso di iniziare una nuova strategia di lotta che miri alle tasche di chi lucra con le frontiere e la repressione delle persone migranti. Insieme ad altri collettivi presenti sul territorio spagnolo abbiamo deciso di iniziare con una delle attività più lucrative, quella delle deportazioni aeree. Perciò, uno degli obiettivi di questi prossimi mesi sarà la propaganda e le attività contro la compagnia Air Europa e Globalia, l’impresa a cui appartiene. Il nostro spazio funziona in forma autogestita, assembleare e antiautoritaria.
Qual è la situazione delle persone migranti a Barcellona e quella del CIE ?
Non è così facile rispondere a questa domanda tenendo in considerazione tutte le sfaccettature della realtà di una città grande come Barcellona. Il soggetto migrante non è un soggetto unico, ci sono migliaia di persone che vivono, sopravvivono, lavorano e si arrangiano in questa città.
Da dove cominciare? Beh, prima di tutto la realtà della migrazione in Catalogna non è vecchia come quella italiana, basti considerare che fino agli anni ’80 in Spagna vigeva la dittatura franchista, era un paese chiuso e con un’economia poco sviluppata. La migrazione era principalmente interna, dall’Andalusia rurale all’industrializzata Catalogna.
Dopo gli anni ’80 cominciò la prima fase migratoria, il boom immobiliare creò un mercato assetato di manodopera a basso costo. Iniziarono ad arrivare persone soprattutto dal Maghreb e dall’America Latina, i primi per una vicinanza geografica e i secondi per il passato coloniale della penisola.
Dunque ci troviamo davanti a una popolazione migrante abbastanza giovane, al massimo di seconda generazione.
Barcellona è una delle città più ricche e industrializzate di tutto lo stato, è un porto e di conseguenza uno dei luoghi dove si concentrano molte comunità.
Secondo uno degli ultimi censimenti, le comunità più numerose sono originarie dell’America Latina, vivono qui anche magrebini, pakistani, cinesi, filippini, persone dall’Africa sub-sahariana, di altri paesi europei, ecc…
Dopo la cosiddetta crisi economica, che nello stato spagnolo ha coinciso con la crisi immobiliare, sono stati create le prime chiamate al “ritorno volontario” delle persone non comunitarie. Programmi di rimpatrio remunerati e “volontari”, che coincidevano con la prima ondata di sfratti a discapito di tutte quelle persone che avevano sulle spalle mutui sulla casa e che, con il crollo del mercato immobiliare (molte persone migranti erano impiegate nell’edilizia), non potevano più pagarli. Attualmente la politica delle deportazioni e delle deportazioni di massa è in un momento algido.
Dietro questo razzismo di stato si nascondono incassi milionari, la multinazionale Globalia ha vinto un appalto di circa 12 milioni di euro all’anno per effettuare voli di deportazione. Negli anni passati sono state deportate all’incirca 40.000 persone. La maggior parte delle deportazioni avvengono mediante il Cie o la questura, ma ce ne sono anche tante attraverso il carcere.
Il nostro collettivo negli ultimi anni si è dedicato a diffondere informazioni sulle deportazioni collettive e soprattutto a segnalare tutte quelle imprese che stanno incassando profitti con queste politiche.
Ovviamente tutte queste deportazioni (che comunque in percentuale non sono moltissime, ma agiscono come un fattore di paura e minaccia sulla popolazione migrante), sono accompagnate da una politica di strada asfissiante. Barcellona è una città con moltissima polizia in strada, il controllo è capillare e la gentrificazione ha la sua responsabilità in questo fenomeno. Le retate sono all’ordine del giorno: impossibile passeggiare al centro senza assistere a uno di questi fermi degradanti e razzisti.
Anni fa c’era un collettivo che si dedicava a interporsi alle retate, ma ora non è più attivo. Ci sono comunque esperienze di resistenza informali o più organizzate come il collettivo “Tras la manta” o il “Sindacato Popolare dei Venditori ambulanti”.
Rispetto al Cie di Barcellona c’è parecchio da dire: attualmente è chiuso per ristrutturazione e perciò sono previste iniziative dirette a bloccare il momento della riapertura. Alcuni collettivi anarchici e libertari hanno lanciato un’iniziativa chiamata Día X (Giorno X), con il fine di bloccare il perimetro industriale in cui si trova il Cie, il giorno della riapertura. Il Cie si trova in un’area industriale nella periferia della città, un luogo inospitale e appartato, lontano da qualsiasi cosa. In quella zona si trovano i capannoni di smistamento delle merci, il Mercabarna, insomma, un non-luogo per le persone, però uno snodo importante per il flusso di capitale.
In ogni caso esistono molti dibattiti attorno alla riforma del Cie e sicuramente c’è da fare un’analisi del momento attuale della città che ha un governo di sinistra democratica. Il partito che ha vinto le elezioni comunali, BCN en Comù, ha un approccio molto progressista verso le battaglie portate avanti da piattaforme di cittadini. Attualmente è in corso una “commissione di lavoro” promossa dal Comune, a cui partecipano sia la sindaca Ada Colau che i vari corpi di polizia e i gruppi di cittadini organizzati sensibili alla tematica dei Cie, che ha come obiettivo di generare un dibattito democratico sul tema del Cie.
La morte di vari prigionieri del Cie negli ultimi anni, dovuta a omissione di soccorso o a veri e propri pestaggi, è stata la scintilla per far scoppiare quest’indignazione popolare, che nonostante chieda la chiusura del Cie, collabora attivamente con il potere che li rende possibili e ha come interlocutori personaggi politici, parlamentari europei e stampa.
Dal canto nostro, sono molti anni che organizziamo manifestazioni sotto le mura del Cie, saluti, diffondiamo informazione, cercando di tenerci in salvo quanto più possibile dall’intrusione e assorbimento delle lotte da parte dei partiti e delle istituzioni. In ogni caso ci siamo trovati di fronte a varie difficoltà, in primis la geografia e la stessa struttura del Cie di Zona Franca. Come detto prima, si trova molto isolato dalla città, in uno stradone di quelli che non hanno nome, ma numeri e lettere e ha una struttura completamente chiusa, un quadrato circondato da mura altissime con barriere fonoassorbenti. Le finestre danno a un patio interno ed è impossibile comunicare con i prigionieri da fuori.
Attualmente il tempo massimo di detenzione è di 3 mesi, prima della deportazione o della messa in libertà con foglio d’espulsione, dunque è difficile stare in contatto con i detenuti, e sono anche poche le esperienze di rivolta che in esso avvengono.
– Cosa è cambiato con la nuova amministrazione al governo nella città?
Come si diceva sopra, da un punto di vista democratico c’è un dibattito aperto: la sindaca partecipa alle manifestazioni per la chiusura del Cie, sulla facciata del comune c’è uno striscione che dice Refugees Welcome. Inutile dire che nella realtà per le persone migranti non è cambiato niente, anzi, oserei dire che la situazione è peggiorata.
Da qualche mese sembra che il nemico numero uno della città siano diventati i venditori ambulanti (in spagnolo “manteros”), che lavorano nelle zone iper-turistiche della città, raccogliendo le briciole del mercato miliardario del turismo barcellonese. Da quando la Colau ha vinto le elezioni si è sguinzagliata la repressione verso questo collettivo, costituito nella sua totalità da uomini e donne di origine sub-sahariana. Retate, caccia all’uomo nei corridoi della metro, sgomberi delle case occupate dai venditori, sequestro della merce, minacce, ecc…sono all’ordine del giorno.
Come risposta alla brutalità della polizia e all’impossibilità di continuare a fare mercatini nelle zone turistiche, il collettivo dei “manteros” ha fondato il “Sindacato Popolare dei Venditori Ambulanti”. Lo chiamano sindacato, ma non ha nessun riconoscimento istituzionale, è una forma con la quale questo gruppo, appoggiato dai movimenti sociali autonomi, rende visibile la propria situazione. Organizzano manifestazioni, mercatini ribelli in collaborazione con attivisti di varie provenienze politiche e portano avanti un discorso contro la repressione e sulla loro necessità di lavorare per sopravvivere.
Quando si fondò il Sindacato, la sindaca convocò una tavola rotonda per parlare democraticamente del problema. Ne facevano parte oltre ai sopracitati, anche l’associazione dei commercianti, come denuncianti della vendita illegale. Il sindacato accettò di sedersi al tavolo dei potenti, partecipando al dibattito. Risultato: dopo un paio di incontri, il comune ha convocato una conferenza stampa (della quale non aveva comunicato nulla al sindacato) e ha annunciato che la vendita di prodotti illegali era una cosa inaccettabile e che sarebbe stata gravemente punita. Fine del dibattito democratico.
Come reazione, i “manteros” pubblicarono vari comunicati in cui dicevano di sentirsi manipolati e ingannati, usati dal comune per la creazione di un’immagine di un’amministrazione aperta e antirazzista. Da quel momento la pressione della polizia sul collettivo dei “manteros” non ha fatto altro che aumentare fino ad arrivare all’incidente di pochi giorni fa in cui, durante una retata particolarmente aggressiva, uno dei ragazzi, Sidil, si è difeso e adesso è in carcere con l’accusa di aver aggredito un poliziotto. In questi giorni c’è abbastanza movimento in città per rendere visibile questo caso e per chiedere la libertà di Sidil.
– Come è organizzata la resistenza contro le deportazioni e la repressione?
Quello delle deportazioni è diventato un tema di grande interesse per il nostro collettivo da almeno un paio d’anni. Un po’ eravamo stanche di essere solo concentrate sul Cie (che comunque ora è chiuso), per le limitazioni di cui sopra, un po’ perché il tema delle deportazioni apre un’interessante spiraglio di lotta rispetto anche alle imprese che si arricchiscono con queste e allarga l’orizzonte di analisi rispetto alla macchina del razzismo, che è una realtà complessa che va molto più in là della detenzione nei centri per stranieri.
Sono state organizzate tante iniziative in questo senso: presentazioni informative, azioni all’aeroporto, manifestazioni in città, biciclettate, una campagna di boicottaggio e segnalazione contro AirEuropa e la multinazionale Globalia.
Esiste anche una rete a livello nazionale che si occupa di diffondere informazioni rispetto ai voli di deportazione previsti verso vari paesi. Si dà l’allarme per allertare la popolazione migrante di quel paese o area geografica specifica, si rende pubblico il giorno e l’aeroporto da cui partirà l’aereo, e poi ognuno si organizza come può.
Noi diffondiamo da anni un manuale contro la detenzione e l’espulsione tradotto in varie lingue in cui diamo consigli legali e pratici per resistere a una deportazione. Anche se ora con i voli di massa è molto più difficile riuscire a evitare che questo succeda, difatti sono stati creati proprio per impedire che i passeggeri o la popolazione solidarizzino con la persona deportata.
– Che iniziative sono state realizzate negli ultimi mesi ?
In questi ultimi mesi, da un lato ci siamo concentrate sulla questione della riapertura del Cie e poi ovviamente, da un punto di vista più ampio, anche sulla questione dell’accordo tra UE e Turchia e la militarizzazione delle frontiere. Ultimamente ci sono state manifestazioni contro l’accordo, anche una solidale con quella del Brennero che si è tenuta in Italia.
In generale in città si è generata anche un’assemblea molto ampia sulla questione dei rifugiati, anche se a Barcellona la questione non è certo come in Grecia: qui non c’è un’emergenza rifugiati in strada, non c’è una frontiera calda (al sud si, ma è molto lontano e comunque la rotta migratoria del Marocco si è quasi spenta). Qui l’attenzione è molto più concentrata sulla questione delle deportazioni, sui manteros e tutto ciò che si diceva sopra. Comunque tutta l’ondata mediatica sulla questione rifugiati ha scosso un po’ le coscienze sul tema della migrazione, anche se spesso in quella maniera miope e parziale che rende possibile concetti come la differenziazione tra migranti e rifugiati.
C’è da dire che per la prima volta anche la manifestazione del primo maggio ha avuto un’attenzione sulle tematiche antirazziste e difatti si è conclusa con l’occupazione del freespot Mukhayyam. Quest’iniziativa nasce un po’ dall’esperienza di altri paesi, sopratutto Grecia, dove l’arrivo di moltissime persone migranti, intrappolate nel paese a causa della chiusura delle frontiere ha generato una situazione d’emergenza e una risposta solidale da parte dei movimenti sociali.
In Catalogna non si può certo parlare di emergenza, però alcune individualità hanno deciso di riunirsi per aprire questo spazio destinato a persone migranti e in transito. Voleva essere anche un luogo di incontro a partire dal quale tessere reti con persone migranti, un megafono per diffondere un discorso critico su questi temi. Purtroppo pochi giorni dopo è stato sgomberato, c’è stata una concentrazione abbastanza numerosa in risposta allo sgombero. Comunque l’assemblea che ha organizzato l’apertura del freespot è ancora attiva.
Qui c’è il link con i podcast del programma radio che il Te Kedas Donde Kieras sta trasmettendo da qualche mese. Il programma si chiama Harraga ed è un tentativo di approfondire e di dare diffusione ad un discorso contro le frontiere con una prospettiva combattiva.