Di seguito vi proponiamo la traduzione di un articolo scritto da Dilar Dirik, compagna curda e dottoranda presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cambridge.
Pensiamo che la lettura del testo apra, nell’ottica di una crescita, delle riflessioni sulla solidarietà per rafforzare un fronte comune di lotte senza frontiere.
Le dinamiche raccontate possiamo riscontrarle nel posizionamento, nei discorsi e nell’agire politico di numerosi gruppi internazionalisti occidentali ma, nella profonda critica proposta, possiamo riconoscere limiti e problemi del nostro stesso agire.
Buona lettura.
Sfidare il privilegio: sulla solidarietà e l’autoriflessione
fonte: kurdishquestion.com
La solidarietà non è carità unilaterale praticata da attivisti privilegiati, ma un processo multidimensionale che contribuisce all’emancipazione di tutte le persone coinvolte.
Un uomo tedesco non è colpito dal progetto di democrazia di base in Rojava perché ha visto qualcosa di simile decenni fa in America Latina. Una donna francese rimprovera le donne kurde di una mancanza di preparazione durante la sua visita perché non sono organizzate come le donne afghane che lei ha conosciuto negli anni ’70. Una persona riesce a passare come un membro rivoluzionario del Rojava dopo un viaggio di una settimana e senza avere accesso a media e letteratura in qualche lingua mediorientale, ma la sua opinione è comunque considerata più legittima e autentica di quella delle persone che lottano.
Cos’hanno in comune le esperienze di queste persone?
Esse mostrano un interesse e una preoccupazione genuine, e i loro sforzi meritano il dovuto credito. Ma c’è qualcosa di più: l’elemento che sta alla base di un sistema che permette alle persone di completare la loro lista del turismo rivoluzionario – negli scorsi decenni in particolare in Palestina e Chiapas, adesso in Rojava. Questo elemento è un qualcosa che i rivoluzionari devono problematizzare attivamente: il privilegio.
Per fare chiarezza dal principio: come qualcuno che scrive quasi prettamente per un pubblico internazionale, che facilita la comunicazione e incoraggia le delegazioni in Kurdistan, io appartengo a quelle persone che fondamentalmente danno valore a questo tipo di scambio e lavoro. Ma le persone che dichiarano solidarietà e che sono in una posizione privilegiata, che permette loro di viaggiare ed essere ascoltate, hanno l’obbligo morale di usare al meglio questo privilegio. L’intenzione di questo articolo è contribuire al dibattito sui problemi che emergono quando vengono stabilite relazioni gerarchiche in nome della solidarietà.
Sfidare i privilegi
In un mondo di stati nazione capitalisti e patriarcali, considerare se stessi come cittadini del mondo e opporsi alle idee di nazioni e stati è un atto di ribellione. Tuttavia, pensarsi come rivoluzionari internazionalisti non cancella condizioni inique e privilegi. È necessario andare oltre.
Prima di tutto, c’è una serie di privilegi materiali e risorse di cui una persona beneficia: passaporti di stati che ti aiutano a viaggiare quasi ovunque; parlare lingue internazionali e possedere un vocabolario teorico che ti facilita nell’articolare e dar forma a un discorso; padroneggiare strumenti intellettuali grazie all’educazione di base, così come avere tempo, sicurezza e soldi a sufficienza per procurarsi la maggior parte di queste cose. L’assenza di guerra, morte, distruzione, evacuazione, carestia e traumi ti permette di condurre ricerche in sicurezza e comodamente, prendere decisioni e pianificare a lungo termine, vivere secondo principi senza troppi ostacoli.
Il solo fatto di avere la possibilità di sedersi a prendere un caffè, leggere su un argomento da fonti scritte nelle storiografia, teoria, lingue e epistemologia occidentale-centriche è un privilegio che la maggior parte delle persone non bianche e i lavoratori non hanno. E anche se ce l’avessero, spesso a queste persone manca un ambiente politico in cui poter discutere le loro visioni.
Il solo fatto che io stia scrivendo questo articolo altresì indica il privilegio di qualcuno che proviene da un gruppo oppresso e marginalizzato ma che, rispetto alla sua gente, ha accesso ad alcune risorse e vantaggi. Ovunque esista il privilegio, esiste la relativa responsabilità di sfidare il privilegio. Il problema non è tanto la mera esistenza del privilegio, quanto la creazione di relazioni gerarchiche e -involontariamente- l’atteggiamento paternalistico e di appropriazione nel lavoro di solidarietà, che interrompono la comprensione reciproca e l’avanzamento.
Alcuni hanno espresso il loro stupore per l’ignoranza delle persone locali riguardo lotte simili alle loro in un altro capo del mondo, e hanno tentato di rendere più tenui i discorsi delle vittime perché la loro realtà quotidiana era troppo dura per essere ascoltata dalle delicate orecchie occidentali. Altri hanno rifiutato ogni forma di auto-riflessione quando sono stati accusati di aver distorto il discorso sulla lotta delle persone attraverso narrative imposte in un modo alienante per le persone in questione, insinuando invece che le persone oppresse dovrebbero essere grate di ricevere una qualsiasi attenzione.
Il problema sta nella facilità con cui una persona privilegiata si senta in diritto di poter scrivere interi libri su un’intera regione senza averla mai visitata. È la bianchitudine maschile di intere sessioni di conferenze “radicali” sulle lotte portate avanti da persone di colore. È la famosa espressione di simpatia della persona bianca per una causa che dà a chi la sposa la possibilità di essere alla moda. È la velocità con cui le motivazioni riguardanti lotte per la vita e la morte vengono abbandonate come una patata bollente non appena queste stesse lotte diventano più complicate di quanto previsto.
Com’è conveniente per un rivoluzionario aver la possibilità di scrollarsi di dosso responsabilità e identità senza altre complicazioni! Molte persone di sinistra provenienti da nazioni privilegiate, mentre sottolineano spesso in modo militante di non rappresentare alcuno stato, esercito, governo o cultura, possono però facilmente analizzare milioni di persone come un gigantesco blocco monolitico. Cancellando i propri contesti, spesso concedono per se stessi un agire individualistico e complesso, sentendosi in questo modo piuttosto generosi e caritatevoli quando discutono tra loro su chi “meriti” supporto, mentre l’Altro sfuma in astratte identità.
I veri compagni si vedono nella notte più fredda
I modi in cui oggi la solidarietà è progettata per lo sguardo occidentale ha un altro effetto devastante sui movimenti: la competizione tra le persone in lotta per l’attenzione e le risorse. Invece di costruire legami tra loro, le persone che lottano sono costrette a combattere prima per ricevere le attenzioni della sinistra occidentale, cosa che mette le comunità l’una contro l’altra ed è distruttiva per l’internazionalismo. Come fa notare Umar Lateef Misgar, un attivista del Kashmir: è come un’evoluta forma del divide et impera di coloniale memoria.
Sopratutto il maschio bianco istruito ha il lusso e privilegio di poter visitare ogni luogo in cui è in corso una rivoluzione, di appropriarsene come preferisce, e poi di provvedere a criticarlo senza condizioni e senza sentire mai la necessità di guardare in casa propria. Spesso con un senso di possesso senza responsabilità, può avvicinarsi a livello internazionale, allontanarsi a livello locale e viceversa. La sua identità trascende l’etnicità, la nazionalità, il genere, la classe sociale, la sessualità, la fisicità, l’ideologia, perché è l’incarnazione dell’impostazione predefinita, lo status quo – egli a malapena vive o conosce il significato della devianza. Non sa che la maggior parte delle lotte inizia da una richiesta di riconoscimento, di un posto nella storia, perché è lui quello che la scrive. Così spesso non riesce ad afferrare le motivazioni rivoluzionarie oltre la teoria. È questo purismo ideologico che gli permette così facilmente di rinunciare alla solidarietà con le lotte, ed è anche forse la più grande espressione del suo privilegio: può permettersi di essere dogmaticamente, ideologicamente puro; può predicare consistenza teorica, perché il suo interesse per una lotta non è una questione di sopravvivenza ma mera attrazione. Non è obbligato a sporcarsi le mani. Può allontanare il suo sguardo dalle persone che combattono per la vita, perché non è lui quello che deve equilibrare gli ideali contro tutti i tipi di condizioni geopolitiche e socio-economiche, conflitti religiosi ed etnici, violenza, guerra, tradizione, traumi e povertà.
Ed è per questi motivi che le persone possono abbandonare una causa tanto velocemente così come velocemente l’hanno abbracciata, perché la risoluzione di errori, limiti e ostacoli che le rivoluzioni affrontano richiederebbe uno sforzo che loro non vogliono fare – discussioni teoriche o conferenze con caffè e torta sono spazi molto più comodi per le invettive radicali rispetto a quell’inferno chiamato Mesopotamia.
Quando le persone non ricevono dalle lotte reali le gratificazioni immediate, richieste dalla mentalità capitalista che hanno interiorizzato, possono lasciar cadere in fretta momenti storici della rivoluzione. L’opzione di abbandonare, di ritirarsi da una causa non appena il fascino romantico iniziale svanisce e ne emerge la crudezza, semplicemente non è disponibile per le persone che lottano per la vita o la morte. I veri compagni, dopotutto, non si vedono col tepore del sole ma nella notte più fredda.
Lotte legittime messe alla prova
Qualche tempo fa, appartenenti all’estrema sinistra hanno scritto articoli botta e risposta sul Rojava senza avere alcun contatto con la realtà sul campo, attraverso supposizioni e argomenti che erano dei non-problemi per le persone coinvolte. Presto ciò si è trasformato in una discussione profondamente orientalista interna alla sinistra occidentale, dove un uomo bianco si rivolge a un altro, senza che nessuno sia stato nella regione o abbia letto qualcosa di diverso da opinioni di altri uomini bianchi trovate online – con il Rojava utile semplicemente come metafora del Terzo Mondo su cui poter proiettare tutte le ideologie e ipotesi.
Naturalmente le analisi e la prospettiva critica internazionali sono fondamentali per i processi rivoluzionari, ma i dogmatismi, gli sciovinismi e l’arroganza sono al servizio di un obiettivo opposto. Tralasciando il fatto che queste persone erano molto lontane dall’organizzare rivoluzioni nei propri contesti, comunque si sentivano nella posizione di giudicare autorevolmente cosa fa o no una rivoluzione offrendo inoltre consigli e direttive alle persone che formano comuni autonome di donne mentre combattono l’ISIS.
In un certo senso, tale falsa rappresentazione e distorsione sono necessarie per legittimare immagini orientaliste e interventi colonialisti. Come ha elaborato Sitharthan Sriharan, un attivista Tamil, “i privilegiati di sinistra spesso, con le loro azioni, aiutano a produrre e a riprodurre le stesse forze di cui si dichiarano nemici.”
È interessante vedere come lotte legittimate nel corso di decenni dalle migliaia di persone che ne hanno preso parte, debbano esser messe alla prova del nove dalla sinistra ed essere giudicate dall’Occidente prima di essere ritenute importanti. Simili presupposti fanno male ai movimenti di liberazione, nella misura in cui si rifiutano di darne un’attenzione appropriata e un’accurata rappresentazione; possono realmente causare significativi danni politici, sociali, economici ed emotivi, perpetuare la disinformazione e delegittimare intere lotte attraverso un discorso dominato da gruppi esterni.
Queste attitudini fondamentalmente affondano le proprie radici nelle ideologie eurocentriche che hanno stabilito il loro imperialismo culturale tramite colonialismo, dogmi modernisti e capitalismo. La violenza simbolica che ritrae la storia occidentale come moderna e universale oggi si manifesta nelle forme di orientalismo nelle scienze sociali e influenza il modo in cui ampie sezioni della sinistra occidentale intendono la solidarietà.
Accorgersi del proprio privilegio
L’assunto per cui la solidarietà sia unidirezionale, qualcosa che uno dà e un altro prende, è fallace dal principio. La solidarietà oggi, specialmente nell’era dell’informazione e della tecnologia digitale, è espressa in un modo che articola una relazione dicotomica tra un soggetto attivo e pensante che “procura” solidarietà a una causa e un gruppo che può solo reagire come oggetto passivo senza il diritto di offrire un riscontro critico rispetto a quale tipo di solidarietà sia richiesto.
I distributori di solidarietà possono apparire da ovunque, cancellare i propri contesti di provenienza e autonominarsi dominatori del discorso. A loro è garantita una visione a volo d’uccello, che permette prospettive analitiche distanziate e autorità, dovuta a una supposta posizione “imparziale”. Questo crea immediatamente una gerarchia e l’aspettativa che il gruppo che riceve solidarietà debba dimostrare gratitudine e deferenza a chi la offre, ponendosi così alla mercé della persona che garantisce il supporto. Ciò spesso segna la fine della solidarietà e l’inizio della carità.
A ogni modo, i gruppi oppressi non hanno l’obbligo o la responsabilità di dar niente in cambio. Come fa notare la mia cara amica Hawzhin Azeez da Kobane: “Non dobbiamo ringraziare le persone privilegiate per essersi accorte dei loro privilegi e fare la cosa giusta. Non dobbiamo aspettarci nulla di meno da loro perché questo è il presupposto implicito che sta alla base della solidarietà.”
Le persone che si dichiarano alleate devono essere disposte a caricarsi il peso di un duro lavoro. Dovrebbero ricordare a se stesse i propri privilegi, sfidarli costantemente e annullarli per trasformarsi in strumenti capaci di amplificare le voci e i principi dei movimenti con cui affermano di essere solidali – invece di diventare la voce o l’incarnazione della lotta altrui. Non dovrebbero aspettarsi gratitudine e medaglie al valore per comportarsi eticamente, almeno non da persone marginalizzate che sono solo felici che qualcuno stia parlando della loro battaglia per l’esistenza.
Dalla carità alla solidarietà, dall’insegnare all’imparare
Il movimento di liberazione kurdo utilizza “critica e auto-critica” come meccanismi produttivi ed etici per migliore se stessi, gli altri e il gruppo. Criticare un altro significa anche essere in grado di criticare se stessi. La critica non è intesa per danneggiare gli altri, ma è fondamentalmente basata su empatia, onestà e risoluzione dei problemi.
Il lavoro solidale non immunizza di certo nessuno dalla critica. Al contrario, la richiede. Per essere davvero etica, la solidarietà si basa essenzialmente su questa. Ma, a oggi, il lavoro solidale della sinistra eurocentrica è stato largamente privo di questo tipo di critica, accentuando gli ostacoli interni alla sinistra occidentale e la sua incapacità di organizzare o persino discutere le premesse di base.
Fondamentalmente, un vero rivoluzionario è una persona che inizia un processo rivoluzionario interiore partendo da se stesso.
La solidarietà non è un progetto di carità, ma un processo orizzontale, multidimensionale, educativo e pluridirezionale che contribuisce all’emancipazione di tutte le persone coinvolte. Solidarietà significa essere allo stesso livello dell’altro, stare fianco a fianco. Vuol dire condividere competenze, esperienze, conoscenze e idee senza perpetuare relazioni basate sul potere. La differenza tra carità e solidarietà è che la prima ti definisce “stimolante” e vuole farti la lezione, mentre la seconda ti chiama “compagno”, e vuole imparare da te qualcosa. Per affrontare questi problemi, non è abbastanza l’autoriflessione per ogni individuo. In realtà abbiamo bisogno di un nuovo paradigma di solidarietà in cui sfidare sistematicamente l’appropriazione e l’abuso di potere e assicurare meccanismi di educazione reciproca e un cambio di prospettiva.
Sostanzialmente, solidarietà significa avere empatia e rispetto per le lotte degli altri, considerare se stessi come combattenti dalla stessa parte quando ci si impegna in un processo di auto-liberazione reciproca, senza ignorare i differenti punti di partenza, le esperienze, i contesti e le identità. La migliore gratificazione di una solidarietà genuina è che tutti i soggetti coinvolti imparino gli uni dagli altri come organizzarsi. Pertanto, in conclusione, come sottolineano le persone provenienti da posti come il Chiapas o il Kurdistan, solidarietà vuol dire “andare a fare una rivoluzione nel proprio posto!”.
Una politica di identità senza internazionalismo rimarrà sempre limitata, in quanto non può portare a una ampia emancipazione in un sistema globale di oppressione e violenza, così come l’internazionalismo senza il rispetto per le lotte radicate localmente rimarrà superficiale e fallimentare, in quanto incapace di riconoscere la profonda complessità delle diverse frequenze delle grida per la libertà.
Farmi le spalle larghe, rafforzerà anche voi – e questa è la sola formazione nella quale possiamo combattere contro quest’ordine mondiale sessista, razzista, imperialista, capitalista e assassino.