Persone che avevano coscientemente deciso di vivere in condizioni disagevoli nel campo autogestito pur di poter sfidare quotidianamente la chiusura della frontiera e continuare il loro viaggio. Abbiamo tradotto questo contributo su quanto sta avvenendo, perché viene criticato l’approccio pseudo-umanitario che permette a “volontari” e autorità la gestione delle vite delle persone migranti, contro la loro volontà. È un approccio purtroppo all’opera anche in Italia, persino nell’ambiente di sinistra e solidale, che giustifica con il termine bonario di “accoglienza” il confinamento, il controllo, la selezione ai fini della deportazione e lo sfruttamento dei/delle migranti. Anche in Italia le proteste dei/delle migranti contro il sistema dell’accoglienza vedono spesso l’intervento di operatori e solidali benintenzionati interessati più a minimizzare e spegnere il conflitto per non mettere in crisi il “progetto di accoglienza”, che a supportare chi protesta nelle sue rivendicazioni. Pur non condividendo alcuni termini usati nello scritto (rifugiati – che preferiamo sempre tradurre con “migranti” per non avallare distinzioni – dignità) ci sembra un contributo interessante da far circolare.
Traduzione da refugeetrail.wordpress.com
Zitto e mangia la minestra
Oggi le autorità greche hanno dato l’avvio a quello che minacciavano da tempo: lo sgombero dell’accampamento di Idomeni. Il portavoce del ministro dell’immigrazione ha detto che tutti sapevano che “le condizioni di vita” sarebbero state migliori nei campi in cui le persone saranno ricollocate e aveva promesso che “non sarebbe stata usata la forza”, ma anche che si aspettava che le 8000 persone che hanno vissuto lì per mesi sarebbero state spostate in meno di una settimana. Per garantire che nessuno potesse vedere il modo pacifico con cui Idomeni sarebbe stata sgomberata, a giornalisti e attivisti è stato precluso l’accesso all’area.
Una spiegazione di come questo paradosso dello spostamento non violento di migliaia di persone, che non avevano intenzione di spostarsi, potesse essere risolto, è stata data da un rappresentante di MSF, secondo il quale la gestione del campo da parte della polizia ha “reso complicata la fornitura di cibo e l’assistenza sanitaria”.
Si tratta di una mossa simile a quella riportata dai/dalle migranti di Vial a Chios, quando venne detto loro che avrebbero dovuto lasciare il campo per trasferirsi nell’altro hotspot di Kos: “Non avevamo l’acqua per poter usare i bagni o poter farci una doccia”, ha detto un migrante. “Avevamo giusto l’acqua potabile da bere. La polizia ha tagliato l’acqua perché, ci hanno detto, dobbiamo spostarci su un’altra isola”.
Queste tattiche vengono solitamente definite assedi di guerra, intimidazioni, abusi o, per ultimo, atti antiumanitari. Ma negli ultimi tempi sembra essersi affermata la scuola di pensiero che ritiene queste pratiche non sostanzialmente sbagliate, trattandosi solo di una questione di procedure. Il lavoro umanitario consiste nel trovare “un buon posto”, identificato dai volontari o dalle autorità, dove poter trasferire i/le migranti. I desideri e le richieste dei/delle migranti sono semplicemente ignorati. Questo approccio cresce naturalmente nel contesto della politica di confine europea, e dovremmo cominciare a resistere e opporci ad essa.
Rimani in fila
Non è solo il consueto sentimento europeo di superiorità che nutre questo atteggiamento. Durante il lavoro che ho svolto nelle mense questo inverno, mi ha colpito quanto velocemente una mentalità paternalista, o peggio autoritaria, si possa sviluppare tra i volontari.
Noi, per lo più ventenni bianchi/e, eravamo donatori e loro riceventi. Noi avevamo cose che la maggior parte dei/delle migranti non aveva. Potevamo viaggiare, prendere in affitto case, guidare auto, mentre loro non potevano. Eravamo noi che l* facevamo mettere in fila, che decidevamo le loro porzioni, che decidevamo se una persona poteva ricevere una, due o nessuna porzione di zuppa, che l* facevamo allineare in fila, che facevamo rispettare la coda a chi la saltava e così via. Questa posizione di superiorità può facilmente sfociare nella prepotenza, e ho visto spesso e in diversi luoghi volontari urlare contro i/le migranti che erano in attesa in fila per ottenere un paio di mutande o una carta di registrazione. Si tratta di uno spettacolo che non vorrei vedere mai più.
Questa denigrazione è divenuta a volte sistematica quando le ONG e i distributori di cibo hanno marcato le unghie o distribuito braccialetti identificativi ai/alle migranti in modo da poter assegnare loro la “quota giusta”. La motivazioni sono candide, la pratica repellente. Ma quando le condizioni sono come erano quest’inverno in Grecia, la dignità dei migranti deve essere anteposta alle pratiche del lavoro umanitario. Le condizioni in cui sono stati portati dalla guerra a casa loro e dalla chiusura delle frontiere ci lascia pochissimi spazi di manovra.
Lo sfortunato risultato di questo schema è che “‘umanitarismo” è diventata una parola molto flessibile. Il trasferimento di migranti dall’hotspot sovraffollato di Vial a quello sull’isola di Kos potrebbe essere descritto come guidato da uno scopo “umanitario”, perché essi avrebbero avuto molto più spazio a Kos. Il fatto che essi fossero chiusi dentro, mentre a Vial erano liberi di uscire, mi è stato spiegato da un volontario come un piccolo e temporaneo inconveniente – non un abuso fondamentale dei diritti dei detenuti e un diniego della loro autonomia. Che i/le migranti detenute negli hotspot dicessero di subire trattamenti “da animali”, per molti vuol dire dar loro più zuppa, più spazio, più coperte piuttosto che una questione di dignità.
Apolitici
È questa ridefinizione della parola “umanitario” come semplice fornitore di “comfort” che permette alle autorità greche di presentare l’evacuazione dei residenti di Idomeni verso i campi “più umanitari”, come un aiuto ai poveri ignoranti spaventati migranti ad effettuare la scelta più saggia. (Questo si chiama agire come un “salvatore bianco”). Ma è semplicemente irrilevante quanto buoni siano i campi militari. Il punto è che ai migranti non è lasciata scelta. Quello che manca qui è quello che dovrebbe essere un principio fondamentale dell’umanitarismo: non opporsi alla volontà e desideri di chi vi è soggetto. Trascinare adulti come se fossero bestie da un luogo a un altro non è mai un aiuto, non importa quanto gradevole sia il luogo dove verranno sistemati.
Quando i/le migranti hanno occupato il porto di Chios, ne è nata una discussione simile. Avevano trovato un posto dove non potevano essere ignorati, dove i media hanno parlato con loro, dove le loro proteste sono state viste. Ma i volontari e le ONG li hanno supplicati di andare in campi “migliori” perché dotati di docce e letti caldi. Come se ciò importasse! Hanno scelto di dormire sul cemento, non perché fossero stupidi o privi di buon senso, ma perché volevano fare una dichiarazione politica. Ma che è caduta nel vuoto a causa di quei volontari che hanno lavorato “apoliticamente”; che volevano migliorare il comfort, non cambiare la società.
Le radici del volontariato apolitico meritano un approfondimento a parte, che non voglio fare in questa sede, ma più o meno significa lavorare all’interno del sistema, registrarti (farti accreditare) quando ti dicono di farlo e non andare dove non ti è permesso. A volte le persone in buona fede seguono questa semplice idea: trovare persone in difficoltà e fornire loro tutto ciò che li fa sentire meglio.
Mantieni la calma e mangia la minestra
Il rischio che i volontari non politicizzati corrono è quello di diventare strumenti pratici di una disumana politica statale, finendo col lavorare in condizioni che, a lungo andare, distruggono le speranze dei migranti – e che potrebbero col tempo eliminare ogni traccia di umanitarismo nel trattamento che ricevono.
Il caso più evidente di questo atteggiamento è quando i volontari dicono ai migranti di mantenere la calma. Si tratta di una strategia tipicamente non politica: se VOI mantenete la calma, NOI saremo meglio in grado di portarvi la zuppa. Manca completamente uno sguardo più ampio: i/le migranti vengono violentemente perseguitati dalla UE, e vogliono esporre la loro situazione al pubblico europeo. Non possono farlo senza l’attenzione dei media, e i media non si presentano senza che vi sia un “incidente”. I migranti devono piangere, morire di fame, gridare o annegare per rappresentare una storia. Non appena “l’umanitarismo” li avvolge nel suo abbraccio soffocante, vengono buttati fuori dalle prime pagine – e possono aspettare in silenzio la deportazione. (È anche opportuno ricordare che i migranti nell’hotspot di Vial hanno notevolmente migliorato le loro condizioni evadendo letteralmente dal carcere, dopo che i volontari gli avevano detto che sarebbe stato meglio “tacere”.)
E così, l’umanitarismo non politico raggiunge l’ obiettivo opposto. Rimuovendo i/le migranti dalla scena politica e dei media presso il porto di Chios, sgomberandoli da Idomeni, dalle piazze e dai parchi, dando loro quel tanto che basta di cibo per scongiurare la fame, le autorità sono riuscite a farli tacere.