Riceviamo e pubblichiamo.
Aggiornamento: Apprendiamo da Olga, da qualche settimana finalmente fuori da quelle maledette mura, che R. è stata trasferita nel carcere di Rebibbia. Al momento non sappiamo i motivi del trasferimento, potremmo fare numerose supposizioni ma, in attesa di ulteriori novità, quel che è certo è ancora una volta lo Stato infame che non tutela nessunx e non fa che spostare da un carcere all’altro, da un inferno all’altro, chi prova a ribellarsi alla violenza e lottare per la propria libertà.
R. è una ragazza di 17 anni assolutamente consapevole della violenza che lo stato sta agendo su di lei: per questo ha deciso di ribellarsi e raccontare la sua storia.
Ha 10 anni quando scappa con la madre dall’Ucraina e arriva in Italia. Qui frequenta le scuole nonostante i trasferimenti in varie città. A Brescia la madre trova un compagno che negli anni si dimostra autoritario e violento, tanto nei confronti della madre, alla quale impedisce anche di uscire di casa, quanto nei confronti di R. a cui viene anche impedito di vedere la madre.
R. è ancora minorenne, ma decide comunque che questa situazione non è più sopportabile: cerca allora di convincere la madre ad allontanarsi dal compagno e, quando questa si rifiuta, scappa di casa, riprendendosi libertà e indipendenza.
In questo periodo, dopo una rissa in cui lei non era direttamente coinvolta, viene convocata insieme a un’amica in questura per testimoniare ed entrambe vengono recluse in carcere per qualche giorno. L’amica di R. ha il passaporto ed è maggiorenne, ma non ha il permesso di soggiorno e dopo breve viene rimpatriata verso l’Ucraina. R. non ha i documenti con sé, e dopo 4 giorni viene rilasciata con un foglio di via.
Dopo qualche tempo si ritrova nuovamente tra le mani degli sbirri in questura. Lì viene tenuta in cella per due giorni senza che le venga nemmeno comunicato il motivo. Non le vengono dati né cibo né acqua; R. non ha con sé nulla, non un cellulare, non un assorbente, non un cambio, ha solo il certificato di nascita che però senza foto non basta come documento di riconoscimento. Iniziano gli interrogatori durante i quali, ammanettata alla sedia, subisce violenze da parte degli agenti, tanto che alcuni di loro intervengono per evitare che la cosa degeneri. R. non ci sta e nella cella si ribella a gran voce. Viene denunciata per danneggiamento aggravato perché accusata della rottura di una telecamera. Quindi è trasferita al CIE di Ponte Galeria. Solo una volta lì capisce dove è stata portata e cosa comporta e che, in quanto minorenne, in quel posto non ci potrebbe proprio stare. Cerca di contattare la madre in tutti i modi per farsi mandare il passaporto ma, ancora una volta, l’uomo non permette alle due donne di avere contatti e si rifiuta di aiutarla: “sei andata via, mo stai lì, magari quel posto ti raddrizza” le dice al telefono.
R. sa bene come tenere la schiena dritta e non si piega nemmeno di fronte ai controlli e alle perquisizioni delle guardie che per punirla sequestrano ogni oggetto che possa in qualche modo rappresentare autonomia, cura di sé o distrarla dall’oppressione di quel posto: specchi, pettini, accendini e persino le casse della musica, tutto è potenzialmente pericoloso e le viene quindi confiscato. Come in ogni carcere, nel lager di Ponte Galeria la spersonalizzazione delle detenute si attua anche attraverso il sequestro degli oggetti personali.
Ma questo non basta. La violenza dello stato agisce perfino nel supporre che la difficoltà di contattare e ricevere aiuto dalla madre, a causa della presenza di un compagno violento e possessivo,sia falsa, quindi la giudice non le crede, ritenendo impossibile che una famiglia neghi aiuto alla propria figlia: le viene così prolungata la detenzione ad altri 60 giorni per il mancato riconoscimento della minore età.
La storia di R. ci appare emblematica per aprire una riflessione su come la famiglia e i rapporti di potere che si generano al suo interno vengano usati come strumento di dominazione e controllo da parte dello stato patriarcale.
Infatti, la narrazione che fa R. fa della sua esperienza davanti ai giudici non viene ritenuta credibile perché questo comporterebbe la messa in discussione dell’idea di famiglia nucleare da fiction, unico luogo di protezione e cura, su cui lo stato stesso basa le sue fondamenta.
Ancora una volta, le pratiche liberticide dello stato puniscono, imprigionano e negano l’autodeterminazione delle singole persone.
Nemiche e nemici delle frontiere