Ieri si sono tenuti al Cairo i funerali pubblici di giovane Yousef, 13 anni, assassinato accidentalmente da una guardia che si divertiva a sparare durante il matrimonio di sua figlia. Nonostante si conoscano i nomi dell’ufficiale e del suo complice, i due restano irreperibili e c’è da credere che lo resteranno per sempre. D’altronde si tratta solo di un altro caso, l’ennesimo, di violenza ad opera delle forze dell’ordine del regime. Il centro el-Nadeem, ancora chiuso con sigilli, in questi giorni ha presentato il rapporto di maggio: 117 sparizioni forzate, 55 casi di tortura, 38 casi negligenza medica, 8 morti in detenzione. Cifre che danno bene il senso dell’inferno che è diventato l’Egitto dal 2013.
In questi giorni in Italia ci si indigna tanto di una pubblicità sul turismo in Egitto passata sui canali della RAI. Coloro che sostengono la campagna #veritàperGiulioRegeni la considerano l’ennesima prova che il governo italiano stia tentando di normalizzare completamente i rapporti con il regime di al-Sisi. Si ragiona e si parla come se davvero ci fosse mai stata una crisi tra i due governi. Come se il ritiro dell’ambasciatore (mentre quello che stava in Egitto durante la sparizione Giulio non ha mai chiarito quali siano state le mosse sue e del governo in quei giorni) avesse mai significato qualcosa. E questo proprio nei giorni in cui l’ennesimo gruppo di 20 richiedenti asilo egiziani sbarcato in Italia ha subito un’espulsione.
Ma non si tratta solo di questo.
Nei giorni in cui Sisi incontrava quei due campioni di democrazia che sono Trump e il re Salman, il regime ha dato il via a una campagna senza precedenti di detenzione di attivisti e persone legate a quel che resta dell’opposizione. Si parla di circa 42 persone in tutte le regioni del paese. Molte di loro sono state prelevate a casa, di notte, interrogate senza avvocati, sottoposte a soprusi. Tra di loro c’è anche uno dei volti più noti di quel che resta dell’opposizione politica al regime di al-Sisi: difensore di molti prigionieri del regime, Khaled Ali è anche l’esponente più in vista del gruppo di avvocati (tra di loro c’è anche Malek Adly arrestato e messo per mesi in isolamento) che sta lottando in tutte le maniere legali possibili per evitare la cessione di Tiran e Sanafir – due isole strategiche sul Mar Rosso – ai sauditi. Inoltre sempre Khaled Ali, prima del suo viaggio a Roma dove è stato pedinato da agenti segreti, del suo arresto e del suo processo, aveva espresso l’intenzione di volersi candidare alle prossime elezioni presidenziali del 2018.
Si tratta di due temi di capitale importanza per Sisi e il regime che lo mantiene in vita. Da una parte la necessità di cedere una fetta di territorio nazionale come contraccambio per l’aiuto economico ingente che l’Arabia Saudita ha fornito e continua a fornire al regime fin dal 2013. Il tutto all’interno di un accordo strategico e diplomatico tra Arabia Saudita e Israele.
Dall’altra la paura – che qualcuno ha definito eccessiva – di avere un qualsiasi rivale “vero” alle ormai prossime elezioni. Sisi e il suo regime temono di non controllare l’ordine basato sul terrore che sono riusciti a stabilire versando quanto più sangue possibile. L’Egitto è un paese letteralmente alla fame, alla ricerca disperata di dollari che sostengano le banche. Prendiamo l’esempio delle banane il cui prezzo è aumentato del doppio alla vigilia del Ramadan: produttori e Stato preferiscono esportare (verso Eu e Russia) per accumulare dollari, anche se ciò significa lasciare alla popolazione i frutti peggiori ad un prezzo altissimo. Lo stesso dicasi per i continui sgomberi di persone e attività in tutto il paese che effettuati in nome del decoro (anche in Egitto!) nascondono ben altri interessi e speculazioni. Qualche rivolta popolare e le continue proteste dei lavoratori che non smettono di scoppiare nel paese sono l’indice della disaffezione che la popolazione nutre contro quello che agli occhi di tutti ormai è solo un tiranno corrotto come i suoi predecessori.
C’è poi la questione Isis. La propaganda della dittatura sulle forze del male, sul terrorismo che colpisce dovunque al mondo, sulla guerra all’islam radicale, nascondono una disfatta militare, politica e sociale nella regione di al-Arish (nord Sinai). I numerosi attentati alla comunità cristiana copta, di una ferocia agghiacciante, sono la dimostrazione di quello che tutt* sanno: ovverosia che il regime non ha alcun interesse (o secondo alcuni non sia capace) a proteggere la popolazione civile. Con la complicità del papa di Alessandria – e relativamente di quello di Roma – la “questione copta” serve al regime per legittimare la repressione agli occhi dei suoi meschini alleati occidentali. Poco importa poi se davvero donne e bambini vengano massacrati o la popolazione sia costretta dalle milizie jihadiste a lasciare le case.
Questo e tanto altro spiega il perché della repressione che colpisce tutto e tutt*. In primis naturalmente, oltre all’attivismo, gli operai. Arrestati, torturati, processati da corti militari, messi sotto ricatto contrattuale. Il regime, come dicevamo, teme di perdere il controllo della situazione. Quello che avviene in Tunisia e Marocco è il segno che le controrivoluzioni del 2011 non hanno completamente azzerato i movimenti popolari che chiedono libertà, dignità e soprattutto giustizia sociale.
Lo stesso dicasi di media e ONG.
I primi sono accusati di diffondere informazioni erronee e ingannevoli sul regime al soldo di potenze estere che ne vogliono la caduta (il Qatar per esempio), salvo poi vedere che nella lista dei siti oscurati c’è anche Mada Masr, da sempre voce indipendente e d’opposizione. Quanto alle ONG è stata da poco varata una legge che sancisce la creazione di un apposita autorità nazionale, composta da ministeri, servizi di sicurezza e banca nazionale, il cui fine è quello, come sempre, esaminare/sorvegliare/punire.
Libertà per tutti e tutte!!