Venerdì 3 novembre 2017 un gommone con a bordo più di 150 persone è in viaggio nel Mediterraneo verso l’Italia. Il gommone è in difficoltà, comincia ad imbarcare acqua. Quando viene intercettato dalla nave militare spagnola Cantabria, che ha il comando tattico dell’intera operazione Sophia nel Mediterraneo centrale, molte delle persone sono già affogate.
L’obiettivo della operazione Sophia dell’Eunavfor-Med è infatti principalmente quello di “prevenire i flussi migratori illegali”, di effettuare “fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani”, di addestramento della guardia costiera libica: non certo il soccorso. Dalla Cantabria vengono recuperati 26 cadaveri e 64 sopravvissut*. La nave spagnola non si dirige verso i più vicini porti della Sicilia, forse perché siamo alla vigilia delle elezioni regionali e non si vogliono turbare gli elettori con nuovi sbarchi e morti, ma fa rotta verso Salerno dove arriverà la mattina di domenica 5 novembre. Le 375 persone imbarcate vengono identificate, selezionate e smistate, e come avviene in tutti gli sbarchi le persone adulte che provengono dai paesi del Maghreb (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco) sono respinte per direttissima, in questo caso si tratterà di 3 egiziani e 3 marocchini.
La notizia ha un ampio risalto sui media perché si viene a sapere che i 26 corpi appartengono tutti a giovani donne, e perché la realtà delle morti incrina la narrazione dei successi del governo nel fermare drasticamente il numero di sbarchi dalla Libia. Per questo motivo non viene diffusa l’informazione che nel naufragio sono morte altre cento persone non recuperate, e sui media locali e nazionali si scatenano le ipotesi più efferate e razziste: si lascia intendere che sono stati i loro stessi compagni di viaggio a picchiare, stuprare e uccidere le 26 donne. Un infame modo per assolvere le istituzioni.
Solo pochi giorni fa le dimensioni della strage vengono pubblicizzate, con molta meno enfasi, e le autopsie fanno chiarezza su quanto avvenuto: le 26 donne sono morte per annegamento, e non presentano segni di violenze recenti. Due vittime vengono riconosciute dai parenti sopravvissuti, altre 3 dai bigliettini ritrovati nei vestiti: sono Marian Shaka e Osato Osaro, di 20 anni, Ugechi Fawour Omba, 29 anni, Ozuoma Okpara, 24 anni e Loveth Jonathan, di età sconosciuta, tutte nigeriane.
Il 17 novembre si sono tenuti a Salerno i funerali delle 26 donne, il sindaco ha proclamato il lutto cittadino, l’evento ha visto la copertura giornalistica di media internazionali, che hanno rilanciato l’immagine di una città e di un paese accogliente e solidale, coraggiosamente alle prese con una drammatica emergenza umanitaria. In realtà in città viene applicata una tolleranza zero verso gli ambulanti immigrati, rom, senzatetto, parcheggiatori abusivi e in generale come d’altronde nel resto del paese, verso tutte le persone emarginate, e, passata la commemorazione, le pratiche repressive continueranno quotidianamente. Il cordoglio delle autorità nazionali e locali per le morti può ben sposarsi con la persecuzione e le violenze sui vivi, dai lager in Libia finanziati e voluti dal governo italiano in accordo con gli aguzzini locali, ai campi e centri dove le persone arrivate nel paese vengono segregate, alle retate e deportazioni, alla repressione delle proteste. Le stragi in mare delle persone migranti sono tutte e sempre stragi di stato. Gli stessi stati che non concedendo visti hanno costretto Marian, Osato, Ugechi, Ozuoma, Loveth e tutt* gli/le altr* a trovare la morte nel Mediterraneo, pagano aerei per deportare altre nigeriane recluse nei CPR, affittano traghetti per espellere i migranti maghrebini, bus per respingere le persone considerate irregolari alle frontiere. I viaggi sicuri sono solo per chi viene buttato fuori dalla fortezza Europa.