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Macomer è un comune di circa 10.000 abitanti, situato nel centro Sardegna, alle pendici della catena del Marghine, di cui è anche il centro principale.
Macomer ospita il 5° reggimento del genio guastatori e il comando della 45° brigata fanteria Arborea: questi due ingombranti ospiti ne fanno una succursale della Brigata Sassari, la storica brigata dell’esercito italiano, macchiatasi di incredibili massacri in tutte le guerre del ‘900 e ancora oggi presente su tutti i fronti di guerra aperti.
Una presenza così cospicua di militari e delle loro famiglie rende Macomer un paese tendenzialmente ubbidiente e allineato, probabilmente anche questo fattore ha inciso nella scelta dell’apertura del CPR.
Il CPR, di cui in questo momento i lavori sono in corso e in fase di ultimazione (prevista per dicembre), sorgerà nell’edifico del vecchio carcere di Bonu Trau, un “piccolo” carcere chiuso cinque anni fa quando il nuovo piano carceri portò all’apertura nella sola Sardegna di quattro nuove mega strutture, dislocate lungo i quattro punti cardinali.
Il CPR dovrebbe essere in grado di “ospitare” inizialmente 50 migranti da rimpatriare, ma il progetto prevede un raddoppio della capienza, in tempi non ancora chiari. I migranti potranno essere reclusi per un massimo di 12 mesi, più un’eventuale proroga di 15 giorni, se questa dovesse rendersi indispensabile per completare l’operazione di rimpatrio.
La comunità macomerese ha mostrato la sua contrarietà solo attraverso le parole di vari politicanti che hanno utilizzato la vicenda del CPR per farsi campagna elettorale o per criticare l’opposta parte politica. Il primo cittadino di Macomer, Antonio Onorato Succu, ha dichiarato, poco dopo la firma del progetto di costruzione: “Abbiamo posto condizioni accolte dall’alto rappresentante del ministero; ci ha dato rassicurazioni sul fatto che il CPR sarà una struttura di detenzione da cui gli ospiti non potranno uscire. Questo mi consente di tranquillizzare i cittadini sul rischio di disordine sociale e questo è sufficiente per andare avanti con il progetto.”
L’apertura del CPR viene criticata in quanto danno d’immagine a un territorio in difficoltà come il Marghine, che a detta di alcuni politici “avrebbe bisogno di ben altri investimenti da parte dello stato”, e, appunto, per un presunto pericolo sicurezza derivante dalla detenzione di 50 migranti.
Per sostenere queste tesi contrarie al CPR, e andare contro la maggioranza del consiglio comunale, è anche nato un comitato “No CPR”, formato da Destra sociale Sardegna, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Movimento Cristiano Forza Popolare, Riformatori e Movimento Zona Franca.
L’unico caso che si possa registrare di critica radicale all’apertura del centro sono delle scritte apparse nei pressi del cantiere la scorsa estate.
Viste queste preoccupazioni dei macomeresi per la presenza del CPR in città, l’ex ministro dell’interno Minniti, avendo anche visitato il centro nel gennaio 2018, ha pensato di destinare un bonus aggiuntivo di fondi per la sicurezza del territorio al comune di Macomer, 50.000 euro sono stati spesi per potenziare il sistema di video sorveglianza nelle strade dei dintorni del CPR, e per evitare possibili fughe dei prigionieri è stato aggiunto al progetto “un doppio perimetro di recinzione con vigilanza h24 delle forze dell’ordine e un nucleo di pronto intervento che stanzierà tra un perimetro e l’altro”.
PROSPETTIVE DI LOTTA:
Partendo dal presupposto che uno dei momenti migliori per intervenire è praticamente sfumato, e cioè la fase dei lavori prima dell’apertura, va detto che non è sfumato per dimenticanza o lassismo, ma per oggettive difficoltà nel proporre delle pratiche. Bisognerebbe saper immaginare un intervento diverso, che tenga però conto delle difficoltà che il territorio impone, sopra brevemente descritte.
La Sardegna, rispetto alle altre regioni dello Stato italiano, ricopre su tanti aspetti un gioco a parte, per la questione della detenzione dei migranti in particolare.
Questo perché in quanto isola non è altro che un’enorme prigione a cielo aperto, da cui è molto difficile andare via se si è senza documenti o agganci: passare il Tirreno non è come passare da un valico di montagna o da altri tipi di confine.
Le esperienze precedenti, degli allora CPT e CIE, ci hanno messo di fronte a difficoltà raramente superate. La vecchia struttura, ora abbandonata perché distrutta nell’ultima grande rivolta dei prigionieri che le diedero fuoco, era addirittura all’interno di un territorio militare, quindi in una zona non avvicinabile neanche con un corteo o un presidio. Però almeno si trovava nei pressi di Cagliari.
Tra i rari contatti che abbiamo avuto con persone recluse, o che lo erano state, abbiamo sempre constatato la loro volontà di lasciare la Sardegna il prima possibile, ciò ha dato luogo all’impossibilità di intessere relazioni durature.
Inoltre vi è anche da specificare il problema che l’arrivo dei migranti sulle coste sarde è per noi compagni un fenomeno del tutto imprevedibile e “incontrollabile”, nel senso che tutte le notizie che abbiamo sugli sbarchi sono sempre di seconda mano, o lette dai giornali o raccontateci da qualcuno che per vari motivi è informato sulla questione.
In passato, trovandosi il CIE nei pressi dell’aeroporto civile di Cagliari, avevamo trovato una certa efficacia nell’andare all’aeroporto a fare “rumore” durante le rivolte all’interno del CIE o ancora meglio durante la chiusura delle piste (e quindi lo stop a atterraggi e decolli) immediatamente dopo le fughe più o meno di massa.
Furono fatte anche iniziative contro le ditte che traevano guadagno in vari modi dalla gestione del CIE.
Tutto questo ora sembra piuttosto lontano. Le ditte che portano avanti i lavori, le gare d’appalto del CPR e la gestione sono in questo momento notizie a noi oscure (e tenute ben nascoste dalle istituzioni), la distanza geografica (tra Cagliari e Macomer ci sono circa 150 km) non aiuta, e il disinteresse da parte di persone del posto pure.
In Sardegna il fenomeno complessivo dell’accoglienza è un grande affare: “ci sono 17 SPRAR per un totale di 400 posti, di cui 300 occupati, distribuiti in modo più o meno uniforme in tutta l’isola, due sono per minori. A questi si aggiungono 4146 richiedenti protezioni internazionali distribuiti in 143 Centri di accoglienza straordinaria (CAS). Tutto questo produce un coinvolgimento di 1200 tra psicologi, mediatori, assistenti sociali e amministrativi. A questo si sommano i circa 70 milioni di euro annui necessari a reggere tutto il sistema dell’accoglienza sardo, ridistribuiti fra le aziende coinvolte” (Nc’At Murigu, numero 1).
Trovandoci nella condizione di non saper bene cosa proporre, e di voler evitare di impostare lotte che troppo facilmente scivolino sull’assistenzialismo, da tempo crediamo che per noi il contributo migliore da dare alle lotte contro le frontiere e “la gestione dei flussi migratori”, sia mettere i bastoni fra le ruote all’organizzazione della guerra che ogni giorno viene preparata nelle enormi basi militari che la Sardegna ospita.
Questo non vuol dire disinteressarsi alla questione CPR (che continueremo a seguire e su cui interverremo se dovessimo trovare il giusto pertugio), ma fare un onesto esame del contesto in cui viviamo e delle possibilità che possiamo darci.
Alcuni compagni sardi contro le frontiere
ottobre 2018