In questi giorni si è tornati a parlare d’Egitto a livello internazionale per l’autorizzazione data dalla quasi totalità del parlamento egiziano (tranne 16 deputati i cui nomi sono stati subito riportati dalla stampa) ad alcune modifiche costituzionali. Tra queste, la possibilità del criminale al-Sisi di ricandidarsi alle prossime elezioni.
Eppure nel paese “amico dell’Europa”, quello con cui la polizia italiana collabora nella formazione di guardie per le frontiere senza fornire i dati dell’accordo, si continua a morire, a sparire, a finire nelle galere.
Dal colpo militare del 2013 a oggi, sono state ufficialmente sentenziate 2532 condanne a morte – di cui 165 eseguite – senza contare gli assassinii extragiudiziali e centinaia di desaparecidxs. Tre persone sono state impiccate l’8 febbraio. Nessuno ha avvertito le famiglie che sono state chiamate solo per ritirare i corpi senza vita dei loro cari. In questo, come in tanti altri casi, testimonianze e confessioni sono ottenute sotto tortura.
Ultimamente le persone che vengono prelevate dalle proprie case, con retate che puntualmente avvengono di notte, subiscono un iter sempre più agghiacciante.
Il 28 gennaio, sono stati prelevati da una casa il Dr. Gamal Abdel-Fattah, Khalid Bassiouni, Khalid Mahmoud, Mustafa Faqir, e l’avvocato Mohab El-Ebrashi.
Oramai da anni le accuse sono sempre le stesse, appartenenza a gruppi terroristici e diffusione di notizie false sui social network.
Dopo l’arresto o il prelevamento, la persona viene sottoposta a sparizione forzata per più e più giorni, spesso mesi, e nelle peggiori delle ipotesi anche anni in cui viene persa ogni traccia, come è successo a moltissime persone dal 2011 fino a oggi.
Il dottor Gamal Abdel-Fattah e gli altri 4 detenuti sono stati ritrovati al quinto giorno di sparizione forzata in una delle procure della sicurezza nazionale che di fatto ordina e attua gli arresti nei confronti di qualsiasi persona pensi o sia identificata come ribelle al regime.
Basta una frase su un social network a mandarti in gabbia.
Il 29 gennaio, il giornalista Ahmed Gamal Ziyada, al rientro da un viaggio, è stato fermato in aeroporto e anche di lui si sono perse le tracce per quattordici giorni, prima di riapparire come imputato in un processo e costretto alla detenzione amministrativa (che prevede la reclusione fino a due anni).
Il 25 gennaio un gruppo di detenuti politici ha iniziato lo sciopero della fame, fino all’11 febbraio (giorno in cui l’ex presidente Mubarak si è dimesso nel 2011) come protesta per ricordare la prima giornata simbolo della rivoluzione nel 2011 e per denunciare le ingiuste e brutali condizioni di detenzione a cui sono sottoposti.
Ritornando alle cinque persone arrestate, qualche giorno fa, il dott. Gamal in carcere preventivo è stato pestato nel commissariato di al-Haram, luogo di passaggio ogni volta che i 15 giorni di detenzione amministrativa finiscono e i detenuti devono essere trasferiti in procura per un nuovo interrogatorio.
Il dott. Gamal di 72 anni ha una lunga storia di lotta alle spalle: è stato in carcere durante Nasser, Sadat, Mubarak e diverse volte sotto al dittatore sanguinario di questi giorni.
Il dott. Gamal non ha mai smesso di battersi contro le ingiustizie. Nel commissariato dove era detenuto si trovava in una cella con altre 70 persone. È intervenuto durante una rissa e le guardie ne hanno approfittato per accanirsi su di lui, picchiandolo brutalmente, trascinandolo per terra e poi rimettendolo in una cella sovraffollata in cui non c’è posto per sedersi o sdraiarsi. Ore e ore in piedi come ulteriore punizione alla sua ribellione.
Alcune avvocate che sono riuscite a vederlo hanno raccontato di come non riuscisse a respirare, con forti dolori alla schiena. Grazie alle sue continue proteste è riuscito a farsi trasferire di carcere insieme agli altri della stessa cella. Gli è stato negato un ricovero in ospedale ma almeno i compagni di cella si prendono cura di lui.
Sempre in carcere, in queste settimane alcune direzioni hanno deciso di vietare i colloqui alle famiglie nei confronti di alcuni detenuti politici.
Sono autorizzati due colloqui mensili per ogni famiglia e con l’autorizzazione del tribunale è possibile anche aumentare gli incontri.
La famiglia di Alaa Abdel Fattah, un compagno che sta scontando una pena di 5 anni per manifestazione non autorizzata a cui mancano 30 giorni dalla scarcerazione (anche se dovrà scontarne altri 5 anni di misure cautelari dure), si era presentata per un colloquio ordinario nel carcere di Torah, dove si trova recluso.
Dopo ore di attesa le è stato comunicato che per ordine della sicurezza nazionale, la visita era stata vietata.
La loro determinazione le ha portate a fare un presidio davanti al carcere al fine di ottenere quello che gli spetta di diritto. Al quinto giorno di protesta è stato possibile vedere Alaa.
Tuttavia, non si è trattato di un colloquio ordinario. È avvenuto in un altro padiglione del carcere, quello di massima sicurezza. In più c’era un vetro a separare Alaa e durante la visita c’erano guardie vestite in borghese da una e dall’altra parte del vetro separatorio e la comunicazione avveniva attraverso un telefono.
Le persone care, dunque, non hanno potuto abbracciare Alaa come erano solite fare, ma almeno si sono accertate che stesse bene, per quanto si possa star bene recluso in una gabbia per cinque anni.
Le limitazioni e le restrizioni aumentano di giorno in giorno, le strategie di repressione attuate nei confronti delle persone private della propria libertà si fanno più brutali.