Fonte: Macerie
Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.
A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.
Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.
Attorno a un perché
Oggetto dell’operazione Scintilla è stata la lotta contro i Centri di detenzione per immigrati senza-documenti. Una lotta che in diverse città, e in special modo a Torino, dura da ormai più di 15 anni, quando gli attuali Cpr si chiamavano ancora Centri di Permanenza Temporanea.
Acronimi cambiati più volte nel corso del tempo, senza alterare la sostanza di questi Centri, la funzione che sono chiamati a svolgere e le ragioni che hanno spinto alcuni compagni a battersi, nel corso degli anni, per la loro distruzione. Ragioni di carattere etico, innanzitutto. A spingerci a lottare è stata certamente l’indisponibilità ad accettare l’esistenza stessa della detenzione amministrativa. L’urgenza di mantenere viva questa tensione la leggiamo tra le righe delle pagine di giornale, nelle parole che fanno eco alle politiche intransigenti del ministro Salvini in materia di sbarchi. Queste non solo ci mostrano quanto massiccia sia la violenza perpetuata dallo Stato, ma guardando anche all’ultimo caso Sea Watch 3 la chiusura dei porti permette di presentare come un gesto di grande umanità la decisione di qualche magistrato di far approdare i profughi nel centro di Lampedusa. Un posto verso il quale, fino a qualche anno fa, persino una certa sinistra si sarebbe domandata se le condizioni di vita nell’hotspot non comportassero una lesione dei cosiddetti “diritti umani”.
La tensione etica che ci portiamo dentro è particolarmente preziosa, specie in tempi come questi costellati di tragedie che molte volte sembrano scivolarci addosso senza suscitare in noi chissà quale sussulto. Le stragi nel Mediterraneo ad esempio si susseguono ormai con un’agghiacciante regolarità e a volte si ha la sensazione che ci si stia quasi abituando, che stanno entrando a far parte della nostra normalità. E se la violenza e gli orrori prodotti dal capitalismo sono destinati a crescere e a farsi sempre più vicini, costellando la quotidianità delle città in cui viviamo, prendersi cura di questo sentimento etico e trattarlo come uno dei beni a noi più cari è di particolare importanza. Una cura fatta di attenzione emotiva, riflessioni e soprattutto di azioni, volte a contrastare l’abbassamento, e la futura potenziale scomparsa, dell’asticella di ciò che siamo disposti a ritenere inaccettabile.
Nell’esprimere la nostra solidarietà ai reclusi, nello sforzo continuo di sostenere da fuori la loro lotta affinché di questi Centri non rimangano che macerie, siamo consapevoli che queste macerie non rappresentano soltanto la libertà per i tanti uomini e donne che vi sono rinchiusi, ma sono un pezzo importante della nostra possibilità di lottare.
Questi Centri sono infatti un tassello fondamentale nella gestione dei flussi migratori, uno dei problemi in cima all’agenda dei governanti di ogni dove. La loro funzione è da un lato di rinchiudere e permettere l’espulsione di un buon numero di immigrati irregolari, togliendo dalle strade una parte di quell’eccedenza umana che è di troppo rispetto alle esigenze capitaliste; dall’altro i Centri fungono da deterrente per chi resta fuori, instillando la paura e favorendo così l’imposizione di condizioni di vita e salariali sempre più al ribasso ai tanti cui manca o potrebbe mancare un documento valido in tasca. Una dinamica che, a cascata, è destinata poi a peggiorare le vite di molti altri, italiani compresi, naturalmente.
Se pensiamo poi ad alcune esperienze di lotta che hanno avuto una certa forza negli ultimi anni, come quella per la casa o nella logistica, ci accorgiamo immediatamente di come gli immigrati siano la spina dorsale di questi conflitti; i Cpr sono quindi una vera e propria spada di Damocle che minaccia di calare sulle testa di chi abbia l’ardire di provare ad alzarla. Una spada che nel corso degli anni è stata resa sempre più affilata da vari provvedimenti legislativi di cui l’ultimo, in ordine di tempo, è il cosiddetto pacchetto sicurezza Salvini, che restringe l’imbuto del rinnovo dei permessi di soggiorno, amplia il ventaglio dei reati che impediscono di possedere uno straccio di documento valido e al contempo inasprisce le pene per i reati di occupazione e blocco stradale, che sono alla base delle lotte di cui sopra. Tra le tante difficoltà cui dovranno far fronte i conflitti dei prossimi tempi ci sarà dunque anche la paura di tanti di rimanere stritolati negli ingranaggi della macchina delle espulsioni, finendo rinchiusi in un Cpr in seguito a un picchetto o a un’occupazione.
La possibilità e la temporalità con cui lotte diverse riescono a intrecciarsi tra loro dipende certamente da una molteplicità di fattori, primo fra tutti l0 sviluppo stesso dei vari conflitti con la ricaduta a pioggia sui legami di solidarietà tra sfruttati che possono creare, sulla percezione di una possibile forza più ampia e collettiva, sulla capacità di identificare i nemici comuni. Di certo non saranno i nostri discorsi a stimolare da soli chi è impegnato in altre lotte a partecipare a quella contro i Cpr. Analizzare e sottolineare sin da subito la funzione deterrente svolta da questi Centri resta comunque della massima importanza se non ci si vuol far trovare impreparati, anche solo mentalmente, quando l’urgenza di far fronte alla detenzione amministrativa si presenterà a chi è impegnato in altre lotte, lontane dalle mura di questi Centri.
Del resto la storia di questa guerra rinchiusa tra quattro mura avrebbe molto da raccontare ai tanti che di questi tempi si trovano angustiati dalle necessità di una vita sempre più dura e da un sentimento di ingiustizia sempre più opprimente. La funzione contenitiva e di deterrenza cui abbiamo accennato è stata letteralmente fatta a pezzi dalla rabbia dei tanti reclusi che nel corso degli anni hanno incendiato e distrutto ripetutamente queste prigioni e sono riusciti molte volte a fuggire, in solitaria, a gruppetti o organizzando evasioni di massa. In più di un’occasione la capienza dei vari Centri in giro per l’Italia è stata praticamente ridotta al lumicino e questo ha ridotto anche il numero delle retate e dei rastrellamenti nelle strade. Non è esagerato dire quindi che la macchina delle espulsioni è stata letteralmente cappottata in più di un’occasione da chi doveva esserne invece stritolato. Un conflitto che ha senza dubbio rappresentato uno dei punti più alti dello scontro di classe in questo Paese negli ultimi vent’anni.
Le analisi questurine, per ovvie ragioni, hanno sempre riproposto negli anni la tesi che le rivolte dentro i Centri di detenzione siano state istigate da fuori da alcuni anarchici, e anche l’operazione Scintilla, da questo punto di vista, non si discosta dalle precedenti. Nelle pagine di quest’ultima inchiesta i reclusi vengono infatti spesso e volentieri definiti “soggetti c.d. deboli e facilmente influenzabili” di cui i compagni hanno messo addirittura a repentaglio l’incolumità “con istigazioni volte ad incendi, danneggiamenti e altro pur di raggiungere il proprio programma criminoso”. Accuse a cui nel tempo si è sempre risposto sostenendo che chi si trova rinchiuso in un Centro di detenzione non ha certo bisogno di essere istigato da fuori per arrabbiarsi e provare a uscire dalla situazione in cui si trova ristretto. Di certo sapere che oltre le mura di cinta ci sono dei solidali, sapere che non si è soli, rafforza il coraggio e la determinazione, nella lotta contro i Centri di detenzione come in tutti i conflitti in cui degli uomini e delle donne possono trovarsi impegnati.
Queste considerazioni andrebbero però arricchite da un aspetto cui normalmente non si presta la dovuta attenzione: quello della reciprocità. Se il supporto dei compagni risulta certamente gradito e prezioso a chi si trova rinchiuso in una struttura come un Cpr, il coraggio e la determinazione dei reclusi e il livello di conflitto che questi riescono a produrre è almeno altrettanto prezioso per dei compagni. A livello emotivo, esperienziale e riflessivo. I reclusi hanno certamente tentato di lottare contro i Centri in cui erano rinchiusi anche senza compagni fuori, e prova ne sono i tanti centri distrutti in località prive di compagni attivi sul tema, di contro non è affatto sicuro che la lotta “fuori” contro questi Centri sarebbe stata seguita con tanta costanza e attenzione nel corso degli anni senza la forza espressa dai reclusi.
Trovarsi fuori da un Centro di reclusione, vedere degli uomini saltar giù dal muro e dar loro una mano ad allontanarsi e difendere la libertà appena riconquistata è, ad esempio, una delle possibilità che questa lotta ci ha permesso di vivere e che, a distanza di tempo, ancora riscalda i nostri cuori.
macerie @ Maggio 25, 2019