Quella che segue è la traduzione del primo testo pubblicato dal quotidiano indipendente egiziano Mada Masr.
“Anatomia di un’incarcerazione” è una serie di scritti di Abdelrahman ElGendy che si concentra su diversi aspetti del carcere in Egitto. Abdelrahman è un prigioniero politico che ha trascorso più di sei anni dietro le sbarre, dal 6 ottobre 2013 quando aveva 17 anni fino al suo rilascio avvenuto il 13 gennaio 2020, a 24 anni. Venne arrestato nel 2013 mentre filmava le proteste successive alla deposizione dell’ex presidente Morsi (poi morto in carcere) da parte dei militari in Piazza Ramsis.
“Sono le 14, e il sole sta riversando la sua ira sul camion della polizia. Una volta ho letto che i prigionieri inglesi lo chiamano “scatola del sudore”. Siamo ingabbiati qui dentro da ore. Il metallo del camion sfrigola. Le nostre pelli bruciano in questo inferno – ci stanno friggendo vivi.
Continuo a cercare di asciugare il sudore che mi cola dal cranio con il dorso della mano, uno sforzo inutile con una sola mano. Alla fine mi arrendo e lo lascio scorrere.
I miei occhi bruciano mentre le gocce di sudore vi colano dentro e sento il sapore del sale sulla lingua. Un odore putrido invade le mie narici – un misto di sudore umano e urina, una parte di esso si trova nelle bottiglie che la gente ha usato quando era ancora in condizioni decenti, il resto luccica sul pavimento ai miei piedi.
Il camion si muove e quelli in piedi cadono l’uno sull’altro, e su di noi, quelli seduti sulle panchine. Alcuni premono il viso contro la rete metallica che copre le finestre sbarrate, cercando di scorgere qualche frammento del mondo esterno.
Arriviamo e sentiamo le grida dall’esterno – urla violente, maledizioni ignobili, i fendenti delle fruste, i colpi dei pugni che sulle parti del corpo.
Una festa di benvenuto è un modo per accogliere qualcuno in un nuovo ambiente o per celebrare un ritorno. È una forma di saluto celebrativo, un modo per orientare qualcuno verso un nuovo ambiente e nuovi compagni. È un’introduzione. Un rito di abbraccio. Un inizio.
Mi concentro a contare le perle di sudore che si formano sotto il mento e che gocciolano sul pavimento. Goccia. Goccia. Una. Due. Tre…
Non ricordo a quale numero le voci all’esterno han taciuto e, pochi secondi dopo, le porte di metallo si sono aperte.
L’eruzione dal silenzio totale alla furia delirante è istantanea. I miei timpani rimbombano per il rumore – il battito sul metallo dall’esterno, il ruggito di imprecazioni e insulti, le urla dei nostri amici trascinati da braccia sconosciute attraverso la porta.
Lo shock svanisce mentre mi avvicino alle porte aperte. Al suo posto si insedia il terrore.
Guardo fuori e vedo i miei amici che vengono gettati a terra, faccia a faccia, cercando di alzarsi solo per cadere sotto il peso di calci e frustate senza fine. Ammanettati a coppie, cercano di aggrapparsi con le mani libere ai sacchetti di plastica che contengono i loro scarsi averi, lasciando i loro volti e corpi completamente esposti all’aggressione.
Due lunghe file di soldati uno di fronte all’altro scorrono dal retro del camion da cui usciamo fino al cancello della prigione. Questo è il corridoio di benvenuto che dobbiamo attraversare. In preda a un momento di follia quasi rido dell’assurdità di tutto questo. Che spettacolo! I manganelli, le fruste, bastoni metallici e le cinture; i pugni stretti che ci preparano. Un’inaugurazione senza tappeto rosso. Un ridicolo teatro di crudeltà.
In realtà, tutto questo sembra più un videogioco. Salti qui, ti accovacci più in là, schivi una frustata con la spalla e un pugno ti colpisce il mento dall’altra parte. Cadi a terra e il tuo compagno in catene viene picchiato violentemente perché lo hai sorretto, poi i tuoi amici ti scavalcano per continuare ad andare avanti attraverso il tracciato, lanciando sguardi di scusa ai compagni caduti che dicono “non prenderla sul personale”. L’istinto di sopravvivenza entra in azione e ogni uomo corre per la sua vita.
Inspiro profondamente un’ultima volta – e sono a faccia in giù nella terra.
Sapevi che dopo una certa quantità di botte, tutto smette di far male?
All’inizio, lascio le mie cose per proteggermi la faccia, poi comincio a cercare di trovare un equilibrio tra l’aggrapparmi a quello che posso e lo schivare quanti più colpi possibile. Alla fine, corro e trascino il mio compagno di manette quando rimane indietro, indifferente ai colpi di pugni, stivali e fruste. Il cancello è la mia meta ed è tutto ciò che conta.
È incredibile come riescano a trasformare il cancello della prigione, l’entrata più spaventosa di tutte, in qualcosa di così desiderabile. Desideriamo più di ogni altra cosa attraversarlo. Questo è un progetto calcolato.
Questa è una festa di benvenuto e nelle feste di benvenuto si deve partecipare alle attività. Vieni introdotto al nuovo ambiente, alle nuove regole, alle nuove dinamiche di potere e al tuo posto in tutto questo.
Le regole del gioco sono stabilite.
Sei privato di tutto ciò che ti rende umano. Picchiati, offesi e torturati per farti capire appieno che l’umanità non si applica qui. La bontà viene messa da parte dopo il primo passo in questo luogo. Persino un nome, il nostro più elementare identificatore umano, è sostituito dall’etichetta “detenuto”. Costretti a spogliarsi nudi, a togliersi i vestiti, pezzo dopo pezzo, finché non resta più nulla da togliere. Le mani vagano e violano il tuo corpo con fare minaccioso, ogni tocco è un sussurro: “Ti possiedo”. La tua testa viene abbassata per essere rasata. Senti le lame fredde che vanno avanti e indietro, tagliando con percorsi irregolari sulla tua testa ormai calva, lasciandoti con la consapevolezza di non avere più un briciolo di dignità per rialzarla di nuovo.
Questo non è casuale. Questo è il progetto. E questo li esalta.
Divorano il brivido sadico del potere e del controllo assoluto – mentre ti guardano esitare tra l’afferrare la tua borsa di plastica o proteggerti la faccia – e assaporano il momento in cui ti fanno pagare questa tua esitazione.
Se la loro risata fosse un colore, sarebbe giallo vomito.
Se la loro risata fosse un animale, sarebbe una iena sbavante.
Se la loro risata fosse un’arma, sarebbe il coltello affondato nella schiena.
Vorrei poter dire che quel giorno mi sono alzato e ho resistito. Vorrei poter dire che quando hanno preso il mio amico e gli hanno sbattuto la testa contro il muro, ho parlato. Vorrei poter dire che non mi sono piegato, che non mi sono spezzato.
Non è stato così.
I miei momenti sarebbero arrivati. Sarei cresciuto per parlare, per capire che alcune cose sono più importanti della sopravvivenza. Ci sono cose per cui vale la pena morire. Ma avevo 18 anni. E alla festa di benvenuto, sono stato un codardo.
La resistenza si presenta in molte forme. Brucia nelle vene e trasforma le prospettive. Quel giorno, non mi sono alzato e non ho resistito. Non ho urlato, né mi sono ribellato.
Ho avuto solo un banale atto di resistenza.
L’odio.
Li ho odiati con ogni parte del mio essere. Decisi di sostituire la mia paura con uno sprezzante disgusto. Mi sono nutrito di questo. Sono cresciuto su di esso. Fu l’unica cosa che mi fece andare avanti da quel giorno in poi.
Mi spezzarono, mi umiliarono, mi torturarono e mi lasciarono completamente privo di tutto.
Avevano tutto il potere. Tutto il dominio.
E in cambio, io avevo il mio odio. Era come una pioggia acida che cade su un deserto arido. Tossica ma dissetante. Senza un’alternativa più sana, la bevi per sopravvivere.
Sono uno zombie che si muove nei corridoi. Sono una presenza spettrale. Passo davanti alle porte monotone e identiche delle celle. Vengo spinto in una di esse. La porta sbatte dietro di me. Fisso senza vedere. Attorno a me è tutto nebuloso. La festa di benvenuto è finita e io sono nella mia testa.
Nella mia testa sono tranquillo.
Finché li odio, senza paura, loro perdono.
E io vinco.