Bulgaria – Solidarietà alle proteste in corso nei lager per persone in transito

fonte: Migrant Solidarity Bulgaria

Domenica scorsa, per la prima volta dopo anni, un nutrito presidio davanti al centro di detenzione di Sofia-Busmantsi ha rotto per un pomeriggio l’isolamento dei e delle detenute immigrate che lì sono recluse. Nonostante i tentativi delle guardie di tenere lontane le persone dalle finestre e i trasferimenti di prima mattina per svuotare le stanze da cui si sarebbe più facilmente potuto comunicare con l’esterno, da dentro hanno potuto sentirci, seguirci e contattarci. E’ stata una boccata d’aria fresca nel soffocante silenzio che circonda i lager bulgari per persone immigrate, di cui solo ora si inizia a parlare, grazie alle lotte da dentro e alla solidarietà da fuori.

Il presidio è stato organizzato in solidarietà alle numerose proteste nei centri di detenzione e di accoglienza bulgari dell’ultimo mese. A Busmantsi (il centro di detenzione nella periferia della capitale), le persone hanno protestato contro nuove arbitrarie restrizioni sulle visite e sui pacchi e si sono rifiutate per qualche ora di entrare nelle loro stanze in segno di protesta. Nei giorni successivi, a molte persone sono stati sequestrati i telefoni cellulari (che possono regolarmente avere, a patto che siano senza fotocamera).
Nel centro di accoglienza di Harmanli, che si trova nel sud del paese e vicino al confine con la Turchia, i rifugiati siriani stanno protestando da settimane contro i respingimenti di massa delle loro richiesta di asilo. Nel centro ci sono attualmente circa 900-1000 persone che, dopo aver fatto richiesta di asilo, sono in attesa dei colloqui e di ricevere una decisione sulla loro domanda. Tra settembre e ottobre però sono state respinte la maggior parte delle richieste asilo degli uomini soli. Solo le famiglie continuano (a stento) a ricevere la protezione internazionale. Il 18 ottobre hanno iniziato una protesta e dichiarato uno sciopero della fame.
La risposta dell’amministrazione è stata che ora la Siria è un Paese sicuro, con riferimento al fatto che chi fugge dai bombardamenti israeliani nel sud del Libano si rifugia in Siria. Questa logica perversa e nuova preoccupante tendenza non è ovviamente solo una sadica invenzione dell’Agenzia di Stato bulgara per i rifugiati: negli ultimi anni anche altri Paesi europei stanno iniziando a respingere chi proviene dalla Siria come già fanno sistematicamente con le persone provenienti da altre aree devastate dalla guerra.

Da Busmantsi ci è invece arrivata una lettera aperta che recita: “76 siriani, tra cui 8 bambini, stanno soffrendo condizioni dure durante la loro detenzione a Sofia. Sono state date loro due opzioni: Un anno e mezzo di prigione per aver minacciato la sicurezza nazionale della Bulgaria, oppure firmare un ordine di deportazione in Siria. Un rappresentante dell’ambasciata siriana li ha già visitati minacciando di deportarli entro 21 giorni una volta che il numero di persone che accettano di essere deportate sarà pieno *(probabilmente, quando ci saranno abbastanza persone per organizzare una deportazione di massa)*.
I rifugiati vivono in condizioni di vita difficili, non hanno accesso alle cure mediche e si vedono negare le più elementari necessità della vita quotidiana. Sono sfruttati dalle guardie del campo, perché sono costretti a pagare grandi somme di denaro per piccole quantità di cibo; pagano fino a 100 euro per una piccola quantità di verdure”. Notizie simili ci arrivano dall’altro centro di detenzione bulgaro, a Lyubimets. Continua a leggere

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Macomer – Bello come un CPR che brucia

Fonte: Il Rovescio

Riceviamo e diffondiamo questo resoconto di un saluto al CPR di Macomer pesantemente ostacolato dalle guardie, con allegato un volantino che – tra le altre cose – ben documenta le condizioni di sopravvivenza all’interno del Centro:

Domenica 17 novembre ci siamo recati ancora una volta al CPR di Macomer per portare solidarietà ai prigionieri e per tentare di comunicare con loro. Il sentiero carrabile che si affaccia sulla struttura e che normalmente utilizziamo per fare i saluti, contrariamente ad altre volte era presidiato da una jeep dei carabinieri. Tuttavia, senza fatica siamo riusciti ad eludere la sorveglianza sino a giungere nel punto stabilito dove abbiamo montato casse e microfono mettendo musica, facendo interventi e urlando cori. Per la prima volta dopo due anni di visite costanti, non c’è stata nessuna risposta, né un urlo, né un fischio, niente di niente. Un silenzio tombale che stride moltissimo con le rumorosissime e talora “focose” risposte che abbiamo avuto altre volte. Come consuetudine passati una ventina di minuti arrivano quattro pattuglie di sbirri (polizia e carabinieri) che ci intimano di andarcene. Dopo i controlli di rito e dei momenti di tensione, per gli atteggiamenti provocatori degli sbirri, prima di lasciarci andare ci hanno notificato altri fogli di via da Macomer e denunce per un’altra iniziativa, effettuata il 2 giugno, fuori dal carcere di Badu ‘e Carros. Ci siamo allontanati rimandando ai prigionieri tutta la nostra solidarietà e vicinanza, ricordando agli sbirri che non ci fermeranno quattro notifiche, denunce e fogli di via e che torneremo molto presto e in molti di più fuori da quel lager di merda. A tal proposito, la sera dello stesso giorno siamo stati a Nuoro, dove c’è la questura che ha emesso i fogli di via e gli avvisi orali. Nuoro è una piccola città fortemente militarizzata e repressa, solitamente la sera si contano piu pattuglie che persone per strada. Però quel giorno la città era animata in occasione della manifestazione “Autunno in Barbagia”. Ne abbiamo approfittato facendo un volantinaggio, per ribadire che nonostante le minacce del questore Polverino non lasceremo nel silenzio la rivolta dentro il CPR (lasciamo il volantino a fine testo).

Siamo rammaricati per non avere ricevuto risposta da dentro e non capire il perché questo sia accaduto. Ci chiediamo se si sia innalzato il livello di repressione all’interno della struttura con il cambio di gestione e/o come conseguenza delle ultime proteste o se si sia verificato qualcos’altro che non riusciamo ancora a spiegarci. Intanto tentiamo di muoverci nelle strade e nei centri della Sardegna per cercare di evitare che altri migranti, sfruttati nelle campagne e nell’industria turistica, ma privi di documenti, vengano prelevati da qualche pattuglia per essere ingoiati nel nulla del lager di Macomer.

Cerchiamo di mettere un po’ di sabbia nella macchina razzista e coloniale dello Stato, a fuoco le galere.

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Egitto – Sciopero della fame ad oltranza per la liberazione di Alaa Abd el-Fattah

Oggi Laila Soueif, madre di Alaa Abd el-Fattah, è entrata nel 53esimo giorno di sciopero della fame. Alaa è prigioniero nelle carceri egiziane perché ha sempre lottato e alzato la voce, fuori e dentro le mura.

La vita di Laila è in pericolo ma la sua determinazione è un esempio di lotta e coraggio che scalda i nostri cuori, nonostante la seria preoccupazione per la sua salute.
Negli ultimi anni, Laila ha sempre lottato per i diritti basilari di Alaa e di tutti i prigionieri, anche con un presidio davanti al carcere. Alaa stesso ha portato avanti uno sciopero della fame quando si trovava in un carcere di massima sicurezza ed era privato di tutto, anche dell’ora d’aria. Questa lotta lo ha portato ad essere trasferito in un altro carcere, una delle 31 nuove prigioni costruite sul modello americano, con videocamere e luci attive 24 ore al giorno.

Il 18 novembre è stato il 43° compleanno di Alaa e Laila è riuscita ad entrare a colloquio. Nello stesso giorno, al Cairo, un gruppo di persone amiche di Laila ha consegnato al Consiglio Nazionale per le Donne un reclamo per ufficializzare lo sciopero della fame ad oltranza,  ma per la prima volta nella storia è stato rifiutato.
In Egitto è in corso uno sciopero della fame a staffetta come azione solidale.
Tutta la solidarietà e l’amore per Laila e la sua lotta che è anche la nostra, perché in fondo come dice Alaa nel suo libro “Non siamo ancora stati sconfitti” finché siamo persone libere.

https://freealaa.net/take-action

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La polizia tunisina continua a deportare e abbandonare persone nel deserto

Il video inviato l’8 novembre scorso da un gruppo di 18 persone abbandonate da 6 giorni nel deserto della Tunisia: 4 di loro sono neonati, 8 donne tra le quali 3 sono incinte e 6 uomini. Raccontano che non hanno acqua, cibo o energia per camminare. Sono state catturate in mare dalla guardia costiera tunisina una settimana prima e abbandonate nel deserto. Hanno cercato di tornare indietro a piedi, dirette a Sfax, ma sono state intercettate di nuovo dalla polizia e deportate nuovamente nel deserto, senza provviste. Hanno chiamato per due giorni l’OIM Tunisia ma non hanno ricevuto nessuna risposta o segno di soccorso. Di queste persone, come di tante altre, non si sono più avute notizie.

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Tunisia – Strage di stato e deportazioni

Il racconto di un parente di una vittima della strage di 52 persone, il 9 novembre scorso, condotta dalla guardia costiera tunisina, addestrata, finanziata e fornita di motovedette dal governo italiano.

“Aspettavo da giorni notizie di mio cugino Musa, aveva sedici anni ed era scappato, come me, dalla guerra in Sudan. Sapevo che era partito dalla Tunisia per raggiungere l’Italia ma la sua chiamata, dall’altra parte della costa, non è mai arrivata. Sono arrivati i tunisini, li hanno speronati, poi li hanno fatti ribaltare e li hanno guardati affogare. Mio cugino Musa, è uno dei minori annegati quella notte insieme ad altre 52 persone. Una volta tornati a Sfax sono stati consegnati alla polizia che a sua volta li ha divisi in due gruppi: un gruppo è stato abbandonato nel deserto tra Libia e Tunisia e un altro gruppo venduto ai libici, nel centro di Al-Assah. La nostra vita qui è continuamente in pericolo, non sappiamo se e per quanto sopravviveremo. Chi non è mentalmente forte in Tunisia rischia il suicidio”.

traduction en français

Témoignage d’un proche d’une des 52 victimes du massacre, perpétré le 9 novembre par les garde-côtes tunisiens, formés, financés et équipés de patrouilleurs par le gouvernement italien.

« J’attendais depuis des jours des nouvelles de mon cousin Musa, il avait 16 ans et avait fui, comme moi, la guerre au Soudan. Je savais qu’il avait quitté la Tunisie pour rejoindre l’Italie, mais son appel, de l’autre côté de la côte, n’est jamais arrivé. Les Tunisiens sont arrivés, les ont éperonnés, puis les ont fait basculer et les ont regardés se noyer. Mon cousin Musa est l’un des mineurs qui se sont noyés cette nuit-là avec 52 autres personnes. De retour à Sfax, ils ont été remis à la police qui les a divisés en deux groupes : un groupe a été abandonné dans le désert entre la Libye et la Tunisie et un autre groupe a été vendu aux Libyens dans le centre d’Al-Assah. Nos vies ici sont constamment en danger, nous ne savons pas si et combien de temps nous survivrons. Celleux qui n’ont pas de force mentale en Tunisie risquent de se suicider ».

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Rivolta nel CPR di Trapani Milo

Dai media apprendiamo della rivolta avvenuta sabato scorso nel CPR Trapani Milo. Tutti gli articoli riportano la stessa velina diffusa da un sindacato di polizia, che racconta di una perquisizione nel CPR, contrastata dalle persone recluse, con lanci di oggetti e danneggiamenti. Sarebbe intervenuto il reparto celere di Palermo, che ha arrestato due persone.

Il CPR di Trapani era stato chiuso nello scorso gennaio grazie alle continue rivolte che avevano reso inservibile il 90% della struttura. Da circa un mese è stato riaperto per recludere anche persone appena sbarcate in Italia, sottoposte alle procedure accelerate di frontiera – le stesse recentemente applicate nei lager in Albania – che prevedono l’esame rapido delle domande d’asilo, la detenzione amministrativa e la deportazione per chi proviene da paesi, come la Tunisia e l’Egitto, considerati “sicuri”, come era avvenuto il 15 ottobre scorso per 22 persone sbarcate a Marsala.

A differenza di quanto avvenuto ultimamente in Albania, per il lager di Trapani non si hanno notizie di ispezioni di garanti, parlamentari e associazioni, né di critiche per queste detenzioni illegittime secondo le leggi europee. Nessuno sembra interessarsi alle condizioni delle persone recluse, che invece coraggiosamente continuano a lottare contro l’orrore di questi campi di concentramento.

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Bari – Il razzismo di stato uccide, dentro e fuori il CARA

Due settimane fa, durante la protesta a Bari delle persone che vivono nel CARA, una giornalista aveva chiesto a un portavoce degli immigrati “Voi non vi sentite sicuri nel CARA?”. La risposta era stata “No, nessuno è sicuro, neanche fuori dal CARA. La sicurezza si misura con l’accesso ai diritti. Quando c’è negazione dei diritti non c’è più sicurezza, anche fuori dal CARA.”. La cronaca recente conferma la validità di queste parole.

Stamattina, lunedì, una persona immigrata e senzatetto, di 42 anni, è stata trovata senza vita nei pressi della Stazione, morta probabilmente di stenti. Ieri sera un giovane tunisino che vive nel Cara di Bari, per protesta, si è autoinflitto delle ferite con una lametta, dopo un diverbio con il personale della mensa. Trasportato in ospedale e medicato, è stato subito riportato nel centro di accoglienza dove è piantonato dalla polizia.

Infine, tre giorni fa sono state arrestate 3 persone, con l’accusa di aver ucciso Singh Nardev, 38enne indiano, in un casolare abbandonato di un quartiere periferico di Bari, lo scorso 31 maggio, “per provare una pistola a salve, modificata”. Intanto, 9 operatori sanitari sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Bari per la morte del 33enne originario della Guinea Bangaly Soumaoro, deceduto in ospedale lo scorso 4 novembre, dopo essere stato lasciato per giorni senza cure nel CARA.

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Un racconto dai margini: di fascismo e antifascismo in Bulgaria.

I fatti di Budapest dell’anno scorso e la conseguente pesante repressione che ha colpito le e gli antifascisti in Ungheria e fuori, hanno aperto una finestra sull’antifascismo un po’ più a est dei nostri abituali orizzonti. Vogliamo quindi provare a condividere quello che succede a Sofia e in Bulgaria; dove la situazione è per molti versi simile a quella ungherese, e al contempo strettamente legata a dinamiche europee.

Il cane da guardia della frontiera orientale

Anche in Bulgaria l’estrema destra è più in forze che mai. Per partire da un episodio recente, nel marzo di quest’anno, il politico Angel Dzhambaski (del partito europeo dei conservatori e riformisti, di cui fa parte anche Fratelli d’Italia), ha inaugurato la campagna per le elezioni europee facendo circolare il video di una rissa tra ragazzini presentata come “immigrati clandestini che picchiano giovani bulgari” (1). Altri video fuori contesto e notizie manipolate (senza nessuna conferma del fatto che si trattasse di tensioni razziali) hanno fatto partire una feroce propaganda anti-immigrazione che è riuscita a dominare il discorso politico per mesi. Diverse manifestazioni razziste sono state organizzate nel centro di Sofia e in un quartiere periferico dove si trova un centro d’accoglienza. I cortei erano a nome di organizzazioni giovanili, ma abbiamo visto sfilare i neonazi e gli ultrà delle curve in testa, mentre gli interventi al microfono erano di politici locali e figure note. In un caso, l’organizzatore era l’ex candidato sindaco del maggior partito politico bulgaro.  Contemporaneamente abbiamo dovuto far fronte ad un’ondata di aggressioni razziste quotidiane, spesso per mano di giovanissimi, contro chiunque fosse più scuro della media e parlasse altre lingue. Il controllo dell’immigrazione è stato l’argomento condiviso da ogni partito e intorno al quale si sono svolte sia le elezioni europee, sia quelle per il parlamento bulgaro, svoltesi a luglio e che si ripeteranno il 27 e 28 ottobre (le settime in soli 3 anni).

Tutto ciò avviene nonostante il paese accolga un numero bassissimo di immigrati, che perlopiù si ritrovano sulla rotta balcanica per entrare nell'”Europa quella vera”, o che vengono deportati in Bulgaria da altri paesi europei per gli accordi di Dublino. In tante e tanti restano intrappolati qui con scarsissime possibilità di regolarizzazione e finiscono per lavorare ipersfruttati e segregati.
La maggior parte però viene fermata al confine stesso, visto che la Bulgaria ha fedelmente adottato il ruolo del cane da guardia della frontiera orientale conferitole dall’EU. La brutalità poliziesca, ereditata dalla tradizione comunista, gode di totale impunità quando si esercita sulla pelle dello “straniero”. Le istituzioni locali ed europee (impersonate da polizia di frontiera e Frontex) sono responsabili dei respingimenti di massa alle frontiere, delle persone lasciate morire nelle foreste ai confini con la Serbia e la Turchia, delle torture nei centri di accoglienza e in quelli di detenzione. Delle deportazioni costanti e spesso illegittime, soprattutto di rifugiati politici curdi ricercati dalla polizia di Erdogan. Basta guardare ai termini imposti dall’EU per il recentissimo ingresso nell’area Schengen: ora i turisti hanno un ingresso facilitato negli aeroporti, mentre le frontiere terrestri non solo rimangono, ma sono state ulteriormente rinforzate con un aumento delle unità di Frontex.

Stiamo assistendo al copia-incolla in stile balcanico di uno schema già rodato in occidente: la creazione dell’immagine dell’immigrato come nemico e come minaccia (per la sicurezza, ma anche per l’identità stessa dell’europeo bianco), prima ancora che l’immigrazione diventi un fattore sociale. Da un lato, la gestione dell’immigrazione è il pretesto costante per togliere fondi al welfare e destinarli alla militarizzazione delle frontiere. Dall’altro, ogni tentativo di costruire solidarietà e lotte comuni viene ostacolata sul nascere per non doverlo combattere in seguito.

Nazionalismo  post-comunista

Pur predicando “l’ospitalità come valore tradizionale”, la società bulgara odierna è in realtà fortemente xenofoba e razzista. La formazione dello Stato nazionale e l’ideologia nazionalista dell’inizio del XX secolo hanno trovato la loro continuazione nel nazionalismo di tipo sovietico, promosso alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80, per arrivare al discorso ultranazionalista esploso dopo il 1989, quando il nazismo è stato riabilitato nei paesi post-comunisti. Dato che la Bulgaria è stata globalizzata solo a livello finanziario, mentre socialmente è piuttosto omogenea, monolingue e monoculturale (grazie all’assimilazione forzata della minoranza turca e alla segregazione di quella rom), la minaccia dello “straniero” è solo virtuale, eppure necessaria per adattarsi alle linee guida europee e creare la sensazione di emergenza utile a mantenere il controllo. Uno degli esempi più brutalmente folkloristici sono i “cacciatori di immigrati” (2), un gruppo autorganizzato e armato attivo dal 2016, il cui capo è diventato una celebrità pattugliando per anni il confine con la Turchia in coordinamento con la polizia di frontiera (anche se non ufficialmente) e postando le foto delle sue prede sui social. Eppure il popolo bulgaro sa cosa significa emigrare: sono più di due milioni le e i Bulgari che vivono all’estero, emigrati soprattutto dagli anni ’90 in poi, a fronte di una popolazione di poco più di sei milioni di persone. Quasi tutte le famiglie contano membri lontani e difficili storie di diaspora, che non impediscono comunque alla propaganda anti-immigrati di negare ogni possibile immedesimazione differenziando nettamente i nostri dai loro. Niente di nuovo.

L’antifascismo e la politica

Anche i movimenti antifascisti hanno avuto una storia diversa da quella dell’altra parte della cortina di ferro. Dopo il fervore dei primi due decenni del ventesimo secolo, quando i circoli anarchici e comunisti prendevano attivamente parte alla vita politica, arrivò un’ondata di repressione fascista che si concluse con l’adesione del paese all’Asse. Nel 1944 l’Armata Rossa invase la Bulgaria, liberandola dal governo fascista e imponendo un regime di stampo bolscevico che si impadronì del termine antifascismo, mandando nelle galere e nei lager chiunque non seguisse la linea del partito. Ogni tipo di mobilitazione cittadina e di resistenza, alternativa a quella imposta dal regime, venne criminalizzata e la tradizione è stata parzialmente risuscitata solo dopo il 1990. Per il resto, la politicizzazione forzata, imposta dall’alto e subordinata totalmente alla propaganda sovietica,  ha creato in gran parte della popolazione quella sensazione di ripudio della politica percepibile fino ad oggi.

In questo contesto, l’antifascismo non solo non è una posizione condivisa, ma viene spesso paragonato al fascismo (nell’ottica dei due estremi che si equiparano). L’esperienza dei sindacati fuori dalle strutture statali è piuttosto limitata e le ONG e le associazioni della cosiddetta società civile liberale non vengono dal basso. Nella maggior parte dei casi dipendono da finanziamenti pubblici (perlopiù europei) ed alcune sono delle vere e proprie lobby come “America for Bulgaria”.   A livello di partiti, i confini tra destra e sinistra si stanno sciogliendo ancor di più che nella politica europea. Il partito socialista rappresenta oggi la sinistra dei valori tradizionali (patriarcali, etnonazionalisti e religiosi), mentre il cosiddetto centrodestra vi oppone un finto progressismo liberale ed europeista. Nell’ultima composizione del parlamento erano presenti anche due partiti di estrema destra, entrambi filorussi e nazionalisti allo stesso tempo (3). Uno gioca la carta della nostalgia del regime “comunista” e del legame storico tra la Bulgaria e la Russia (la figura della Russia come il grande fratello che libera il paese dai suoi oppressori, esistente dall’epoca della liberazione dall’Impero Ottomano). L’altro cerca una legittimazione attraverso l’eroicizzazione del popolo bulgaro, usando l’immaginario medievale mentre funziona come una classica struttura mafiosa immischiata nel traffico di armi.

Per quanto riguarda i neonazi veri e propri – con alcune particolarità dovute alla posizione geopolitica e la storia recente – in generale i neonazisti bulgari hanno adottato il nuovo volto dell’estremismo di destra di tutto il mondo: quello dei movimenti identitari, della supremazia bianca, dell’etno-nazionalismo. Anche qui il fascismo di strada risponde a quello istituzionale che lo ispira e lo avalla, indipendentemente dal governo al potere.

Il gender distruggerà la Bulgaria

I neonazi si dedicano attivamente anche alla propaganda e alle azioni omofobe e transfobiche. Le aggressioni alle persone queer sono frequenti, gli spazi sicuri sono pochi e alle volte devono essere fisicamente difesi. Gli attacchi agli eventi e agli spazi lgbtq+ sono promossi da personalità note (4), mentre il Sofia Pride viene attaccato da contro-manifestazioni dei difensori della famiglia tradizionale accompagnati dai preti. Si organizzano imboscate a piccoli gruppi di persone spesso giovanissime e provocazioni aperte a eventi e cortei femministi. E come accade sull’immigrazione, la linea dell’omo-transfobia è dettata dai governi di ogni colore. L’ultimo governo durato appena qualche mese è riuscito ad approvare, ad agosto, la cosiddetta legge anti-lgbt (5). Un decreto che vieta qualsiasi “propaganda gender” nelle scuole, così come l’accesso alle procedure e alle cure mediche relative alla riassegnazione del genere. Proposto dall’estrema destra ma approvato con una larga maggioranza, con plauso dei partiti europeisti e nonostante le grandi proteste di piazza, che perlomeno sono sintomo di un movimento queer vivo e in crescita.

I neonazi tra le palestre e le scuole

Ricapitolando: in nome dell’anticomunismo, del patriottismo e della conservazione dei valori patriarcali tradizionali, le organizzazioni neonaziste e neofasciste a lungo tollerate dallo stato ora fioriscono. Ci sono quelle attive dagli anni ’90, i cui capi sono noti per la gestione delle folle negli stadi, per lo spaccio di droga e per fare il “lavoro sporco” per chiunque sia al potere (ad esempio, quando c’è un’ondata di proteste e malcontento e la gente si raduna nelle strade, loro sono i “provocatori” che scatenano la violenza). E ci sono le nuove organizzazioni giovanili, in cui sia i partiti come VMRO (di cui fa parte il sopracitato Dzhambaski) che le organizzazioni extra-istituzionali come la BNS-Unione Nazionale Bulgara- investono molto. Questi cercano al contempo un cambio generazionale e nuovi modi di coprire i loro traffici mafiosi: aprono palestre per sport da combattimento e arti marziali, registrano ONG, spendono in comunicazione (adesivi e poster ovunque, video, social media, conferenze nelle scuole).

Così facendo raccolgono con successo la rabbia dei giovanissimi, offrendo un’identità e un senso di appartenenza con l’appeal dell’estetica squadrista. Del resto, non c’è da stupirsi: dopo il lockdown del periodo covid, la guerra in Ucraina e l’inflazione brutale, la vita quotidiana è diventata sempre più costosa e il paese sempre più deserto. Chi rimane si concentra nelle poche grandi città, il livello dei servizi per l’istruzione e del sistema sanitario si abbassa e la fiducia, non solo nelle istituzioni ma anche negli altri e nella comunità, è al minimo. Da qui all’Europa si guarda come una promessa fallita, che ha portato il paese a diventare bacino di manodopera a basso costo, discarica di rifiuti occidentali e muro di cinta anti-immigrati. Da un lato, questo vissuto dona alla società una dose di cinismo e di realismo che toglie di mezzo una buona parte di fastidiosi sinceri democratici. Dall’altro però, l’amarezza e la mancanza di speranze ci toglie anche tante compagn, e nutre invece le schiere dei neonazisti.

E noi?

Al corteo antirazzista (6) organizzato ad aprile in risposta alla propaganda anti-immigrazione, nonostante l’invito aperto e la sensazione condivisa di urgenza, la società civile si è tenuta alla larga, per non rischiare di essere associata agli e alle antifasciste e temendo provocazioni dei neonazi. Così come tutti i cortei pro-Palestina sono stati fortemente ostacolati o limitati, nel tentativo di silenziare la comunità palestinese e impedire la formazione di legami con altre lotte.

Da 13 anni ogni febbraio scendiamo comunque in strada con un corteo antifascista (7), in risposta alla marcia neonazista organizzata nello stesso periodo. Come a Budapest, anche a Sofia i neonazisti e i neofascisti di tutta Europa si riuniscono per un appuntamento annuale, in commemorazione della morte del generale fascista ed ex-ministro della guerra Hristo Lukov (8). Dopo anni di proteste e di azioni dirette, la “Lukovmarsh” ora è formalmente vietata dal comune di Sofia. Di conseguenza i gruppi di neonazisti internazionali sono meno interessati a venire, ma ciò non impedisce ai neonazi bulgari di riunirsi e marciare comunque scortati dalla polizia, con cui si confondono.

In un paese piccolo a volte le dinamiche di repressione e le gerarchie di potere sono più facili da individuare. A noi è sempre più chiaro che i neonazi che dominano i nostri quartieri non sono più pericolosi dei politici liberali che si alternano a fagocitare fondi europei per incentivare mega progetti di devastazione dell’ambiente e alimentare l’industria delle armi, al servizio tanto dell’UE e della NATO quanto di Putin ed Erdogan (come dimostra ad esempio la costruzione del gasdotto TurkStream) (9). Perciò lottare contro ogni forma di fascismo, qui come ovunque, non significa soltanto contrastare la glorificazione neonazista nel giorno della loro nostalgica fiaccolata. Significa anche sostenere quotidianamente chi lotta alle frontiere e nelle prigioni, per la libertà di movimento e contro le deportazioni. Per questo dall’inizio dell’estate abbiamo partecipato a vari presidi in solidarietà ad Abdulrahman Al-Khalidi, prigioniero politico in sciopero della fame, detenuto nel CPR di Sofia e minacciato di estradizione in Arabia Saudita (10), e in solidarietà alle e ai detenuti immigrati in lotta nei centri di deportazione.

Vogliamo praticare un antifascismo antirazzista e antisessista quotidiano, fatto di mutuo supporto e di relazioni. Costruire, sviluppare e difendere i nostri spazi liberi e indipendenti. Stare al fianco della comunità palestinese e di quella curda in resistenza. Provare ad ampliare sempre di più le nostre reti, nei Balcani e altrove.

Buttare uno sguardo più a est può servire a constatare gli effetti delle brutali politiche di repressione e controllo del movimento delle persone, di devastazione dell’ambiente e di miseria sociale in gran parte dettate dall’UE e da secoli di colonialismo economico, lontano dagli occhi e dal cuore dell’occidente.

Fuori i nazisti dalle nostre strade!

 

1-Antifa Bulgaria: “Мигрантска криза” или евроизбори? “Мигрантска криза” или ротация?

2- Vigilante Keeps Hunting Migrants In Bulgaria And The Authorities Seem To Be Turning A Blind Eye

3-I partiti di estrema destra in parlamento sono “Vyzrazhdane”= rinascita e “Velichie”= grandezza

4- Bulgarian Presidential Candidate Accused of Attack on LGBT CentreBulgarian Presidential Candidate Accused of Attack on LGBT Centre

5- Bulgaria: approvata la legge anti-LGBT/ “Vietata la propaganda sull’identità gender nelle scuole

6- Migrant Solidarity Bulgaria

7-Antifa Bulgaria: No Nazis on our streets 2024

8- Il generale Hristo Lukov fu tra i personaggi più vicini alla Germania nazista e tra i più ferventi promotori dell’antisemitismo e delle deportazioni nei campi di sterminio. Venne ucciso nel ’43 dalla militante comunista ed ebrea Violeta Yakova.

9- Leaked documents reveal Kremlin control over Turkish Stream pipeline construction through Bulgaria

10- Migrant Solidarity Bulgaria / Bulgaria, violazioni dei diritti umani sui rifugiati

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Francia – Una persona di 27 anni è morta ieri notte nel CRA 3 di Mesnil-Amelot

Traduzione da: A bas les Cra

Un detenuto di 27 anni è morto ieri notte nel CRA 3 di Mesnil-Amelot.

La persona aveva problemi di salute e ha dovuto essere ricoverata in ospedale per una settimana. Si è svegliata ieri notte perché si sentiva male. Sputava sangue.

Ha avvertito il suo compagno di cella che non era più in grado di respirare. I detenuti hanno allora chiamato le guardie per chiedere aiuto: hanno premuto il pulsante di emergenza, hanno battuto sui cancelli e hanno urlato.

Nonostante ciò, gli agenti hanno impiegato almeno 30 minuti per reagire. I detenuti allora hanno iniziato a fare un massaggio cardiaco alternandosi, dal momento che le guardie non hanno voluto farlo.

Quando sono arrivati ​​i pompieri era troppo tardi, la persona era già morta.

Negli ultimi giorni a Mesnil si sono verificati due tentativi di suicidio. I detenuti non hanno ancora notizie di uno di loro.

In reazione a questi eventi è in corso uno sciopero della fame nei due CRA di Mesnil-Amelot.

I CRA uccidono.

Solidarietà ai detenuti oggi in lotta e in sciopero della fame.

Forza a tutti quelli rinchiusi.

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Belgio – Tentata espulsione di un giovane palestinese

Traduzione da: Getting the voice out

Domenica 13 ottobre 2024, un giovane di nazionalità palestinese ha subito un tentativo di deportazione all’aeroporto di Zaventem. Si tratta del secondo tentativo di espulsione in Albania. Al primo tentativo, l’Albania ha rifiutato la deportazione ed è stato riportato in Belgio.

Il giovane è arrivato in Belgio dopo un lungo viaggio, durante il quale ha attraversato molti Paesi (da Gaza, passando per Egitto, Turchia, Grecia e Albania). È stato bloccato all’aeroporto nell’aprile 2024 in arrivo con un volo dall’Albania. L’Ufficio Immigrazione (Office des étrageres) vuole rimandarlo in Albania, applicando la Convenzione di Chicago del 1944, che permette di espellere le persone che giungono sul territorio nazionale ma la cui domanda è stata respinta. In questo modo si permette di perpetrare violenze ed espulsioni forzate, nonché di rinchiudere le persone in un centro di detenzione per il solo fatto di essere entrate “illegalmente” nel Paese.

Il fatto che quest’uomo provenga da Gaza simboleggia ancora di più l’ipocrisia e il coinvolgimento del Belgio (e più in generale delle politiche migratorie europee) nel genocidio in atto a Gaza. In Belgio, come altrove, le persone che fuggono dalla violenza e dal genocidio non sono riconosciute come degne di protezione internazionale e di adeguata accoglienza.

Il giorno prima di essere espulso, il giovane si è ferito alla testa e ha dovuto essere visitato in ospedale. Tuttavia, non appena è tornato al centro, la sicurezza è venuta a prelevarlo dalla cella alle 4 del mattino per accompagnarlo all’aereo. Una volta in aeroporto, ha opposto resistenza all’espulsione ed è stato riportato nel centro chiuso 127bis. Il giovane è ancora minacciato di deportazione e di trattamenti discriminatori e umilianti da parte dell’Ufficio immigrazione, nonostante la sua situazione dovrebbe essere regolarizzata – come avviene per tutti i detenuti dei centri chiusi, indipendentemente dalla loro origine o dalla loro situazione personale e familiare. È in corso una nuova richiesta di protezione internazionale.

Una quindicina di persone provenienti da tutto il Belgio si sono recate domenica all’aeroporto per spiegare ai passeggeri del volo la situazione di questo giovane e il loro diritto di opporsi a questa espulsione forzata. Grazie a loro di essersi mobilitati.

Il nostro pensiero va al giovane palestinese detenuto nel centro e a tutti i suoi compagni di detenzione.

#Libertà di movimento e di insediamento per tutti.e

#Fuoco alle frontiere e al loro mondo

#Fuoco ai centri di detenzione e alle prigioni

#Palestina Libera

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