Ceuta, Sahara occidentale e Palestina: occupazioni, apartheid e complicità europee

In questi giorni segnati dagli ennesimi bombardamenti israeliani a Gaza, migliaia di persone sono entrate in massa a Ceuta e Melilla, due enclave spagnole in territorio marocchino. La notizia è stata riportata come “una cosa pazzesca”, un fatto inedito, da molta stampa italiana ed europea. E in effetti, si tratta di un fenomeno raro in due pezzi di terra che gli accordi tra Marocco, Spagna e Unione Europea hanno provato a rendere completamente invalicabili. Un muro enorme separa lo stato sionista dai territori palestinesi, e chilometri di barriere e filo spinato illegale delimitano i confini tra quel che resta del colonialismo spagnolo e il Marocco. Più a Sud, una barriera minata consente al Marocco di mantenere un’occupazione lunga mezzo secolo nel Sahara Occidentale. Tre storie che ci parlano in maniera diversa ma affine della violenza coloniale e del suo rimosso. Ovverosia, quel processo per cui il colonizzatore “falsifica la storia, riscrive i testi, spegne i ricordi. Qualsiasi cosa pur di trasformare la sua usurpazione in legittimità[1]”

Cominciamo con lo stupore, l’indignazione o l’ostilità – dipende dai casi –  degli e delle europee di fronte alle immagini di frotte di persone che a piedi o a nuoto entrano in massa a Ceuta e Melilla, inseguite e catturate da militari dell’esercito spagnolo. Secondo le interpretazioni più affidabili, si tratterebbe di una mossa appositamente studiata dal regime marocchino per mettere pressione alla Spagna, colpevole di aver accolto nei suoi ospedali Brahim Ghali, uno dei leader del Fronte Polisario per la liberazione del Sahara Occidentale, malato di Covid. Come in tanti altri casi, la responsabilità è attribuita al Marocco, colpevole di “giocare sulla pelle” delle persone. La condanna è più che condivisibile. Muhammad VI, come Erdogan o al-Sisi, Tebboune in Algeria, Hemetti in Sudan sono dei criminali che utilizzano le migrazioni, o meglio il loro controllo funzionale alla sicurezza europea, per rafforzare il  potere autoritario. E tuttavia, a ben guardare, in questo racconto c’è molto che non torna. Proprio come nel caso dell’occupazione israeliana in Palestina siamo di fronte a delle narrazioni incomplete, mistificanti, volte ad attribuire le responsabilità a una sola parte, liberandosi delle proprie. ll processo, del resto, è molto più facile quando si tratta di spolverare il lessico dei pregiudizi antiarabi e/o islamofobi. Le cronache mediatiche non sono neutrali, si concentrano solo quello che attira l’attenzione dell’opinione pubblica e sono il riflesso – anche inconscio – degli interessi e delle preferenze di chi ha il potere di parlare. Per esempio, a nessuno/a viene in mente di interrogarsi sull’esistenza stessa di un “territorio europeo” nel mezzo del continente africano. Così come nessuno.a va a vedere quanti soldi sono stati stanziati da Spagna e EU per aumentare l’altezza delle recinzioni o l’installazione di filo spinato illegale dal lato marocchino, per “proteggere” due sputi di terra europea[2]. Ancora una volta, non si tratta  di seguire la propria agenda nazionalista del makhzen[3] marocchino sempre pronto a negoziare con i colonizzatori europei le rivendicazioni territoriali (Ceuta e Melilla) in cambio di un riconoscimento dell’occupazione territoriale (Sud Sahara). Del resto, a chi si sbalordisce dell’assalto a Ceuta non viene in mente di andarsi a vedere quante persone sono morte in mare cercando di raggiungere le isole Canarie, attraverso una rotta molto più lunga e pericolosa, di quella mediterranea[4]. Così come chi si commuove “per il salvataggio del neonato” non interessa parlare delle 12.725 lavoratrici stagionali vittime di sfruttamento, violenze, stupri, soprusi e furti che quest’anno sono arrivate in Spagna per raccogliere le fragole. Eppure, sono quattro mila persone in più rispetto a quelle giunte negli scorsi giorni?! Continua a leggere

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Aggiornamento dal CPR di Torino in rivolta

Fonte: No CPR Torino

Abbiamo sentito la voce di alcuni reclusi che con coraggio hanno voluto raccontarci quello che sta accadendo dentro il CPR di Torino.
Il ragazzo deceduto nella notte tra sabato e domenica si chiamava Musa Balde, aveva 23 anni ed era originario della Guinea. Il 9 maggio scorso era stato aggredito a colpi di spranghe da tre ragazzi italiani a Ventimiglia, luogo di frontiera, al confine con la Francia. Dopo essere stato massacrato di botte era stato portato in ospedale a Bordighera (Imperia) e dimesso con prognosi di 10 giorni per gravi lesioni ed un trauma facciale. A causa della denuncia in Questura era emersa la sua irregolarità sul territorio nazionale ed era stato portato al CPR di corso Brunelleschi a Torino dove da subito è stato rinchiuso nell’area Rossa insieme ad altri detenuti e successivamente, durante la serata di sabato, portato in isolamento all’interno della sezione denominata “Ospedaletto”. Secondo la testimonianza di un ragazzo, nonostante dimostrasse chiari segni di sofferenza causati dalle lesioni al corpo, Musa Balde non è stato mai visitato da nessun medico o membro del personale medico del CPR. Ci ha raccontato che dopo il trasferimento in isolamento, avvenuto senza una chiara motivazione, lo ha sentito urlare e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere una risposta. Domenica mattina la versione del suicidio si è diffusa rapidamente in tutte le aree del centro provocando numerose proteste tra i reclusi a causa del fatto che nessuno di loro ha creduto possibile che Musa Balde si sia potuto suicidare, accusando fin da subito la polizia ed il personale medico del CPR di quanto accaduto. Cosa è accaduto realmente durante la notte non si sa con certezza e probabilmente non si saprà mai anche perchè non c’erano altri compagni in cella con lui. E anche se ci fossero stati sarebbero stati rimpatriati rapidamente per eliminare scomodi testimoni come è già successo dopo la morte di Faisal nel 2019, avvenuto sempre all’interno del CPR di Torino nella stessa sezione di isolamento dove si trovava Musa Balde e nel 2020 dopo la morte di Vakhtang, avvenuto nel CPR di Gradisca di Isonzo. Una cosa però è certa. Ovvero che un altro ragazzo è entrato dentro un Centro di Permanenza per il Rimpatrio con le sue gambe ed è uscito dentro una bara. Ucciso dallo Stato che ha concepito e continua a giustificare questi luoghi infami.

I ragazzi reclusi all’interno dell’area Verde e dell’area Blu hanno intrapreso uno sciopero della fame rifiutando il cibo avariato che li viene fornito per protestare contro la morte del loro compagno e contro le condizioni in cui sono costretti.
Ieri sera un gruppo di solidali si è presentato sotto le mura del CPR di corso Brunelleschi per urlare la propria rabbia e sostenere chi con coraggio lotta per distruggere la propria gabbia.
Nella notte le proteste dei reclusi hanno preso forma con diversi incendi che hanno danneggiato parte dell’area Verde e dell’area Bianca.
Seguiranno aggiornamenti.

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Alta Val di Susa – Sulla camminata resistente in frontiera

Fonte: Passamontagna

Oggi pomeriggio, dal campeggio “Sconfiniamo la frontiera”, è partita una passeggiata resistente. Il corteo ha preso i sentieri dirigendosi verso Monginevro. La Gendarmerie in antisommossa si è quasi subito schierata a protezione dei campi da golf, impedendo il passaggio. I campi da golf (di proprietà di Lavazza e del comune di Monginevro) sono ogni notte teatro di una caccia all’uomo da parte della polizia di frontiera e di giorno sfruttati dall’economia devastatrice del turismo golfistico e sciistico.

Il corteo quindi è salito sulla statale, bloccandola, sottolineando ancora una volta come questa strada sia inaccessibile ad alcune persone selezionate dagli stati ma sia attraversata tutti i giorni da centinaia di camion merci.

Consapevoli che i boschi sono il luogo dove si perpetra la violenza della frontiera, ci siamo ripresi i sentieri.

Nonostante le intimidazioni della gendarmerie che ha ripetutamente lanciato lacrimogeni, i compagni e le compagne hanno resistito e sono riusciti a intrattenerli sulle pendici delle montagne, che evidentemente le guardie in antisommossa non sono abituate a percorrere.

Tra playmobil che scivolano a terra, manganelli perduti tra i prati e lacrimogeni sparati sui propri piedi, la gendarmerie ci ha regalato bei momenti.

Rispondiamo così allo sgombero di spazi occupati e solidali, una risposta che non finirà qua.

Passate domani a partire dalle 11 per partecipare alle discussioni che animeranno tutta la giornata del campeggio.

Complici e solidali coi compagnx condannati per i fatti del Brennero!

Vicinx a tutti i popoli in lotta e a chi in Palestina sta lottando per la libertà! FREE PALESTINE

SEMPRE CONTRO OGNI FRONTIERA

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Cet après-midi, une randonnée résistante est partie du camping “Sconfiniamo la frontiera”. Le cortège a emprunté les chemins et s’est dirigé vers Montgenèvre. Continua a leggere

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Le morti invisibili delle persone immigrate in Italia

Mame Dikone Samb

Le morti e le violenze sistematiche subite dalle persone immigrate in Italia spesso rimangono ignote. Un esempio emblematico è quanto successo negli ultimi giorni.

Il 25 aprile 2021 i media senegalesi  diffondono la notizia della morte di Mame Dikone Samb, avvenuta in Italia. Secondo quanto riportato da questi articoli, pubblicati a caratteri cubitali sulle prime pagine dei quotidiani locali, Mame Dikone Samb, 56 anni, nata a Ngor in Senegal e residente da diversi anni in Italia con i suoi figli a Castelli Calepio in provincia di Bergamo, sarebbe morta in seguito all’intervento dei Carabinieri, dopo un diverbio avvenuto negli uffici di una banca di Grumello del Monte (BG).

Les Echos, edizione del 26 aprile

Dopo il fermo delle forze dell’ordine, che avrebbero utilizzato una pistola taser, la donna sarebbe stata portata in caserma e in seguito sarebbe stata vittima di un infarto che ne avrebbe causato la morte. Questa notizia è cominciata a circolare il  27 aprile sui social della comunità francofona anche in Italia, senza che sui media italiani ce ne fosse traccia. La prima notizia in italiano è stata pubblicata dal sito bufale.net, che si affrettava a rilevare alcune incongruità dei resoconti pubblicati in Senegal, stranamente però dedicandosi a smontare una presunta bufala che non avuto ancora alcuna diffusione sui media italiani. Solo il 28 aprile è arrivata, da fonti italiane, la conferma di questa morte, attraverso un articolo di Africa Rivista che cita le dichiarazioni dei Carabinieri di Grumello del Monte: Mame Dikone Samb è effettivamente deceduta il 16 aprile 2021 nell’ospedale di Alzano Lombardo (per una “tromboembolia polmonare bilaterale”), dove era stata condotta dopo che i Carabinieri l’avevano fermata il 14 aprile nella banca, portata in caserma e chiamato il 118 per un trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

L’articolo aggiunge che “La versione contrasta con quanto apparso sulla stampa senegalese, dove si parla di infarto provocato dall’uso di un taser. Il giornalista senegalese che ha ricostruito la vicenda, Sakho Malick, ha detto a Africa che vari testimoni avrebbero assistito alla scena. La famiglia della donna, che ha deciso di non parlare con la stampa, ha comunque nominato un avvocato per fare chiarezza. Dal legale abbiamo avuto conferma che è stata disposta un’autopsia che sarà effettuata presso l’Ospedale San Gerardo di Monza. Lamine Diouf,  console generale del Senegal in Italia sta seguendo da vicino gli sviluppi.”

Quello che possiamo dire è che per più di due settimane nessuno in Italia si è degnato di parlare di questa morte, che testimoni e parenti della vittima non sono stati mai ascoltati e al contrario come al solito sono stati delegittimati. Che la notizia è girata solo grazie alle proteste dei familiari e ai media senegalesi, che i primi articoli in Italia si sono concentrati sul negare o minimizzare quanto successo, che ancora una volta un tragico evento avvenuto in un contesto poco chiaro e che vede coinvolte le forze dell’ordine viene silenziato e oscurato.

12 aprile 2021

Che non è la prima volta che i trattamenti sanitari obbligatori vengono usati come strumenti di repressione contro chi protesta. Che i provvedimenti per consentire l’uso dei taser in Italia continuano ad essere deliberati, e ancora non è affatto chiaro dove e quanto queste armi vengano utilizzate.

E tutto ciò va inserito nel contesto di quanto avviene quotidianamente in Italia e vede purtroppo coinvolte le persone immigrate. Nell’ultima settimana: l’ennesima strage in mare di almeno 132 persone dirette in Italia lasciate annegate deliberatamente per mancanza di soccorsi al largo della Libia, la morte del 26enne tunisino Fares Shgater, dopo un inseguimento di polizia durante il coprifuoco a Livorno, le fucilate in strada contro tre braccianti a San Severo in provincia di Foggia, con una persona che ha perso un occhio, l’ennesimo incendio nel ghetto dei braccianti di Borgo Mezzanone, la morte di 4 braccianti a Ragusa in uno dei frequenti incidenti stradali di cui sono vittime i lavoratori delle campagne.

Sono le logiche conseguenze della sistematica violenza di un apparato di leggi e procedure istituzionali razziste, che si cerca di nascondere e mistificare facendole passare per sfortunate tragedie, e cancellando le lotte delle persone immigrate che da tempo si oppongono a tutto questo, rivendicando libertà di movimento, documenti, case, contratti, trasporti e la fine dell’apartheid e del razzismo di stato.

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Non siamo complici delle stragi in mare

L’Italia e la Libia hanno saldato ulteriori relazioni commerciali mentre annegavano decine di persone nel Mediterraneo, ignorando le richieste di soccorso in uno dei mari più militarizzati del mondo.

Non possiamo restare in silenzio.

Mentre si parla di “ritorno alla normalità” tra bar e ristoranti, è ormai “normale” che le persone immigrate, se riescono a raggiungere le coste italiane, vengano rinchiuse in navi-prigione, trasferite in campi di internamento e poi deportate.

In questi giorni si è discussa la proposta di cittadinanza per Patrick Zaki mentre lo Stato italiano continua a intrattenere floridi rapporti commerciali e bellici con il regime di Al Sisi, a negare la cittadinanza alle persone che vivono in questo paese e a deportare le persone nate in Egitto che non hanno un regolare permesso di soggiorno. Non possiamo sopportare questa ipocrisia. Dopo l’ennesima aggressione armata ai danni di immigrati avvenuta a Foggia, dopo l’uccisione di una donna senegalese a Bergamo, fulminata da un colpo di taser inflitto dai carabinieri. Dopo la morte di un ragazzo tunisino a Livorno, a causa della polizia e di un coprifuoco che minaccia ulteriormente la vita delle persone colpite dall’apartheid istituzionale e dal ricatto dei documenti.

Venerdì 30 aprile, ore 18:00

Speaker’s corner e presenza in strada.

Appuntamento a Piazza dei Mirti (Centocelle)

Contro le stragi in mare

Contre le navi-quarantena

Per i documenti a tutti e tutte

Per la libertà

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Egitto – Anatomia di un’incarcerazione

Quella che segue è la traduzione del primo testo pubblicato dal quotidiano indipendente egiziano Mada Masr.

“Anatomia di un’incarcerazione” è una serie di scritti di Abdelrahman ElGendy che si concentra su diversi aspetti del carcere in Egitto. Abdelrahman è un prigioniero politico che ha trascorso più di sei anni dietro le sbarre, dal 6 ottobre 2013 quando aveva 17 anni fino al suo rilascio avvenuto il 13 gennaio 2020, a 24 anni. Venne arrestato nel 2013 mentre filmava le proteste successive alla deposizione dell’ex presidente Morsi (poi morto in carcere) da parte dei militari in Piazza Ramsis.

“Sono le 14, e il sole sta riversando la sua ira sul camion della polizia. Una volta ho letto che i prigionieri inglesi lo chiamano “scatola del sudore”. Siamo ingabbiati qui dentro da ore. Il metallo del camion sfrigola. Le nostre pelli bruciano in questo inferno – ci stanno friggendo vivi.
Continuo a cercare di asciugare il sudore che mi cola dal cranio con il dorso della mano, uno sforzo inutile con una sola mano. Alla fine mi arrendo e lo lascio scorrere.
I miei occhi bruciano mentre le gocce di sudore vi colano dentro e sento il sapore del sale sulla lingua. Un odore putrido invade le mie narici – un misto di sudore umano e urina, una parte di esso si trova nelle bottiglie che la gente ha usato quando era ancora in condizioni decenti, il resto luccica sul pavimento ai miei piedi.
Il camion si muove e quelli in piedi cadono l’uno sull’altro, e su di noi, quelli seduti sulle panchine. Alcuni premono il viso contro la rete metallica che copre le finestre sbarrate, cercando di scorgere qualche frammento del mondo esterno.
Arriviamo e sentiamo le grida dall’esterno – urla violente, maledizioni ignobili, i fendenti delle fruste, i colpi dei pugni che sulle parti del corpo. Continua a leggere

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Emergenza coprifuoco

Tra il 22 e il 26 ottobre 2020 le regioni Lombardia, Campania, Lazio, Sicilia, Calabria e Piemonte hanno imposto un coprifuoco notturno dalle 23 alle 5 del mattino, come “misura urgente di contenimento del contagio” da Covid-19. Con il DPCM del 3 novembre 2020 il coprifuoco dalle 22 alle 5 è stato esteso in tutta Italia a partire dal 6 novembre. Inizialmente temporaneo, il provvedimento è stato rinnovato più volte ed è tuttora vigente, dopo quasi 5 mesi, senza che il suo rinnovo sia stato accompagnato da una effettiva valutazione, trasparente e pubblica, sulla sua reale efficacia nella riduzione dei contagi.

I media hanno ricordato l’ultimo caso di applicazione del coprifuoco avvenuto in Italia, durante la Seconda guerra mondiale: era il luglio del 1943, quando il maresciallo Badoglio, che era subentrato a Mussolini come Capo del Governo, aveva indetto lo stato d’assedio con la legge del coprifuoco, dalle 20 alle 6 del mattino. La disposizione prevedeva il divieto di uscire di casa dal tramonto all’alba, vietava le riunioni di più di tre persone, proibiva l’affissione di stampati e manifesti.

Tuttavia i media si sbagliano. Un coprifuoco di fatto, che comporta il divieto di uscita notturno, è stato imposto a partire dal 2015 nei confronti di persone assegnate a una determinata categoria giuridica e sociale: richiedenti asilo e rifugiatx che vivono nelle varie tipologie di strutture di accoglienza, e lavoratori e lavoratrici agricole immigratx, alloggiatx nelle tendopoli\campi di lavoro istituzionali.

I regolamenti interni dei centri di accoglienza per persone migranti da sempre prevedono severe misure di controllo: dal rientro obbligatorio notturno, alle firme di presenza fino a 3 volte al giorno, ai rigidi orari di distribuzione dei pasti, alle autorizzazioni necessarie per allontanarsi per alcuni giorni dai centri. Tutte misure che, se violate, portano alla perdita dell’accoglienza e in certi casi anche al respingimento della domanda d’asilo.

Queste limitazioni delle libertà personali incidono pesantemente sulla vita quotidiana delle persone coinvolte. Non è possibile cercarsi un lavoro serale o notturno (dato che molti lavori vengono effettuati a nero, e quindi senza un contratto per giustificare l’uscita), né spostarsi facilmente per lavorare nei dintorni. Non si può socializzare con la comunità circostante, frequentare attività culturali serali, organizzarsi tramite riunioni e iniziative sindacali o politiche, o semplicemente passare del tempo con affetti, conoscenti e amici. Di sera, una persona che è costretta a vivere nei centri e campi per immigrati, per le autorità diventa automaticamente “socialmente pericolosa”, e questo rafforza la ghettizzazione istituzionale delle persone immigrate, dunque lo stigma sociale, e limita le possibilità di migliorare la propria esistenza. Per questi motivi sono state frequentissime le proteste portate avanti in questi anni, e ad ogni protesta è seguito il coro razzista di politici che chiedevano ulteriori strette repressive e controlli sugli immigrati.

Purtroppo di queste comuni e diffuse misure quasi mai si è parlato e men che meno sono state criticate e contrastate, se non dalle persone direttamente interessate, tranne in rari casi quando la “stretta” è giunta da istituzioni come le Prefetture o gli enti locali.

Ad esempio nel settembre 2015 nei centri di accoglienza in Veneto fu imposto un coprifuoco notturno dalla Prefettura. “I rappresentanti del governo in Veneto hanno deciso di imporre una sorta di coprifuoco. Infatti alla caserma Serena di Casier (Treviso) e all’ex convento Costagrande di Grezzana (Verona) i migranti devono rientrare negli alloggi entro le 20, alla base di Cona (Venezia) alle 21, alla Prandina di Padova alle 23,15. Adottiamo limitazioni di orario previste dalla normativa statale, che ci consente di imporre agli ospiti regole di accesso, entrata e uscita dal centro di accoglienza — conferma il prefetto di Treviso, Laura Lega —. Siamo rigorosi nell’applicazione di queste disposizioni generali, che contemplano il pernottamento dentro la struttura di riferimento. Ogni prefettura può adottare l’orario che ritiene più opportuno, a seconda della necessità e dell’ubicazione del presidio di accoglienza“.

Una minima risonanza sui media si ebbe anche nell’ottobre del 2018 quando la Prefettura di Firenze emanò una circolare che prevedeva che “a decorrere dal 1° novembre 2018 gli ospiti (dei centri di accoglienza) dovranno rientrare nelle strutture entro le ore 20 e permanervi fino alle ore 8,00 successive”.

Nell’attuale crisi sanitaria ed economica mondiale il dibattito sui media si è concentrato sull’opportunità di chiamare o meno “Coprifuoco” la misura di obbligo di rientro notturno a cui siamo sottoposti. Più che interrogarsi sull’efficacia in termini sanitari si è sottolineato il sapore “bellico” della parola e sconsigliato l’utilizzo.
Lasciamo sullo sfondo le immagini di un convoglio militare che, colmo di cadaveri, attraversa nella notte una città immersa nella paura e quelle del generale Figliuolo, onnipresente in tv, dopo un anno di sacrifici, solitudini, difficoltà e lutti: chiediamoci se il coprifuoco che viviamo da 143 giorni ha ridotto i contagi o è una forma di disciplinamento che ci avvicina alla rassegnazione.

Da casa si può andare a lavoro, resta giusto il tempo per fare la spesa e tornare a casa.
Chiediamoci perché, anche in “zona bianca”, è una misura che permane modulata alla chiusura di bar e ristoranti.

È importante sottolineare come, nel dopoguerra, l’uso del coprifuoco sia stato quasi esclusivamente adottato come misura repressiva. Il coprifuoco era una delle misure preconizzate dalla dottrina della “guerra contro-insurrezionale”. Fu attuato dal governo francese durante la battaglia d’Algeri nel 1957, e di nuovo nelle città metropolitane francesi nel 1961, quando il governo francese decretò un coprifuoco per le persone di origine algerina (e più in generale i francesi musulmani), tra le 20,30 e le 5,30 del mattino. Il 17 ottobre 1961 una manifestazione contro il coprifuoco fu repressa con un massacro, con centinaia di persone assassinate. Venne imposto anche nel 2005 in alcuni quartieri delle città francesi, dopo la rivolta delle banlieues. Il coprifuoco fu indetto in Egitto nel 2011, durante la rivolta contro il regime di Mubarak, e di nuovo nel 2013 per arginare le proteste contro il governo Morsi. Negli USA è ormai una misura consueta di contrasto delle tensioni sociali, ed è stato applicato a Ferguson nel 2014, a Baltimora nel 2015 e in varie città nel 2020, in tutti i casi dopo le proteste contro le uccisioni di persone afroamericane da parte della polizia.

Forse attendere la “naturale” dissoluzione del coprifuoco con l’arrivo del caldo, la voglia diffusa di non stare chiusi tappati in casa, non impedirà allo Stato di reintrodurlo in qualsiasi momento, dopo averlo testato per quasi 5 mesi sulla popolazione intera del paese, e in precedenza, sulle persone immigrate.

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Oulx – Dopo lo sgombero della Casa Cantoniera Occupata

fonte: Chez JesOulx – Rifugio Autogestito

***english version below***
***version française ci-dessois***
Il testo seguente rappresenta un tentativo, da parte di alcune persone che erano coinvolte nella Casa Cantoniera Occupata, di analizzare lo sgombero del nostro spazio e di riflettere sugli ultimi anni della nostra presenza da questo lato del confine.

Ora più che mai, vogliamo invitare tuttx a venire in frontiera per dimostrare che lo sgombero dei nostri spazi, la repressione delle persone di passaggio e dei solidalx, non arresteranno la nostra volontà di resistenza. Stiamo provando a ri-unirci e riorganizzare la presenza sul confine. Non sappiamo ancora che forma prenderà ciò che intendiamo fare, poichè dipende dagli eventi dei prossimi giorni e settimane. Se siete interessatx e volete rimanere aggiornatx, scrivete un’e-mail a chezjesoulx[at]riseup.net.

La mattina presto del 23 marzo, la polizia, insieme a vigili del fuoco e ad alcune ONG, hanno sgomberato la Casa Cantoniera occupata a Oulx. I 13 compagni che erano presenti nella casa durante lo sgombero sono stati accusati di occupazione, mentre oltre 60 persone di passaggio sono state sottoposte a test forzati per il coronavirus, identificate, prese le impronte digitali, e poi trasportate in diverse strutture.
Il modo in cui questo sgombero è stato eseguito dimostra ancora una volta tutte le contraddizioni della politica migratoria europea. La repressione della libera circolazione è possibile solo con la complicità delle istituzioni cosiddette “umanitarie”. Mentre i poliziotti sono il volto visibile della repressione statale, le organizzazioni umanitarie sono usate (e con compiacenza) come il volto amico di questa repressione.

La Croce Rossa e l’associazione “Rainbow 4 Africa” hanno fornito l’infrastruttura di trasporto e stivamento per le oltre 60 persone di passaggio che erano presenti nella casa durante lo sgombero, spedendole in diverse direzioni e facendole retrocedere dal confine. I vigili del fuoco hanno aiutato i poliziotti a sfondare le barricate della casa e hanno permesso loro di intrufolarsi nella casa dalle finestre del tetto usando le loro attrezzature. Senza l’aiuto di queste istituzioni, lo sgombero della Casa Cantoniera sarebbe stato molto più difficile e lungo (e, quindi, visibile al pubblico).
Non è la prima volta che la Croce Rossa collabora con la polizia – in questa frontiera o in altri luoghi. Ci sono state varie occasioni in cui i suoi membri sono stati ripetutamente presenti sul confine, cercando (invano) di convincere le persone di passaggio a non attraversare invece di fornire qualcosa di utile o permettere loro di decidere da soli. Spesso sono stati complici dell’intervento della polizia, aiutandola a realizzare i respingimenti. In diverse occasioni la Croce Rossa ha consapevolmente sfruttato la fiducia della gente nella sua istituzione mentre collaborava apertamente con la polizia.
L’associazione Rainbow 4 Africa ha una lunga storia di tentativi di collaborazione con i centri sociali e hanno più volte cercato di forzare la loro presenza sulla Casa Cantoniera. Allo stesso tempo sostengono il CPR di Torino con personale medico e hanno fornito infrastrutture mediche per lo sgombero della casa. Quando la protesta il giorno dello sfratto è arrivata al dormitorio dei Salesiani per portare solidarietà alle famiglie che vi erano state portate, ci siamo accorti che il cancello principale della struttura è stato chiuso a chiave fin dal loro arrivo, impedendo loro di uscire. Questo dimostra ancora una volta che la loro percezione delle persone a cui rivolgono i loro “servizi” non è quella di individui liberi e uguali, ma di oggetti gestibili e confinabili.

Per più di due anni la Casa Cantoniera ha cercato di creare uno spazio di solidarietà concreta e di resistenza contro la frontiera, l’oppressione e la violenza che ne derivano. Uno spazio che rifiutava di partecipare alla “gestione” della migrazione, dove coloro sulle cui spalle si costruiscono i nostri privilegi e le nostre ricchezze non venivano trattati come oggetti, come pericolosi delinquenti o vittime infantilizzate, ma come soggetti individuali in grado di prendere le proprie decisioni. La frontiera è evidentemente permeabile al continuo passaggio di denaro, turismo e commercio, ma non alle persone prive del pezzo di carta “corretto”. Il nostro obiettivo non è mai stato quello di fornire un servizio alla gente, ma di costruire una lotta inclusiva con persone che sono oppresse dal sistema capitalista e dello stato, in diversi modi.

Molte persone che sono passate per la Casa Cantoniera hanno partecipato attivamente alla gestione dei compiti quotidiani. Il fatto che questa casa sia stata aperta alla gente senza pause per 828 giorni è stato possibile solo perché abbiamo raccolto collettivamente le nostre conoscenze e competenze, massimizzando le nostre possibilità, adattandoci e valorizzando le differenze nelle nostre capacità. Condividendo la rabbia e la frustrazione in comune, ma anche passare momenti di affetto e di gioia, ci ha aiutato a diventare più forti e determinati nella nostra opposizione alla realtà violenta di questo mondo.
Nella casa occupata le persone hanno condiviso le loro storie, i loro sogni e le loro lotte tra di loro, trovando forza nel non essere soli. A volte questi momenti consistevano semplicemente nel condividere un caffè al mattino, nel passarsi un piatto di qualcosa di delizioso e fritto da condividere durante le discussioni, nel ballare musica pop da tutto il mondo mentre si preparava un pasto collettivo, o il collettivizzare con quattro persone diverse l’ultima cartina, filtro, ciuffo di tabacco o accendino per una sigaretta tanto necessaria…
Questa opposizione che si crea, non è semplicemente in contrasto con l’oppressione sistemica della frontiera – parallelamente ad essa, cerca di costruire una realtà alternativa. Questa casa è stata un luogo dove ci siamo confrontati molte forme di oppressione:
C’era un orto auto-organizzato, per ripensare il nostro modo di rapportarci al cibo e alla natura rispetto al consumismo.
C’era uno spazio riservato alle donne e agli individui non-binari/non conformi al genere, perché il sistema del patriarcato si smantella in parte, valorizzando e dando spazio.
C’era una biblioteca con libri e testi auto-pubblicati in varie lingue, dai fumetti e romanzi alla auto-cura e al DIY, puntando su un’alternativa radicale* che richiede una costante riflessione, autocritica ed espansione della conoscenza.
Pur avendo, in alcune occasioni, accettato l’appoggio materiale di ONG, non ci siamo mai sottomessi per conformarci ai loro paradigmi e abbiamo sempre cercato di auto-sostenere la casa con l’appoggio finanziario e materiale di persone che condividono o sostengono le nostre idee.

Ovviamente, in un mondo che si basa sulla violenza e in cui tutti noi abbiamo interiorizzato dinamiche di oppressione e certi stereotipi, è impossibile non commettere certi errori. Molte persone che sono passate per la casa sono sopravvissute a traumi e perdite, alcune delle quali non hanno mai avuto il privilegio di vivere senza paura e oppressione.
Non vogliamo negare che la casa ha visto episodi di violenza e che abbiamo commesso errori in certe situazioni, ma per creare qualcosa al di fuori della logica del profitto e del dominio, dobbiamo mettere in pratica ed imparare dagli errori che sono stati fatti in passato, anche se non sempre ci riusciamo. Siamo disgustati dal modo in cui questi episodi sono stati strumentalizzati per sventrare un approccio alternativo, usati per dimostrare che effettivamente un altro mondo non è possibile; in realtà è brutalmente ironico che questi episodi di violenza siano un risultato diretto dei sistemi oppressivi che gli stati nazionali sostengono con tanta vemenza.

Dall’inizio del progetto, molte speculazioni e disinformazioni sono state diffuse su questa casa. Subito dopo l’esecuzione dello sgombero, erano state condivise foto dell’interno della casa (che era in uno stato terribile, come logicamente sono tutte le case dopo gli sgomberi), strumentalizzandole per confermare la loro narrazione degli “sporchi abusivi e malfattori”. Ci rifiutiamo di parlare con i giornalisti, perché non vogliamo essere ritratti secondo l’immagine stereotipata “dell’anarchico” e strumentalizzati per alimentare lo spettacolo.
Così ora questo piccolo spazio di autodeterminazione che ci aveva dato la possibilità di respirare per un momento, pur sempre sommersi da un mondo di politiche dure e leggi razziali, è scomparso.
Lo sfratto della Casa Cantoniera è solo una parte della repressione globale contro la libertà di movimento, le strutture di solidarietà e gli spazi liberati ed occupati in generale. In tutta Europa negli ultimi anni, spazi occupati da tempo sono stati sfrattati, mentre i tentativi di creare nuovi spazi e nuove lotte vengono immediatamente accolti con tutta la forza degli organi statali repressivi. La militarizzazione delle frontiere e la normalizzazione dei respingimenti alle frontiere interne ed esterne dell’Europa, non fa che alimentare sentimenti razzisti sempre maggiori e la fascistizzazione della società. Allo stesso tempo, coloro che si rifiutano di credere in questa logica e continuano a sostenere le persone in movimento sono continuamente colpiti.
A Calais la distribuzione di cibo è stata illegalizzata, in altri luoghi, alle persone viene impedito di praticare la loro solidarietà individualmente e sono costrette a registrarsi presso una ONG. In Ungheria tutte le forme di sostegno alle persone in movimento sono state illegalizzate da anni.
L’obiettivo è da un lato quello di creare le condizioni che rendano la migrazione il più difficile possibile, e che agiscano da deterrente per impedire ad altri di tentare il viaggio. Dall’altro lato, si sta mandando il messaggio che l’umanità e il sostegno sono possibili solo quando sono raccolti in un contesto e una metodologia approvata dallo stato.
Tuttavia, la repressione delle strutture di solidarietà e la fortificazione delle frontiere non impediranno alle persone di esercitare la loro volontà e necessità di migrare. La migrazione è ovecchia come l’umanità, e finché questo mondo sarà parcellizzato in spazi di coloro che sono sfruttati e coloro che traggono profitto da questo sfruttamento – finché le guerre e i conflitti saranno alimentati dal bisogno del capitalismo di produrre profitto e dal bisogno degli stati nazionali di espandere il loro potere e la loro influenza – le persone continueranno a migrare da un luogo all’altro. E finché esisterà questa disuguaglianza tra il “sud globale e il nord globale” del mondo, la gente continuerà a cercare di venire in Europa.

Lo sgombero e la repressione della Casa Cantoniera non impediranno alle persone di passare questa parte della frontiera. Li porterà solo ad essere costretti ad usare percorsi sempre più pericolosi, e per le persone più disperate, e all’utilizzo di passatori che traggono profitto dalla miseria delle persone.
Possono prendere i nostri spazi, possono criminalizzarci e imprigionarci, ma non possono seppellire le nostre idee e non possono mettere a tacere la verità, e questa verità è questa:
Finché il mondo sarà organizzato secondo il principio della dominazione – della natura da parte dell’uomo, o di un tipo di uomo sull’altro, o di un sistema economico basato sullo sfruttamento delle risorse e delle vite umane – non potremo essere liberi. Abbiamo bisogno e troveremo, altri modi di esprimere la nostra opposizione, di costruire e lottare per spazi dove possiamo imparare, creare, vivere in libertà.
* usiamo la parola radicale nel suo senso originale, nel senso che vogliamo arrivare alla “radice” del problema invece di limitarci a riformare ciò che crediamo essere fondamentalmente disfunzionale
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Spagna – Sciopero della fame per protestare contro il trattenimento a Tenerife

Traduzione da https://www.elsaltodiario.com/migracion/huelga-hambre-continente-tres-meses-espera 

Uno sciopero della fame per arrivare alla penisola dopo tre mesi di attesa

Ieri, sabato 16 gennaio, più di 175 persone, la maggior parte delle quali provenienti dal Senegal, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il loro trattenimento a Tenerife.

Alcuni si trovano da tre mesi nell’hotel Tenerife Ving, una soluzione di accoglienza provvisoria dopo il loro arrivo via mare sull’isola. Il loro obiettivo continua a rimanere lo stesso di quando sono partiti dal Senegal mettendo a rischio la propria vita e passando svariati giorni di angoscia in mezzo al mare: ricongiungersi ai propri familiari in Spagna e trovare un lavoro. Però le settimane passano, e anche se molti dispongono del proprio passaporto, gli viene impedito di arrivare alla penisola dove si trovano i familiari che potrebbero ospitarli e sostenerli. Quando escono in strada sanno di essere esposti al rischio della detenzione, di finire in un CIE (Centro de Internamiento de Extranjeros – i nostri CPR) e di essere deportati. Per tutti questi motivi – dopo lunghe settimane di attesa e tre periodi consecutivi di quarantena dovuti all’arrivo di nuovi gruppi di persone – la mattina di sabato hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame, senza prevedere una data di fine. Questa mattina, secondo quanto comunicato a El Salto dall’hotel, una persona ha dovuto essere trasportata in ospedale per le conseguenze dello sciopero. 

Khalifa Ibrahima Ndiaye è arrivato a Tenerife alla fine di ottobre. “Un miracolo”, assicura, dato che sul gommone, di piccole dimensioni, viaggiavano duecento persone. “Mangiavamo un piatto di riso e bevevamo un bicchiere di acqua al giorno”. Hanno avuto fortuna visto che ci hanno messo “solo” sei giorni ad arrivare. Nell’hotel, racconta, ci sono persone che ci hanno messo dieci, dodici giorni ad arrivare. Pensa anche a tutti quelli che si sono fermati lungo il cammino.  Questo studente di diritto, che parla uno spagnolo perfetto, appare in un video nel quale, circondato da altri giovani senegalesi, spiega i motivi per cui ha scelto di smettere di alimentarsi come forma di protesta. Parlando con El Salto, racconta la frustrazione che si respira nell’hotel, una delle infrastrutture turistiche dove sono state distribuite le persone che arrivavano alle isole e il cui utilizzo come luogo temporaneo di accoglienza per i migranti ha suscitato critiche xenofobe e razziste. Però Ndiaye e le oltre 175 persone che si sono unite allo sciopero non desiderano stare in un hotel di Tenerife. “Qui ci danno da mangiare, possiamo dormire. Le lavoratrici della Croce Rossa ci trattano bene. Però non siamo animali, non vogliamo solo mangiare e dormire, siamo esseri umani, vogliamo lavorare, vogliamo essere liberi per avere una vita migliore”. 

Da settimane, Ndiaye ha i soldi necessari per pagarsi un volo per la Spagna e ricongiungersi con la sua famiglia che lo sta aspettando a Huesca. Il suo progetto personale, come quello di tutti coloro con cui condivide la sensazione di limbo e la paura di essere rispedito al punto di partenza,  si scontra con la ferrea volontà dello stato di impedire che chi arriva sulle coste delle isole Canarie (circa 22.000 persone nel 2020) prosegua verso il continente. 

Il caso dei senegalesi è complesso perché non gli viene riconosciuto il diritto di asilo come avviene invece per coloro che arrivano dal vicino Mali – anche se sono stati denunciati rimpatri verso la Mauritania anche di cittadini maliani – e la Ministra degli Esteri, Arancha González Laya, è già andata in Senegal lo scorso novembre per negoziare con il presidente Macky Sall la ripresa delle deportazioni verso questo paese. 

Ndiaye incolpa le autorità di Dakar di non aver mobilitato la diplomazia a Madrid per aiutare i suoi cittadini migranti bloccati nell’arcipelago. Persone che, dopo aver trascorso più di 60 giorni di detenzione, dovrebbero poter circolare senza paura della deportazione. Le critiche al governo senegalese per la sua indifferenza di fronte alla tragedia che colpisce gran parte della gioventù del paese, spinta all’emigrazione dall’assenza di futuro, ha generato lo scorso autunno un’ondata di proteste. 

Però, da quanto racconta Ndiaye, lo sciopero intende interpellare il governo spagnolo. Spiega che, essendo la Spagna un paese democratico, si aspettavano un trattamento più umano. Non è solo una questione di solidarietà, ma di giustizia. “Come persone migranti, siamo venute a reclamare la nostra fetta della torta. Per secoli si sono portati via la ricchezza dell’Africa, ci hanno usato come schiavi. E ora ci respingono quando veniamo a lavorare dopo aver rischiato le nostre vite sui gommoni”.

Il giovane senegalese e i suoi compagni sperano di riuscire a dare visibilità alla situazione in cui si trovano. “Al governo spagnolo chiediamo di lasciarci arrivare alla penisola per ritrovare le nostre famiglie. Sia per coloro che hanno un passaporto in regola che per coloro che non ce l’hanno. Nessun essere umano è illegale”, racconta il pomeriggio di sabato, prima di passare la sua prima notte di digiuno. Per ora, i media senegalesi hanno già dato copertura alla protesta. 

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Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà

fonte : FB Comitato lavoratori delle campagne

Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà

Il 19 agosto Mohammed, Amadou, Abdourahmane e Chaka vengono arrestati per devastazione, saccheggio e sequestro di persona e portati nel carcere di Treviso. Il 7 novembre Chaka, 23 anni, viene trovato morto nel carcere di Verona.
Secondo le accuse, sono colpevoli di aver “capeggiato” le proteste che tra giugno e luglio hanno travolto il Cas ex caserma Serena di Treviso.
In un periodo in cui per molti il lockdown sembrava finito, le persone costrette a vivere dentro i luoghi di reclusione continuavano a restare ammassate, senza che venisse presa nessuna misura di tutela della loro salute.
Questo è il caso dell’ex caserma Serena di Treviso, adibita a Cas e gestita dalla cooperativa Nova Facility, dove ancora a giugno, più di 300 persone continuavano a vivere in spazi sovraffollati, senza che venisse loro fornita alcuna informazione sui contagi né alcuna protezione come mascherina e disinfettante. Molti di loro lavorano sfruttati in diversi settori della zona, dalla logistica all’agricoltura. Già da ben prima dell’emergenza Covid chi era costretto a vivere in quel luogo aveva denunciato le terribili condizioni di vita all’interno della struttura: le condizioni igieniche degradanti, le cure mediche assenti, le camere-dormitorio, la rigidissima disciplina con cui sono applicate le regole dell’accoglienza, la collaborazione tra operatori e polizia, il lavoro volontario all’interno del centro. Un luogo perfetto per la diffusione del Covid.
L’ex caserma Serena, infatti, nel giro di 2 mesi diventa un focolaio,e i contagiati passano da 1 a 244. E’ proprio per questo che prima a giugno, poi a fine luglio e infine ad agosto si susseguono proteste da parte degli ospiti della struttura. Le ragioni sono molto chiare, nonostante le notizie sui giornali e le inchieste giudiziarie vogliano storpiarle in tutti i modi possibili: si protesta perché non viene fornita nessuna informazione sugli aspetti sanitari, né alcuna misura di tutela della salute, perché da un giorno all’altro viene comunicato a tutti l’isolamento, ma senza che venga data alcuna spiegazione. Solo dopo due giorni di vero e proprio sequestro degli ospiti si scopre che la ragione è il contagio di un operatore. Si protesta perché molti perdono il lavoro senza poter nemmeno comunicare coi propri padroni; perché vengono fatti a tutti i tamponi, ma poi positivi e negativi vengono rinchiusi insieme e quindi l’isolamento si rinnova continuamente. Si protesta perché chi lavora lì continua ad entrare e uscire, mentre i contagiati all’interno aumentano di giorno in giorno, ad alcuni vengono fatti anche 4 o 5 tamponi ma nessuno, tra operatori, personale sanitario e polizia, si interessa di fornire informazioni a chi dentro la caserma ci vive e di virus si sta ammalando. Ad alcuni è anche impedito di vedere l’esito del proprio tampone. Si protesta anche perché gli ospiti chiedono di parlare coi giornalisti per raccontare le loro condizioni, e polizia e operatori glielo impediscono.
Nel frattempo, già dopo le prime manifestazioni di giugno, la prefettura preannuncia 3 espulsioni e almeno una ventina di denunce pronte per quando finirà l’isolamento. L’annunciata repressione si avvera il 19 agosto, quando quattro persone che vivono dentro l’ex caserma vengono arrestate. Altre 8 risultano indagate. Le accuse sono pesanti, ed è molto chiaro che l’intento è punire Abdourahmane, Mohammed, Amadou e Chaka in modo esemplare, per dare un segnale a tutti gli altri. Per trovare dei colpevoli, dei capi, degli untori, per spostare la responsabilità dal Ministero dell’Interno, dalla Prefettura, dalla cooperativa e dal comune agli immigrati. Tutti e 4 vengono portati nel carcere di Treviso. Mohammed viene ricoverato in urgenza allo stomaco proprio per l’assenza di cure, Amadou si ammala di Covid in carcere.
Dopo un mese circa – per ordine del Ministero dell’Interno- vengono trasferiti in 4 carceri diverse e messi in regime di 14bis (sorveglianza particolare). Il 7 novembre il più giovane di loro, Chaka, viene trovato morto nel carcere di Verona. Su di lui viene spesa qualche parola in qualche articolo di giornale, si parla di suicidio e poi, come per tantissime altre morti, cala il silenzio.
Le ragioni di questa protesta, la repressione che ne è seguita e la morte di Chaka sono un’espressione molto chiara di quanto è accaduto nell’ultimo anno e dell’ordine assassino a cui vogliono sottoporci. Se abbiamo conoscenza di questa storia è soltanto grazie al fatto che delle persone continuano a lottare. E per questo ora stanno pagando, rischiando di rimanere isolate e sole.
Dall’inizio della pandemia nei centri di accoglienza di tutta Italia si sono susseguite proteste scatenate da ragioni del tutto simili a quelle di Treviso: la mancanza di informazioni chiare, l’ammassare positivi e negativi insieme in una tendopoli, in un centro o su una nave, le quarantene continuamente rinnovate, la mancata tutela della salute. Le proteste, le fughe, gli scioperi della fame non si sono mai interrotti, contro uno Stato che nei mesi ha noleggiato 5 navi-prigione, ha inviato militari a presidiare i centri di accoglienza, ha stretto accordi di rimpatrio con la Tunisia, ha denunciato ed espulso centinaia di persone, avallato da fascisti e rappresentanti locali che gridavano all’untore, all’espulsione, agli sgomberi.
A marzo, in seguito alle lotte per i documenti che le persone immigrate soprattutto nelle campagne portano avanti con coraggio, lo stesso governo ha varato una sanatoria che ha coinvolto solo poche persone, lasciandone tantissime altre in condizione di irregolarità o semi-irregolarità. Eppure di questa sanatoria le istituzioni si sono fatte vanto, così come della modifica dei decreti sicurezza di Salvini (in realtà questi prevedono ancora misure per favorire la repressione dei reati commessi dentro i cpr, mentre è stata lasciata completamente intatta tutta la parte relativa alla criminalizzazione delle lotte in generale).
Così nelle carceri, dove dopo le rivolte di marzo e le morti, si è cercato di imporre in tutti i modi un muro di silenzio. Mentre le prigioni continuano ad essere focolai, i contagiati raddoppiano (come ad esempio il carcere di Vicenza dove tuttora è rinchiuso Amadou), e aumentano i morti di Covid tra i detenuti, sulle rivolte di marzo e sui 14 detenuti morti nelle galere di Modena, Bologna e Rieti si cerca in tutti i modi di far calare il silenzio; levando di torno le persone e mettendo a tacere in qualsiasi modo la voce dei detenuti e dei testimoni delle violenze e torture che si sono consumate in questi mesi nelle galere. Non a caso proprio le persone straniere che hanno partecipato alle rivolte di Modena sono state espulse.
Ma per quanto si voglia liquidare tutte queste morti, da quella di Salvatore Piscitelli a quella di Chaka Outtara, come dovute a overdose o suicidi, sono proprio le denunce, i racconti e le lotte di questi mesi ad aver permesso di non farne dei casi singoli. Per quanto si voglia dividere e isolare chi ha lottato nei campi, nei centri di accoglienza, nei cpr, sulle navi, nelle carceri con enorme coraggio in tutti questi mesi, i legami di solidarietà e di lotta non smettono di intrecciarsi.
La morte di Chaka, come quella di tanti altri, non deve essere dimenticata, perché quello di Chaka è un omicidio e gli assassini sono l’accoglienza, le leggi razziste che governano la vita delle persone immigrate, lo sfruttamento, il carcere.
Attualmente Mohammed e Amadou sono nelle carceri di Treviso e Vicenza, mentre Abdourahmane è agli arresti domiciliari. Invitiamo a scrivere loro e a far sentire la nostra vicinanza in tutti i modi possibili, perché continuare a lottare significa anche non lasciare solo nessun davanti alla repressione, e non lasciare che la morte di Chaka si aggiunga solo ad una lista ormai troppo lunga.
Per Chaka
Mohammed, Amadou e Abdou liberi! Tutti e tutte libere!
Sanatoria per tutti, repressione per nessuno!
Per scrivere loro:
Mohammed Traore
Via S. Bona Nuova 5/b
31100 Treviso (TV)

Amadou Toure

Via B. Dalla Scola 150

36100 Vicenza (VI)

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