Riceviamo e pubblichiamo un testo di Corto & Maltese che ringraziamo per il contributo.
Il 6 Marzo scorso, intorno alle 2 di notte, 19 migranti tra i 19 e i 29 anni, provenienti da diversi paesi (Senegal, Mali, Ghana, Guinea Bissau e Sierra Leone), sono riusciti a fuggire dal Centro detentivo per migranti di Hal Safi, situato in una base militare nel sud est di Malta, danneggiando una parte di recinzione. Purtroppo 14 tra loro sono stati subito riarrestati lo stesso giorno della fuga, mentre 5 risultano ancora ricercati.
Il centro in questione è uno dei “Centri di identificazione e permanenza preventiva per immigrati” dell’isola di Malta, necessari secondo la legislazione maltese (capitolo 217 dell’Immigration Act) per porre rimedio (punire per dissuadere) al fenomeno dell’immigrazione clandestina, e non è la prima volta che,anche per le condizioni disumane in cui versano, i migranti detenuti tentino la fuga o azioni di ribellione.
Il sistema maltese si basa sulla nozione di “prohibited immigrants”: tutte le persone che non hanno diritto a entrare/transitare/risiedere sul territorio sono quindi soggetti al “removal order” (rimpatrio), che prevede quindi come logica conseguenza la detenzione durante il periodo necessario affichè la procedura di deportazione abbia luogo (“Boat Ride to Detention”, come definito da un report dello Human Rights Watch del 2012). Chiaramente poi il governo maltese non riesce a rimpatriare tutti, per cui dopo i 18 mesi i migranti vengono rilasciati.
Tale detenzione è abbastanza indiscriminata poiché vale anche per i richiedenti asilo (fino a 12 mesi di detenzione, che diventano 18 se la richiesta non viene accolta o in caso di mancata richiesta). Inoltre, nel rapporto “Not Criminals” si denunciano le condizioni e i trattamenti disumani ai quali vanno incontro i migranti nei centri di detenzione maltesi: sovraffollamento, totale mancanza di privacy, condizioni igieniche e sanitarie terribili (al punto da lasciare i detenuti con malattie infettive insieme ai detenuti sani, spesso causando interminabili epidemie).
“In ottobre è cominciato ad essere più freddo. Io, mia madre e mia zia dormivamo su due materassi, ma nella nostra stanza le finestre erano rotte ed era molto freddo. Così ho deciso di andare a dormire con altre due persone etiopi: la loro stanza era molto piccola e senza finestre, quindi non faceva freddo. Questa stanza però era nella zona dei bagni e per raggiungerla ho dovuto camminare sul pavimento che era ricoperto d’acqua. E puzzava sempre. Alla fine di ottobre mi sono ammalato molto, avevo una brutta infezione ai polmoni. Mi hanno portato in ospedale dove mi hanno ricoverato per più di dieci giorni. Quando mi sono ripreso, ho pianto perché non volevo ritornare in prigione.”
Ragazzo etiope trattenuto dieci settimane in un centro di detenzione
Ancora piú sconvolgente é il fatto che lo stesso trattamento venga adottato anche nei confronti dei minori di 18 anni “non accompagnati” (quelli che arrivano con le loro famiglie spesso vengono trasferiti negli Open Centre, tipologie di “carcere” meno restrittive, somiglianti a delle baraccopoli o dei ghetti), anziani, donne incinte o persone con disabilitá fisiche e/o mentali.
Gli effetti deleteri della detenzione sui migranti minori si possono evincere dalla breve dichiarazione di Kelile, 17 anni quando arrivó a Malta nel 2011 e fu detenuto per ben 9 mesi, poi ospedalizzato per 15 giorni e poi ritradotto in carcere:
“Prendo farmaci adesso, per dormire. Niente farmaci, niente sonno…il mio cervello non é in buone condizioni, é davvero dura…non posso…non posso…questo é un posto terribile. Ho bisogno di libertá.”
Molti minori (e non) hanno sviluppato disturbi mentali di vario tipo e gravitá, a causa di traumi subiti durante i viaggi che durano mesi, acuiti dalla detenzione ingiustificata dalla durata indefinita, dell’eventuale rimpatrio e delle condizioni aberranti della detenzione. Molte organizzazioni internazionali per il monitoraggio dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per questo tipo di detenzione sistematica, puntando il dito soprattutto sull’eccessiva discrezionalità con la quale il periodo di detenzione viene prolungato dall’autorità, senza obbligo o termine di legge.
Hal Safi, il secondo per grandezza dei 4 Detention Centre maltesi e gestito direttamente dall’esercito (al contrario degli Open Centre, che sono sotto gestione del governo maltese o delle diocesi), è balzato spesso recentemente agli onori della cronaca per le condizioni disumane in cui versano i detenuti e come riportato da diverse delegazioni non è altro che un carcere, che “disintegra in tutti quei giovani uomini la vitalitá e l’entusiasmo” che la ricerca della libertá dalle guerre, dalle persecuzioni e dalla povertá aveva resituito loro, nonostante sopravvivere a viaggi di quel tipo sia spesso miracoloso.
Anche Amnesty International ha espresso una serie perplessità per l’incuria e per l’eccessivo uso della forza contro i detenuti di Hal Safi, come descritto in un report del 2005, risultato di una investigazione portata avanti dal governo maltese sugli “incidenti” avvenuti in quel posto. Soprattutto la morte di Mamadou Kamara, 32 anni del Mali, ha aumentato tali preoccupazioni (si é mossa in tal senso anche la Commissione per la Prevenzione della Tortura), ma ancora nulla sembra essere cambiato, se non nei proclami sterili del governo maltese.
Il 16 Agosto del 2011 nella Wharehouse One di Hal Safi, infatti, c’era stata una dura rivolta dei migranti libici ai quali, dopo 6 mesi di detenzione preventiva, era stata rifiutata la richiesta d’asilo. Un imponente dispiegamento di forze è stato schierato per sedare la rivolta: 85 soldati dell’esercito, 120 agenti di polizia, oltre al personale del centro, con uso massiccio di gas lacrimogeni e altre misure repressive, come l’uso di proiettili di gomma (negato dagli agenti durante il processo).
23 arresti, da un carcere all’altro. Dalla detenzione preventiva a quella punitiva. E dopo il danno, la beffa. Scontati i 6 mesi di prigione punitiva, i 23 sono stati ritrasferiti ad Hal Safi per “scontare” il rimanente periodo di detenzione dovuta all’irregolarità amminitrativa. La Commissione Internazionale dei Giuristi, nella sua visita ad Hal Safi qualche mese dopo i fatti di Agosto, ha trovato i detenuti sofferenti e frustrati per l’obbligo di permanenza in prigione senza alcuna accusa penale, ma con la ferma volontá di trovare un modo di fuggire alla ricerca della libertà, di un posto dove lavorare e vivere, e provvedere dignitosamente a loro stessi.
Hakim, arrivato a Malta dall’Eritrea:
“Mi sentivo come un animale trattenuto in gabbia. La chiamano detenzione ma é una prigione”
Zerihun, dall’Etiopia:
“Stavamo solo cercando una vita migliore e invece ci siamo imbattuti in una Guantanamo”
E ancora, Berhane:
“Mi aspettavo di arrivare qui, fare la richiesta di asilo ed essere salvo. Non mi aspettavo certo di finire in carcere. Non capisco che benefici porti questo sistema al governo maltese.”
Concludendo, ribadiamo che nessun essere umano al mondo puó essere considerato illegale solo perché i governi e gli stati devono proteggere i loro esclusivi interessi politici ed economici. Dei CIE e delle prigioni, in ogni parte del mondo, vogliamo che rimangano solo macerie.