In questi giorni è stata ripresa da molti media main stream la notizia dello sciopero della fame posto in atto da Fatì, recluso nel Cie di Bari, che per dar forza alla protesta si è cucito le labbra (ne abbiamo parlato qui).
Il Cie di Bari era già salito alle cronache ad aprile, quando sulla stampa era stata pubblicata la notizia che il nuovo direttore, Rohan Lalinda Kuruppu Arachchige, era un migrante dallo Sri Lanka che nel 2000 dopo il suo arrivo in italia era stato rinchiuso nel CPT di Trapani (fonte qui).
La cosa singolare tra l’altro è che il Il Cpt Serraino Vupitta ai tempi era gestito da una cooperativa dello stesso consorzio che oggi ha l’appalto del Cie di Bari, i trapanesi di Connecting people, per i quali lavora Rohan Lalinda Kuruppu Arachchig (che dopo essere uscito dal CPT aveva già cominciato a lavorare per lo stesso CPT diventando in seguito il direttore del CARA di Brindisi (fonte qui).
In questi giorni, il direttore del Cie di Bari ha dichiarato ai giornalisti – ribadendo una posizione già espressa nelle interviste rilasciate ad aprile – a proposito della protesta di Fatì “mi dispiace, ma non so come aiutarlo. Qui facciamo solo rispettare la legge italiana” (fonte qui).
A questo proposito pubblichiamo questo interessante contributo ricevuto da alcuni nemici delle espulsioni
A gestire i CIE in Italia sono importanti organizzazioni (o meta-organizzazioni) umanitarie e del sociale che possiamo dividere fondamentalmente in tre categorie:
- la Croce Rossa italiana (associazione con personalità giuridica riconosciuta, operante per Comitati);
- le cooperative sociali bianche e rosse, attraverso i loro consorzi, o raggruppamenti di consorzi (di 1°, 2° e 3° livello);
- organizzazioni caritatevoli come le Confraternite della misericordia, d’ora in poi denominate Misericordie;
La gestione da parte di queste organizzazioni si avvale dello stretto sostegno, della pace sociale e della complicità dei sindacati confederali.
Ciascuna di queste organizzazioni dichiara di gestire nei CIE gli aspetti legati all’accoglienza, ovvero la mediazione linguistico-culturale, il sostegno socio-psicologico, l’assistenza sanitaria, l’informazione legale. Bisogna chiedersi come sia possibile che persone oggettivamente così bisognose come quelle ospitate nei CIE, a tanto dichiarata buona accoglienza, rispondano ingrati con sommosse, incendi, tentativi di fuga.
Le possibili spiegazioni di questa inconciliabile situazione, possono essere soltanto due (una terza non è data): o gli ospiti sono tutti veramente ingrati, disturbati psichicamente, violenti e selvaggi per natura, incapaci di badare a loro stessi fino al punto di non essere in grado di riconoscere l’umanità dell’accoglienza loro riservata nei CIE; oppure, seconda opzione, ciò che viene loro riservato nei CIE da queste organizzazioni, forse non è proprio così definibile come accoglienza e i migranti lì rinchiusi non sono proprio considerati e trattati alla stregua di ospiti. In altre parole, non sarà forse che quella che si vuole far passare per accoglienza e intervento umanitario non è altro che una mascherata forma di carcerazione e di privazione della libertà, e che quelli che si vogliono far passare come ospiti turbolenti non sono altro che detenuti ingiustamente reclusi?
Si sa che sulle parole si possono esercitare manipolazione e violenza, al fine di far assumere a queste parole un significato opposto a quello che realmente voliono dire. E spesso questa violenza riflette in qualche modo quella esercitata sulle persone.
ACCOGLIENZA O CARCERAZIONE?
In alcuni CIE il personale di queste organizzazioni gestisce le chiavi delle gabbie in cui i migranti sono rinchiusi, cioè materialmente quelle gabbie le apre e le chiude ogni giorno. In altri CIE le chiavi sono invece in mano solo ai poliziotti. Queste organizzazioni si dovrebbero occupare di tanti progetti in ambito sociale, ma certamente non di tenere in condizioni di carcerazione le persone, né direttamente né indirettamente.
Anche se le persone che lavorano nei CIE per conto di queste organizzazioni non tengono materialmente in mano le chiavi delle gabbie, anche se non partecipano direttamente ai pestaggi (ma chiudono gli occhi quando questi avvengono), anche se non ridono quando i reclusi, disperati, si mutilano e urlano di dolore, anche se non compiono abusi sessuali contro le detenute o non sono negligenti di fronte ai malori, anche gravi, dei prigionieri, anche se tanti ragazzi non fossero morti nei CIE, sotto i loro occhi indifferenti, e anche se immaginassimo per un attimo che tutte queste cose non fossero mai accadute, essi assolvono comunque alla funzione, diretta o complice, di carcerieri.
L’imparzialità e l’equidistanza di queste organizzazioni tra lo Stato e i reclusi, quando non le millantate solidarietà ed empatia verso i migranti, sono sempre tutte sbilanciate verso la fedeltà alle leggi dello Stato che rinchiude i migranti. Essere equidistanti e imparziali, quando non solidali ed empatici, a rigore di logica, vorrebbe dire valutare, tra le tante, la possibilità di disobbedire alle leggi, di violarle, e quindi di aprire le gabbie.
Perché non considerare allora gli appelli alla disobbedienza rivolti agli operatori sociali per far cessare la loro oggettiva complicità con il sistema dei CIE? E come considerare le loro risposte a questi appelli?
È evidente che quando questi operatori si riempiono la bocca di equidistanza, imparzialità o fedeltà alle proprie organizzazioni, non fanno riferimento che a vuoti artifici retorici. Il dipendente di queste organizzazioni che volesse accogliere questi inviti, dovrebbe ovviamente partire dal pretendere che l’organizzazione per la quale lavora esca dalla gestione dei Centri. Questo discorso deve valere per la Croce Rossa, come per gli operatori delle Misericordie e delle cooperative sociali.
Alla luce del ragionamento proposto e fin qui sviluppato, se davvero le nuove leggi sull’immigrazione sono realmente leggi razziste e i CIE sono veramente paragonabili ai lager e ai campi storici, non ci possono essere più equivoci, né scuse: volerli gestire è cosa infame, e va detto forte. E i primi a dirlo devono essere gli operatori del sociale, trasformando il loro non essere d’accordo con il fatto che l’ente per cui lavorano gestisca (e/o si proponga di gestire) questi posti aberranti, in atti di disobbedienza efficace e concreta. Di fronte a un campo di internamento la non-collaborazione è il minimo e bisogna saperla pretendere da sé e dai propri colleghi, fuoriuscendo dal ricatto della sicurezza del proprio posto di lavoro e da tutte quelle logiche, prettamente aziendalistiche, che producono questo tipo di pensieri. Gli operatori sociali devono sapere che – se le leggi sull’immigrazione sono davvero leggi razziali – a nulla servono la delega, le petizioni e i cortei, se poi lo Stato applica queste leggi con il lavoro delle loro mani.
O si sceglie la non-collaborazione, e poi l’opposizione attiva, pratica e determinata, o si finisce in un ginepraio fatto di dichiarazioni roboanti e compromessi, di bei principi e pratiche collaborazioniste, di discorsi forbiti e di equivoci interessati. Un ginepraio nel quale ogni tensione etica svanisce e con essa anche il senso stesso delle parole e del nostro essere uomini.
Alcuni nemici delle espulsioni