Ripreso da Macerie
È stata approvata da alcuni giorni la legge che riduce notevolmente il tempo massimo di reclusione all’interno dei Cie. Dai 18 mesi, che nel 2011 avevano innalzato la precedente soglia di sei mesi, si è ora tornati a un massimo di 90 giorni di reclusione. Un cambiamento che si verifica in un momento particolare nella storia dei Cie, e con soli 5 Centri aperti sugli 11 esistenti. Non è certo azzardato pensare che le autorità cerchino in questo modo di raffreddare un po’ gli animi dei reclusi per evitare nuovi incendi e rivolte.
Questo cambiamento legislativo nasce da una recente iniziativa dei senatori Manconi e Lo Giudice, membri della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato che per tutto il 2013 e per i primi mesi del 2014 si è occupata di Cie, pubblicando nel luglio scorso anche un ampio “Rapporto sui Centri di Identificazione ed Espulsione”. Sulla base di una disamina delle normative vigenti e di una serie di visite nei vari Centri, la Commissione avanza delle proposte al governo attraverso una Risoluzione approvata nel marzo scorso.
Espletate le denunce di rito sulle carenze strutturali e nella gestione dei Cie, sui casi più eclatanti di reclusi che vivono da anni in Italia, Manconi & Co. ribadiscono che, dati alla mano, se il trattenimento dei senza documenti dovrebbe essere una misura eccezionale finalizzata esclusivamente al rimpatrio, i Cie non funzionano granché. La reclusione è infatti molto lunga e assicura solamente l’identificazione ed espulsione di una piccola parte degli immigrati rinchiusi. Di nessun aiuto sono stati da questo punto di vista i 18 mesi. Le statistiche mostrano infatti che ai reclusi o vien dato nome, cognome e nazionalità entro un breve periodo di tempo, o questi sono destinati a rimanere dei Signor nessuno. Per la Commissione i 18 mesi non ha quindi fatto altro che rendere ancor più esasperante la reclusione e numerose le rivolte. Di qui la loro proposta di riportare a 60 giorni il tempo massimo di reclusione in un Cie.
Se puntar tutto sul tempo non è servito a molto, il suggerimento che arriva dai commissari dei diritti umani è quello di concentrarsi maggiormente sullo spazio. Data l’importanza del personale delle rappresentanze diplomatiche per i riconoscimenti e la loro scarsa disponibilità a percorrere centinaia di chilometri per farlo, il modo migliore per garantire identificazioni rapide e certe è far sì che i Cie si trovino il più vicino possibile a ambasciate e consolati. Non come quello di Gradisca, ad esempio, che non avendo sedi diplomatiche vicine era caratterizzato da tempi di reclusione molto superiori alla media.
Oltre a questa soluzione geografica, la Commissione propone di coinvolgere il Ministero degli Affari Esteri affinché realizzi «protocolli di collaborazione con le autorità diplomatiche» così da velocizzare «la procedura di identificazione in carcere e nei Cie ed evitare la prassi diffusa di identificazioni sommarie e superficiali da parte delle autorità consolari». Una volta tolta la scusa della lontananza, serviranno insomma anche una serie d’accordi formali, nero su bianco, che non consentano ai paesi d’origine degli immigrati senza documenti di far finta di niente.
Ma se la ricetta per ridurre ulteriormente i tempi di reclusione è quella di facilitare le espulsioni, gli ingredienti consigliati non finiscono qui. Laddove anche le autorità diplomatiche dovessero fallire e non riuscire nel loro lavoro, non resta che favorire la collaborazione diretta del recluso. L’incentivo pensato per spingere chi è senza documenti a rivelare la propria identità, e farsi deportare, è quella di cancellare automaticamente il divieto di reingresso per chi collabora alla propria identificazione. Oggi infatti chi viene espulso non può rientrare infatti in Italia per un periodo variabile dai 3 ai 5 anni.
«Se ci dai una mano a espellerti, in cambio noi ti consentiamo di riprovare un’altra volta a tornare in Italia, e chissà, magari domani sarai più fortunato», queste potrebbero essere grosso modo le parole con cui gli operatori di un Cie o le forze dell’ordine dovrebbero tentare di convincere il recluso di turno a collaborare. Per i paladini dei diritti umani chi è recluso in un Cie dovrebbe insomma affrontare la vita come se fosse un grande Gioco dell’oca in cui quando si torna al “Via” non è certo il caso di fare drammi, ma solo sperare che il prossimo lancio di dadi sia un po’ più fortunato. Una visione a dir poco sadica, specie se si pensa a quello che può comportare, in questi casi, riprendere i dadi in mano.
Sadismo a parte, tolte le denunce di rito ciò che emerge dal lavoro di questa Commissione è che per tutelare i reclusi è necessario razionalizzare il sistema Cie. Per evitare che la reclusione risulti troppo afflittiva e degradante non resta che oliare e rendere più efficiente la macchina delle espulsioni. Una Risoluzione non molto in linea con quella elaborata dai tutelati, che con incendi, rivolte ed evasioni si ostinano invece a promuovere la libertà e la distruzione dei Centri.