Riceviamo e pubblichiamo. Per contributi, potete scriverci ad hurriya[at]autistici.org
“Immaginate di essere messi in un luogo dove è proibito muoversi liberamente, dove vi vengono tolti tutti i vostri effetti personali. Tutto vi sarebbe imposto: quando poter essere visitati da un medico, quando e cosa mangiare, con chi condividere la stanza, quando andare a dormire. E sareste sorvegliati costantemente, potendo uscire solo durante il giorno e in momenti specifici. Sempre con l’obbligo di chiedere il permesso. Senza avere la possibilità legale di garantirvi da voi stessi la sussistenza, potendo contare solo sui pochi euro che vi vengono concessi giornalmente, o provando a guadagnare qualcosa in un modo che è sempre considerato illegale. Aggiungendo a tutto questo la costante minaccia di essere espulsi in un paese in cui non si vuole vivere e dove potreste trovarvi in pericolo ”.
Estratto di un volantino distribuito il 12 Dicembre 2015 a Berna in occasione dell’occupazione dell’ex Ospedale Ziegler, struttura che dovrebbe diventare un Cara.
Le parole che seguono vogliono essere un tentativo, pur sempre limitato e superficiale, di chiarimento rispetto al grande mondo dell’Accoglienza in Italia. Quando parliamo di accoglienza ci riferiamo a tutto quell’ambiente che si occupa della ricezione, gestione, collocazione e inserimento di una fetta del flusso migratorio, cioè di una percentuale molto piccola, su un totale di individui che si trovano nel limbo della regolarità provvisoria, in quanto in attesa della risposta delle Commissioni Territoriali o perché godono di una qualche protezione temporanea. Parliamo, quindi, più in generale, della cosiddetta “Accoglienza secondaria”, promossa dalle istituzioni, gestita da cooperative, enti e associazioni e per ultimo, parodiata da alcuni ambienti militanti.
Che cos’è l’Accoglienza e quali sono i suoi scopi reali?
La necessità di scrivere queste quattro righe, nasce da una mancanza in Italia, almeno in alcune realtà, di un’analisi generale di tutto il sistema di gestione e controllo dei flussi migratori. Da una parte le analisi si aprono ad ampie considerazioni sulle frontiere, dall’altra i percorsi di lotta restano sempre ancorati al sistema d’identificazione ed espulsione: la lotta contro i Cie, eticamente più semplici da delimitare e criticare. Con questo scritto, non si ha certo l’intenzione di dare una risposta a tale vuoto, bensì proporre una riflessione.
Il volto umano del controllo statale.
“Questo non è mica un Cie! Qui li si aiuta davvero!”. Tante volte ci sarà capitato di incontrare persone, anche amici e amiche, che ci parlano ingenuamente del loro lavoro svolto negli Sprar o peggio ancora nei Cara, dei loro corsi d’italiano per immigrati, dell’avvio alla formazione, degli escamotage e del loro costante impegno a dar loro una mano e ad integrarli. Giustificazioni abbastanza banali che vengono ripetute innumerevoli volte, sempre la stessa noiosa litania: “meglio io, a lavorare qui dentro, che qualcun altro” oppure peggio ancora “è dall’interno che si possono cambiare realmente le cose”. Affrontando, se pur superficialmente, il mondo dell’accoglienza istituzionale, e in parte criticando il suo omologo scimmiottato dagli ambienti militanti, ci si rende conto che, nonostante i proclami di molti, tali percorsi non hanno niente a che fare con autonomia e solidarietà, o perlomeno con l’idea che alcuni hanno di questi due concetti.
Prima di arrivare al nucleo del discorso sarebbe opportuno capire di cosa parliamo quando nominiamo il sistema dell’Accoglienza con la A maiuscola, il mondo dello Sprar, dei Cas e dei Cara, l’accoglienza istituzionale e associativa insomma.
La cosiddetta “seconda Accoglienza” che riguarda oggi in Italia un numero che si aggira intorno agli 81.500 posti, si suddivide in diverse modalità di gestione degli immigrati richiedenti asilo e beneficiari di protezione. Questi approcci gestionali sono, come detto, i Cara, lo Sprar e i Cas. Nel 2015 (1) circa 99.000 persone sono transitate dalle strutture di “accoglienza”, 72% nei Cas, 21% nello Sprar, 7% nei Cara.
I Cara, Centri per richiedenti asilo, sono stati istituiti nel 2002 sotto il nome di Cdi, Centri d’identificazione, aventi un carattere detentivo, e si sono trasformati poi in Centri aperti, tramite una modifica apportata da un D.lgs. del 2008. Il tempo di permanenza all’interno dei Cara dovrebbe essere di un massimo di 35 giorni, il tempo necessario per la trattazione della domanda o l’ottenimento di un permesso temporaneo. La realtà è molto diversa: attese con tempi molto più lunghi, che spesso arrivano anche a supaerare l’anno intero. I Cara presenti sul territorio italiano, da Nord a Sud, sono 13 e alcune di queste strutture (Bari e Bologna) sono state decretate Hub, cioè luoghi di smistamento dei richiedenti asilo verso altre destinazioni, veri e propri sistemi di logistica che spostano persone. Molti di questi edifici sono di dimensioni pachidermiche, si pensi, ad esempio, che il Cara di Mineo con una capienza nominale di 1800 posti è arrivato a ospitare 3000 persone, una vera e propria cittadella. I Cara, in cui vige la dipendenza totale nei confronti dell’ente gestore e il rientro notturno, sono gestiti, in pratica, dalle stesse Coop, aziende e associazioni che fanno soldi con la gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione come ad esempio Auxilium, le Misericordie, Gepsa, Acuarinto o Connecting people. La presenza di militari, forze di polizia e delle unità per rilievi dattiloscopici, unita alle pessime condizioni generali, fa di queste strutture luoghi repressivi e conflittuali. Sommosse, proteste e rivolte sono continue e rappresentano la quotidianità dei Centri.
I Cas, Centri d’accoglienza straordinaria, sono l’equivalente emergenziale di Sprar e Cara. All’interno di queste strutture gravitano soprattutto i richiedenti asilo. Questi Centri, che siano di piccole o grandi dimensioni, sono sulla carta sistemazioni prettamente temporanee, la cui provvisorietà è legata ad una situazione d’emergenza. L’emergenzialità permette facilitazioni enormi per quanto riguarda l’iter d’aggiudicazione dell’appalto e, più in generale, garantisce un sistema molto più snello per la gestione degli immigrati e il controllo interno. Fino ad oggi, ad esempio, non è mai esistita una mappatura nazionale di tutte queste strutture. Gli enti che si assicurano il business, orbitando intorno ai Cas, sono i più svariati e vanno dall’Amministrazione Comunale, agli imprenditori locali fino chiaramente alle realtà del Terzo settore.
Sprar è un acronimo che sta per Sistema per Richiedenti asilo e Rifugiati ed è conosciuto anche con il termine di “Accoglienza diffusa”, secondo molti, il fiore all’occhiello della gestione degli immigrati in Italia. Esso nasce nel 2002 a seguito di un protocollo d’intesa del 2001, stipulato tra Ministero dell’Interno, ANCI e UNHCR. Lo possiamo definire come un approccio diramato di gestione degli immigrati, composto da una rete di strutture sparse per il territorio, consistenti in appartamenti di poche persone fino a strutture di medie e grandi dimensioni (più di 30 soggetti). Il Ministero degli Interni, disponendo del denaro del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (FNPSA) (2), ogni tre anni emana un bando a cui partecipano gli enti locali insieme alle specifiche associazioni e le Coop, ognuna con un proprio progetto che se giudicato idoneo sarà finanziato.
Negli Sprar vengono “accolti” differenti profili di soggetti, tutti però rigorosamente dichiarati nullatenenti. Benché agli albori il progetto nacque unicamente per i beneficiari di protezione internazionale, in seguito dovette necessariamente allargare le proprie maglie a causa dello straripamento numerico del sistema Cara\Cda. Oggi negli Sprar viene inserita la persona immigrata che precedentemente ha fatto una richiesta d’asilo e proviene da un Cara o Cas, oppure ci finisce colui che è già beneficiario di una qualche protezione o ancora i cosiddetti soggetti vulnerabili (nel 2015 il 6% del totale) (3), come ad esempio, i soggetti immigrati sfruttati dalle maglie della prostituzione, minori, anziani, disabili.
Chi entra all’interno di questo circuito accede ad una serie di servizi offerti dal Centro e da chi lo gestisce, in primis il vitto e l’alloggio per poi passare, attraverso step successivi, a corsi d’italiano, corsi di formazione, inserimento scolastico, assistenza legale e il tanto atteso inserimento lavorativo. All’interno dello Sprar si sta per un periodo di tempo limitato, in teoria fino ad avvenuta integrazione e in ogni caso per un massimo di 6 mesi, prorogabili per altri 6 a seconda delle necessità del caso. Una volta usciti da tali strutture di fatto si va in strada, finisce l’aiuto e il più delle volte si ritorna a cercare di passare la frontiera, ad ingrossare i gruppi delle jungle di Calais o del Nord- Est italiano. Sulla carta, come detto, lo scopo di tali strutture è quello d’integrare l’immigrato all’interno della società italiana attraverso i servizi offerti, servendosi, in teoria, anche di aiuti economici per la futura collocazione abitativa o per percorsi professionali. Il modo attraverso il quale il progetto dovrebbe svilupparsi è quello dell’autonomia del beneficiario, dell’empowerment individuale, termini ripetuti in modo ridondante nei vari documenti ufficiali del progetto. Detto ciò, quanto il percorso d’integrazione proposto dall’accoglienza diffusa vada a buon fine e quanto si giudichi “sensato” o positivo integrarsi nella società europea, ha un’importanza relativa rispetto alla critica più profonda di tutto il sistema Sprar.
I dati, raccolti nel 2015, del Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, che riguardano i soggetti accolti nei progetti Sprar, riportano che il 57% è composto da soggetti richiedenti protezione internazionale, il 16% da immigrati già titolari di protezione umanitaria, il 14% da soggetti con protezione sussidiaria e infine il 13% da persone con lo status di rifugiato. Quindi lo Sprar è fondamentalmente un sistema basato sui richiedenti una qualche protezione, così come il Cara e il Cas, persone che al momento del diniego della domanda da parte della Commissione, diventeranno di nuovo irregolari. Considerando che il sistema Sprar accoglie il 21% degli immigrati rientranti nei cosiddetti “sistemi d’accoglienza” (su un totale di 99.096 persone nel 2015 divise tra Cas, Cara e Cie)(4) e considerando che sul totale di domande di protezione in Italia, presentate nel 2015, meno del 50% è stata accettata (5), i sospetti si fanno avanti da soli. Benché manchino i dati sugli ospiti degli Sprar, di Cara e Cas che poi di fatto ottengono una protezione, dando uno sguardo alla percentuale dei dinieghi generali, si chiarisce forse uno dei ruoli chiave di queste strutture. A cosa serve, infatti, un percorso d’integrazione, di formazione, d’inserimento se la metà delle persone che dovrebbero essere “guidate all’interno della società italiana” rientra poi, diciamo così dalla finestra, nella condizione d’irregolarità?
La realtà dei fatti, quindi, dati alla mano, ci presenta un mondo molto diverso da quello dipinto dalle prassi sociologiche dei manuali o dalle storielle commoventi d’integrazione.
Lo Sprar, i Cas e i Cara sono una efficace e potente macchina per far soldi. Ogni giorno di “accoglienza”, così come succede nei Cie, è monetizzato nelle tasche degli enti gestori in una somma che va dai 30 ai 45 euro per ognuno degli ospitati. L’affare è chiaramente imponente e permette la creazione di un arcipelago di numerose e svariate cooperative e associazioni, alcune delle quali sono le stesse che gestiscono i Cie. Per quanto attiene, invece, alla collocazione fisica del progetto stesso, rispetto a Sprar e Cas, emergenziale o no che sia, si attivano una serie d’interessi economici specifici. I privati che affittano le proprie proprietà per la sistemazione degli “ospitati” sono soprattutto albergatori (guadagnano di più con gli immigrati che con i turisti) e palazzinari locali (l’esempio di Molino, il ras delle soffitte a Torino, è esemplare).
Senza cadere nella trappola dello “scandaloso magna-magna generale”, proviamo ad essere chiari sul definire il ruolo della “Accoglienza secondaria”, collocandola in un quadro più ampio. Il Sistema Sprar, Cas e Cara rientra, a pieno titolo, nei meccanismi di gestione, controllo e identificazione della popolazione immigrata ed emigrante. In parte lo scopo di tale sistema è quello di tenere sotto controllo una fetta del flusso migratorio in concordanza con prefetture, questure e sistemi di schedatura europea. Il sistema dell’Accoglienza secondaria è quindi funzionale alla filiera in cui viene triturata una parte del flusso migratorio, un sistema a cui appartengono, in modo speculare, anche i Cie, dedicati agli immigrati non integrabili. I lager per immigrati esistono, perché esiste l’accoglienza secondaria; esistono gli irregolari, perché esistono i richiedenti asilo o i rifugiati; esiste chi è incluso, includibile e chi non è assolutamente integrabile, gli indesiderabili. I due sistemi si reggono a vicenda: la critica e l’abbattimento dei Cie non può escludere la caduta di tutto il sistema dell’Accoglienza, abbrutente o meno che sia.
La categorizzazione in differenti status, che sia la figura del rifugiato, della vittima di tratta, dell’immigrato economico o infine del clandestino-irregolare è il prodotto della stessa aberrante strategia di razionalizzazione di tutto il flusso emigrante. Processo basato sulla necessità di identificare, di creare categorie facilmente controllabili che includono ed escludono allo stesso tempo.
L’idea fondante tutto il sistema dell’Accoglienza è quella quindi del controllo di una parte del flusso. Tale sistema si regge sull’idea, di memoria colonialista, che gli immigrati non possano auto-determinarsi e che nel momento in cui si organizzano da soli rappresentano, come minimo, un problema. Le istituzioni e il terzo settore devono provvedere a gestirli, organizzarli, inserirli in strutture, quindi contenerli perché è “loro diritto”, perché devono essere assistiti legalmente, vestiti, informati, tradotti, preparati, formati, plasmati. Una corsa rapida all’integrazione insomma.
Il Sistema dell’accoglienza secondaria è perciò un sistema infantilizzante e che rende dipendenti a 360 gradi i cosiddetti ospiti. Benché le parole chiave dei manuali per gli operatori non facciano altro che propugnare l’idea dell’autonomia, la situazione è estremamente differente. Come si può parlare di autonomia per un sistema in cui anche cucinare da sé, pulire la propria stanza o farsi un caffè è solo un eccezione o come si può parlare di iniziativa individuale se ogni immigrato deve giustificare allontanamenti e ritardi sugli orari di rientro? In questi percorsi la verità è che non si è di fatto liberi; il rientro notturno ad esempio, diverso a seconda dei progetti, fa di questi luoghi delle vere e
proprie strutture semi-detentive (inoltre, se ci si allontana dalla struttura, dopo 8 mesi dall’allontanamento si perde anche la protezione di cui si beneficiava e si diventa ancora una volta irregolari, clandestini). I regolamenti interni, pur variando da progetto a progetto, presentano caratteristiche piuttosto omogenee. Chi non rispetta le regole del Centro, ad esempio, a seguito della decisione degli operatori, del Servizio Centrale e del prefetto, perde la possibilità dell’accoglienza e viene mandato di nuovo inesorabilmente in strada.
Che cosa provoca la revoca dell’Accoglienza? I casi in cui si decreta la perdita dell’ospitalità sono la violazione delle regole del Centro, l’allontanamento senza preavviso, la possibilità di autonomia economica e infine il comportamento violento contro cose e persone. Se mi ribello alla mia condizione, se protesto per le lungaggini burocratiche, occupo l’autostrada perderò l’accoglienza? Probabilmente sì e, come già successo, verrò anche espulso; un passaggio diretto dall’inserimento alla deportazione.
Il lavoro degli immigrati.
Per capire più precisamente il ruolo di questi luoghi è interessante considerare ciò che succede fisicamente intorno a queste strutture. Gli immigrati a causa della loro condizione di precarietà e a causa del loro status (considerando che chi, tra loro, fa una richiesta di protezione non può cercare lavoro per i primi due mesi d’avvio dell’iter della domanda e di fatto trovando un lavoro regolare perde la possibilità di essere ospitato) entrano a far parte di tutto il sistema di sfruttamento del lavoro che si crea nei territori dell’Accoglienza. Bisogna chiedersi: chi lavora nei campi di pomodori, di carciofi, nei cantieri, nell’istallazione dei pannelli fotovoltaici dalle campagne di Nardò fino a quelle di Settimo torinese? La risposta è che tra i lavoratori sfruttati una buona fetta è composta da coloro che, richiedenti o beneficiari, vive in queste strutture, negli Sprar, nei Cas e nei Cara. Basta fare un giro a Restinco (Brindisi), località che ospita Cie e Cara, e lanciare uno sguardo nelle campagne adiacenti per capire chi sono i braccianti nelle raccolte, stesso discorso per il Cara di Bari o qualunque altra situazione simile. Questi luoghi, senza che nessuno lo nasconda, sono, per gli imprenditori locali, un vero e proprio bacino di manodopera in nero a basso costo.
Non solo. Una circolare del dicembre 2014 ad opera del Ministro Alfano suggerì alle Amministrazioni comunali d’Italia di utilizzare i beneficiari e richiedenti protezioni, quindi gli ospiti degli Sprar, Cas e dei Cara, per una serie di mansioni cittadine. Si iniziò a parlare dell’utilizzo degli immigrati nei lavori “sporchi”, lavori non qualificati, incarichi faticosi e sottopagati, che in molti connazionali rifiutano di eseguire. I lavori di manutenzione urbana, la pulizia degli spazi verdi, la ristrutturazione degli edifici, impieghi svariati nei grandi eventi, il lavoro di parcheggiatori; rivitalizzare in senso economico un esercito di uomini e donne inattivi, in un perenne far nulla, un condizione d’attesa su cui è d’obbligo investire.
Un tale investimento, benché ancora agli albori, è estremamente conveniente, così come è tutto il business (mascherato da inserimento) strutturato intorno alla popolazione carceraria. In questo caso però, se per il lavoro dei carcerati vi è un salario ridotto, per gli “ospiti” dell’Accoglienza si parla, invece, di un impiego a costo zero; quest’idea è motivata dall’assunto scellerato secondo cui queste persone “dovrebbero ridarci indietro quello che spendiamo per loro ogni giorno”. L’iter di cui parliamo, in sordina, è presto diventato realtà e tante amministrazioni comunali, piccole e grandi, hanno immediatamente avviato meccanismi di questo tipo sotto la forma di “progetto integrativo”. Gli esempi sono davvero svariati: Bari, Campobasso, Firenze, Sondrio, Livorno, Vittorio Veneto, Modena, Cesena, Brescia e tanti, tanti altri ancora. È palese ciò che si nasconde dietro a tale dinamica: “aiutare la comunità” – leggasi “uno sperimentale sfruttamento a costo zero della manodopera immigrata”. Si possono solo immaginare le minacce velate e non, le prese in giro che vengono raccontate a tutti quelli a cui viene proposto di partecipare a tali progetti: “spala merda (per il Comune) e vedrai che le porte del successo ti si spalancheranno!”.
È necessario riflettere su ciò che è realmente l’Accoglienza.
La domanda che ci si deve porre, o perlomeno che un nemico delle frontiere si dovrebbe porre, è la seguente: in che misura il sistema dell’accoglienza secondaria, di cui tanto si parla, è correlato con la gestione istituzionale del flusso migratorio? Lottare contro i Cie, i lager per immigrati senza documenti è eticamente, diciamo così, più semplice da individuare, ma, alla luce di quanto affermato sopra, cosa pensare invece del loro volto buono, del mondo dell’integrazione, un mondo simmetrico alle reclusioni e alle deportazioni?
È evidente che c’è una differenza enorme tra un Cie e il sistema Sprar, così come tra un Cara e lo Sprar. Lavorare in un Cie, ti identifica immediatamente come un aguzzino, un collaborazionista, nel Cara e nei Cas prosegue il lavoro d’identificazione con il prelievo di impronte, nello Sprar questo non avviene. Bisogna tuttavia fare delle precisazioni, capirne il reale funzionamento e cercare di collocarne il ruolo in un sistema più ampio. Per iniziare bisognerebbe, una volta comprese le dinamiche, tralasciare tutto il discorso sulla questione soldi, business, legalità\illegalità che tanto ha limitato le critiche a questi luoghi, soprattutto con lo scandalo “Mafia Capitale”. Andare insomma oltre le banalità delle inchieste di alcuni magistrati. Ciò che ci dovrebbe interessare è ben altro e i punti da discutere non mancano.
Tutto ciò che è stato raccontato fino ad adesso è solo un punto di partenza rispetto alla necessità di un’opposizione all’Accoglienza di Stato; poche righe per chiarire di cosa stiamo parlando, augurandosi che si trovi il modo migliore per demolirne il suo vero volto.
Per concludere.
Ma quando si dice che bisogna opporsi all’Accoglienza di Stato, obietteranno in molti, qual è l’alternativa che si propone a chi scappa da guerre, fame e carestie? Forse in modo troppo semplicistico, si risponderà che quello che si propone unicamente e banalmente è l’abbattimento dello Stato e delle sue frontiere. Vediamo però le cose con calma.
L’idea che gli immigrati debbano essere gestiti, organizzati, che debbano essere inseriti in strutture, contenuti, assistiti legalmente o, come minimo, vestiti e sfamati è l’idea assolutamente deprecabile, come detto sopra, di tutto il sistema d’accoglienza istituzionale. Tutto ciò, però, ha disgraziatamente un suo omologo anche nel movimentismo extra-istituzionale. In modo non tanto diverso dagli status creati dalle istituzioni, anche l’immagine del “migrante”, che tanto piace all’antagonismo nazionale, ridotto a beneficiario di servizi alternativi e richiedente diritti, si costruisce in quanto categoria oppressiva. Tale figura di migrante, in salsa militante, che lotta per l’integrazione, con il cartello al corteo reclamante diritti, è una tipologia che contrasta con l’immigrato che non si vuole integrare, al quale non gliene frega niente di imparare l’italiano, né di chiedere per se stesso diritti e doveri uguali al cittadino europeo. Quello del “migrante”, costruito in tal modo, è solamente uno status ampiamente spendibile in piazza, utilizzabile per le strategie politiche dei più furbi.
La verità, che tutti dovrebbero dire, è che gli immigrati non sono dei minorati e che sanno occuparsi di se stessi senza nessun problema, senza istituzioni, associazioni e militanti tra i piedi. Ricordiamo che il più delle volte la maggior parte dei loro disagi proviene unicamente dalle forze dell’ordine, che li bloccano e molestano, e dalle frontiere dei diversi Paesi che hanno attraversato. Che qualcuno li possa rifocillare se arrivano da giorni e giorni di viaggio, indicare loro una casa da occupare, magari anche occupare insieme a loro se ci sono i presupposti per farlo (cosa che probabilmente presenta più problemi che possibilità) non si può definire riprovevole. Che dei gruppi militanti li debbano gestire o peggio inquadrare e guidare, servendosi del loro status per finalità politiche, questo sì è triste e deprecabile. A volte alcuni, probabilmente, lo fanno con ingenuità, pensando di fare del bene e non rendendosi conto di riprodurre le stesse dinamiche istituzionali in chiave alternativa: privare i singoli delle loro capacità autonome. Altri, invece, ne sono pienamente coscienti. Un immigrato non necessita del nostro aiuto per qualsiasi cosa e non ha bisogno di essere rifornito di servizi, alternativi o istituzionali che siano, neanche di essere ospitato in casa nostra, come dice la Chiesa cattolica. Ciò che bisogna mettere in dubbio è il sistema più ampio che si viene a creare, la sua burocraticizzazione anche nelle strutture di movimento in cui si replicano le stesse tristi dinamiche istituzionali. Così tra preti e militanti, viene accettata senza batter ciglio o peggio ancora voluta di buon grado, la presenza di controlli e forze di polizia, come testimoniato dalle ultime cronache.
Un’opposizione concreta all’Accoglienza istituzionale non può passare attraverso le stesse
dinamiche infatilizzanti e gestionali che alcuni ambienti propongono. Considerando che il
principale problema degli immigrati è attraversare le frontiere, non vi sono dubbi sul dove stare tra un presidio fisso No-Border e l’altrove. L’altrove sono gli scogli? Probabilmente, se è quello il luogo di una possibile conflittualità. L’altrove sono le strade occupate dai richiedenti asilo che protestano? Anche. L’altrove, però, sono anche e soprattutto le strade dove si incontrano le strutture e le persone che stanno facendo in modo che tanta gente muoia nel mare, dove ci sono i responsabili e i loro complici che rinchiudono, identificano, escludono e categorizzano migliaia di persone ogni giorno.
Le certezze davanti a noi sono ben poche. Le risposte sul come e cosa fare mancano, ma, perlomeno, è evidente ed immediato che bisognerebbe opporre al concetto di accoglienza istituzionale e al suo pastrocchio militante quello di Solidarietà. La solidarietà, come sappiamo, può prendere diverse forme, ma mai dovrebbe prescindere dalla radicalità.
Note:
(1) Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Aspetti, procedure, problemi. Gruppo di studio sul sistema di accoglienza. Roma, ottobre 2015
(2) In alcuni casi sono stati anche utilizzati fondi provenienti dalla Protezione civile e dall’8xmille.
(3) Rapporto sulla Protezione internazionale in Italia, pag. 115, aggiornato ai primi 5 mesi del 2015
(4) Pag. 32 Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Aspetti, procedure, problemi, Gruppo di studio sul sistema di accoglienza, Roma, ottobre 2015
(5) Dati http://www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com/art/welfare-e-anagrafe/2015-10-21/migranti-domande-asilo-aumento-sprar-242-milioni-1162-previsti-il-2015-182031.php?uuid=ABlwHiu&refresh_ce=