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Scarica l’opuscolo in formato per la stampa (pdf): frontiere e lavoro
Il sistema della detenzione amministrativa e i tanti dispositivi della cosiddetta “accoglienza secondaria” sono certo funzionali al controllo e alla segregazione degli immigrati che giungono nella fortezza Europa ma, con uno sguardo più complessivo, funzionano anche da grandi bacini di erogazione controllata di forza lavoro sottopagata e iper sfruttata a tutto vantaggio dei grandi produttori.
Infatti, la legislazione sull’immigrazione in Italia, subordinando la possibilità di permanenza sul territorio nazionale al possesso di un contratto di lavoro, offre ai padroni un’enorme disponibilità di manodopera servile come diretta conseguenza della condizione di clandestinità.
Un detenuto in un CIE, un richiedente asilo semi detenuto in un CARA, un minore “affidato” alle strutture del sistema SPRAR, sono accomunati da un’esistenza precaria determinata dal possesso o meno di un foglio di carta. Su questa precarietà si fonda il ricatto del lavoro sottopagato che può raggiungere condizioni di vera e propria schiavitù.
Più macroscopica e visibile è la situazione che si crea attorno ai CARA, dove gli immigrati stazionano per lunghi periodi in attesa di ottenere risposta alle richieste di asilo o protezione, vivendo spesso senza un soldo in tasca e con prospettive molto incerte quanto al loro status giuridico. Ciò li costringe a trovare lavoro nell’economia locale o a spostarsi altrove, sempre in Italia, con occupazioni stagionali. Così si crea un’intensa osmosi fra questi centri semi detentivi e i luoghi del cosiddetto “lavoro nero” dove si sgobba a raccogliere angurie piuttosto che arance o pomodori, per ottenere una paga da fame e, non di rado, abusi e violenze.
Che la narrazione democratica (giornalismo, sindacati, ricerca accademica) rappresenti queste condizioni di estrema oppressione come meri effetti di gestione mafiosa o di illecito, fa parte di un gioco in cui il tema dello scontro fra legalità e illegalità ha una semplice funzione distrattiva.
In realtà, anche un rapido e superficiale sguardo alle cifre gigantesche dello sfruttamento della manodopera immigrata, rivelano che si tratta di una condizione non accidentale ma strutturale dell’economia globalizzata.
Ai margini delle nostre città, nei luoghi dove i ritmi della produzione sono più intensi e disumani, una enorme popolazione immigrata vive in condizioni di ricattabilità talmente estreme da essere assimilabile alla schiavitù. Si tratta di migliaia di persone che, in attesa di ricevere uno straccio di documento che li protegga dalla prospettiva di essere rimpatriati o rinchiusi in un CIE, devono sostentarsi accettando di lavorare in condizioni di estrema privazione e sfruttamento.
Cantieri edili, logistica, agricoltura intensiva sono settori chiave delle economie occidentali che prosperano sfruttando gli immigrati sottoposti al ricatto del permesso di soggiorno. In questo senso gli Stati, con le loro politiche di gestione dei flussi e l’enorme apparato burocratico che gli è correlato, giocano un ruolo primario in un sistema di sfruttamento in cui l’esistenza delle frontiere nazionali produce un esercito di servi che lavora per un mercato transnazionale, quello sì, senza frontiere.
Data la vastità del fenomeno, qui si introdurrà solo la questione della schiavitù nelle grandi monocolture intensive, che pure è un settore vastissimo, nel tentativo di richiamare un poco di attenzione su quella che è una condizione non certo marginale di sfruttamento e segregazione; al contrario, in Italia riguarda centinaia di migliaia di lavoratori stagionali che si muovono da Cuneo a Pachino, da Brescia a Foggia o a Nardò.
Ultimamente, la morte di alcuni braccianti nei campi agricoli ha sollevato il velo su questa realtà facendo sì che studiosi sociali o giornalisti se ne interessassero ma, sebbene alcuni di questi studi abbiano il pregio di aver messo in cifre le dimensioni del comparto, rivelandone la vastità del giro d’affari e la complessità strutturale, l’individuazione del problema si è quasi sempre fermata alla denuncia delle infiltrazioni mafiose o del sistema del caporalato, tralasciando completamente la struttura più generale in cui si inserisce e dimenticando di evidenziare i nomi delle aziende agricole per cui i caporali prestano la loro opera; quelle stesse aziende che vendono i loro prodotti ai grandi marchi che siamo abituati a vedere negli scaffali della grande distribuzione: Zuegg, Cirio, Mutti, Divella…
CAPORALI E PADRONI
In realtà, il sistema del caporalato, che è un dispositivo vecchio quanto la figura del bracciante “affittato” dal latifondista, si presta egregiamente alle esigenze della più moderna agricoltura globalizzata.
Il caporale, infatti, è un intermediario che conosce la zona di produzione, i suoi sistemi economici e sociali, la classe politica e, anche all’ombra di protezioni mafiose, fornisce ai grandi produttori manodopera a bassissimo costo. Per organizzare il lavoro si serve di una serie di altri uomini fidati, che agiscono come capi squadra e vigilanti e, solitamente, sono essi stessi immigrati. Il caporale può riuscire ad azzerare ogni potenziale di conflittualità dei “suoi” lavoratori attraverso semplici e vecchi sistemi di controllo e sopraffazione, primo fra tutti un estremo isolamento che impedisce agli stagionali di relazionarsi con il territorio circostante e di conoscere direttamente l’azienda agricola per cui stanno lavorando. Tuttavia ciò non ha impedito proteste e rivolte: le più conosciute sono quelle di Rosarno in provincia di Reggio Calabria nel 2010 e quella di Nardò, in provincia di Lecce nell’estate successiva, entrambe rifluite nell’alveo del compromesso istituzionale e spente nell’inconcludenza del percorso sindacale di contrasto al caporalato.
Il caporale assolve una funzione di controllo del mercato del lavoro locale regolandone i flussi in entrata e in uscita in relazione alle necessità produttive dei giganti delle grandi produzioni agroalimentari. Ma senza questi giganti il caporale non avrebbe ragione di esistere.
In questo senso la figura arcaica del mediatore, il sensale che recluta i braccianti sulla piazza del paese ha trovato il suo “naturale” adattamento nei sistemi della più moderna produzione agricola capitalista. Sul “modello californiano” di sfruttamento intensivo del suolo, dell’ambiente e della manodopera, sempre più zone d’Europa e del bacino mediterraneo incrementano i rendimenti ingaggiando lavoratori immigrati, tenuti sotto ricatto dalla precarietà indotta dalla condizione legale di clandestinità.
SCHIAVI DELLA TERRA
“La seconda parte del lavoro consiste nel caricare i cassoni di pomodori sapendo che un cassone vuoto pesa circa 70 chili e pieno raggiunge circa 450 chili. (…) La paga di un lavoratore è calcolata a cassone, cioè a cottimo: il caporale paga il lavoratore 3 euro e 50 per ogni cassone. È ovvio che il lavoratore per incrementare il suo guadagno dovrebbe lavorare il più possibile. Il numero medio di cassoni riempiti da un singolo lavoratore è stimato a circa sette, quindi un lavoratore guadagna in media 24,50 euro, a cui bisogna sottrarre i cinque euro di trasporto, i tre euro e cinquanta del panino che il caporale costringe a pagare” (Y. Sagnet, Sulla pelle viva, 2012).
I lavoratori stagionali sono spesso giovani uomini, ma anche donne spesso ingaggiate nelle serre, che si spostano sul territorio nazionale da soli. L’intensa mobilità del loro lavoro non consente di muoversi in compagnia di altri né di allacciare relazioni stabili o minimamente durature sul territorio di lavoro. Ciò, naturalmente, contribuisce all’isolamento e alla segregazione e li rende più vulnerabili ad ulteriori sopraffazioni e abusi.
Si lavora dalle dieci alle dodici ore con qualunque condizione ambientale. Gli alloggi, pagati a caro prezzo anche quelli, sono di solito tende posizionate sotto gli alberi, oppure baracche auto-costruite con lamiere e altri scarti, oppure un semplice materasso messo sul pavimento di qualche stabile abbandonato.
Anche ammalarsi costa caro: oltre a causare la perdita della giornata lavorativa, chi si ammala o si ferisce deve pagare il caporale per farsi comprare le medicine o anche solo per ottenere un passaggio al pronto soccorso.
Alcuni medici volontari hanno allestito tende e ambulatori nei campi, hanno intervistato i lavoratori e hanno registrato condizioni gravissime: profonda prostrazione psicologica, precario stato di salute, disinformazione totale sulle strutture sanitarie presenti sul territorio.
Questi lavoratori sono spesso giovani in buona salute ma nel corso del lavoro si ammalano a causa delle insopportabili condizioni di stanchezza ma anche a causa dell’intossicazione dovuta all’inalazione e al contatto con i fitofarmaci di cui sono cosparsi i prodotti che devono raccogliere. Quando si rivolgono alle strutture sanitarie pubbliche, denunciando stato di agitazione, dolore e senso di “fuoco in tutto il corpo” ottengono risposte palliative, spessissimo somministrazione di antidolorifici e psicofarmaci.
Nell’agosto del 2014 così riferiva un medico di Emergency che prestava assistenza volontaria nel campo di Nardò: “Il sintomo ‘dolore’ è quello che li fa arrivare. Naturalmente, in ordine di frequenza le patologie che vediamo sono: muscolo-scheletriche, stress biomeccanici legati alla tipologia di lavoro; problemi odontoiatrici, carie, ascessi per difficoltà ad avere un’igiene orale quotidiana e regolare; disturbi traumatici o post-traumatici, traumi sul lavoro, incidenti per mezzi di trasporto come la bicicletta senza luci. Girano di notte: da giugno ad ora abbiamo registrato tre traumi stradali notturni”.
POMODORI
Il bracciante immigrato stagionale è la perfetta concretizzazione del sogno capitalista del “lavoratore flessibile”: non solo la prestazione lavorativa ma tutta la sua esistenza è piegata alle esigenze della produzione .
Il costo del lavoro nella grande industria agroalimentare non è determinato dalla produttività né dal potere di contrattazione del lavoratore, al contrario è stabilito dalla condizione giuridica che gli affibbia lo Stato in cui vive, una condizione che elimina qualsiasi possibilità di trattativa salariale. Una manna dal cielo per il grande capitale.
Per funzionare, il mercato globale deve avere delle frontiere mobili, fluide, ma all’occorrenza rigide e impenetrabili.
Così accade che le persone siano respinte o schiavizzate perché clandestine, mentre le merci circolino sempre più liberamente e intensamente, fino a tracciare scenari apparentemente paradossali.
Così succede che dal Ghana un ragazzo arrivi a Foggia per raccogliere quello stesso pomodoro che a casa sua non conviene più coltivare, perché non regge la concorrenza con quello foggiano che, invece, affolla gli scaffali delle botteghe di Accra.
Il tanto decantato “made in Italy”, infatti, va ad imporsi sui mercati centro-africani attraverso accordi bilaterali fra i due paesi, grazie ai quali il prodotto italiano ottiene un forte abbassamento dei dazi doganali sull’importazione. Si può facilmente immaginare che le politiche che regolano questi accordi commerciali non siano certo orientate alla soddisfazione della domanda interna o alla bontà del prodotto importato…
Così in Ghana la coltivazione di ortaggi, che pure era molto florida, non è riuscita a reggere la concorrenza del pomodoro italiano, molto meno costoso di quello autoctono.
In effetti, l’industria italiana di conserva di pomodoro è sovvenzionata dall’unione Europea per il 65% del prezzo di mercato del prodotto finale e, se a ciò si aggiunge il bassissimo costo di produzione per la manodopera, il gioco è fatto e si vince sempre.
La scorsa estate a Nardò sotto il sole a 40 gradi, Mohammed è morto di sfinimento, durante la raccolta. L’imprenditore per cui lavorava, Giuseppe Mariano, è fra gli imputati, insieme ad altri sei, in un processo aperto anni prima in seguito alla morte di un altro lavoratore. Tutti gli imprenditori sono accusati di estorsione e riduzione in schiavitù. Anche questa volta, dopo lo scandalo e il rituale sdegno istituzionale, tutto si è concluso nell’esortazione a denunciare le irregolarità. La moglie di Mohammed è arrivata a Nardò a prendersi la salma del marito e tutto è ritornato al suo posto, per una nuova stagione di “made in Italy”.
Sempre nel leccese si è da poco concluso un processo durato una decina d’anni in cui 89 operai, questa volta salentini, denunciavano soprusi, violenze, minacce e mancata corresponsione dei salari da parte di due imprenditori locali, leader nel settore dei lavori pubblici e nella costruzione di condutture per il gas. Nel processo gli operai, manco a dirlo, hanno avuto la peggio.
In effetti, la giustizia non risiede certo nelle aule di tribunale e neppure nelle sedi sindacali.
Ciò che emerge con sempre più chiarezza è una sconcertante banalità: questo sistema di produzione, con regole diverse e con diversi premi di consolazione, ambisce a farci tutti schiavi.
Se la difesa di una condizione di benessere e privilegio è stata finora la ragione prevalente che ha giustificato la costruzione delle frontiere, ora questa ragione appare per quello che è: una scellerata illusione.
Se la paura di perdere quel poco che si ha, è stata finora la ragione dell’inazione, della condiscendenza verso i padroni e dell’odio razzista verso gli immigrati, ora la constatazione che quel poco è – per tutti – troppo poco e troppo amaro, deve spingere ad abbattere le frontiere materiali e sociali che, costruendo paura e isolamento, immiseriscono le nostre vite in condizioni di degrado umano e ambientale ormai intollerabili.
Per approfondire le questioni sollevate, alcuni riferimenti:
Taliani Simona, Accoglienza mediterranea, Torino World Affair Institute, 2015.
AA.VV., Diritti violati. Indagine sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati nelle aree rurali del sud Italia e sulle violazioni dei loro diritti umani e sociali, Coop soc. Dedalus, 2012.
Osservatorio Placido Rizzotto/ FLAI CGIL, Agromafie e caporalato. Primo rapporto, 2012.
Osservatorio Placido Rizzotto/ FLAI CGIL, Agromafie e caporalato. Secondo rapporto, 2014.
Medici Senza Frontiere, Una stagione all’inferno. Rapporto sulle condizioni degli immigrati impiegati in agricoltura nelle regioni del sud Italia, 2008.
Colloca Carlo, Corrado Alessandra, La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel sud Italia, Milano 2013.
Nigro Gianluca, Perrotta Mimmo, Sacchetto Devi, Sagnet Yvan, Sulla pelle viva. Nardò: lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Derive Approdi, Roma, 2012.
“Dal ghetto di Foggia. Intervista a una donna antropologa presente al campo durante la raccolta dei pomodori”, in Invece. Mensile anarchico, n. 18, nov. 2012.
Febbraio 2016
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