No Border, riflessione su una rete di lotta offensiva

Traduzione da Paris-lutte.info

Bozza di considerazioni sulle lotte contro le frontiere con e in sostegno ai/alle migranti

burn-borders-430x300In molti/e dal 2008 al 2010 ci siamo mobilitati/e contro i centri di detenzione amministrativa, a seguito dell’incendio del centro di Vincennes; eravamo anche in qualche centinaia nel 2009 ad aver preso parte all’organizzazione del campo No Border a Calais, che ha dato vita a Calais Migrant Solidarity, la rete No Border che da allora lotta lì sul posto e ha contribuito all’apertura di un buon numero di occupazioni.

Nei tre anni successivi, dei campi No Border di azione contro le frontiere sono nati in Germania, nei Paesi Bassi, in Svezia, in Bulgaria, in Serbia, in Grecia. In Polonia, degli amici e delle amiche si sono organizzate partendo dal collettivo Frontexeplode e ogni anno preparano giornate d’azione contro la sede di Frontex a Varsavia. Allo stesso tempo, in Belgio e in Inghilterra, azioni ripetute da decine di persone hanno bloccato i centri di detenzione. Inoltre è stata creata una rete europea per resistere in modo unitario contro i voli delle deportazioni.

Da qualche tempo si leggono appelli all’aiuto quotidiano, a fornire coperte, cibo, a occupare piazze ed edifici con i/le migranti, a fare barricate e a rispondere con delle manifestazioni agli sgomberi di Calais, alle brutalità a Parigi, in Ungheria, in Turchia…

Mi chiedo: non è che tu, io, gli altri e le altre, abbiamo abbandonato il piano dell’attacco per ripiegare su un terreno umanitario, palliativo, in una reazione quotidiana all’emergenza, e con un’attitudine principalmente difensiva? 

Ogni giorno è sempre peggio: i/le migranti sono in condizioni sempre più disperate, ridotti alla miseria più profonda e di fronte alla violenza sempre più intensa e costante. Durante lo sgombero di 600 persone dalla jungle di Calais nel 2009, pensavamo di aver raggiunto il picco di violenza e miseria. Pochi anni dopo, abbiamo constatato che il peggio è sempre possibile, e che esso si è anche notevolmente esteso in Europa. Nuovi posti di blocco e campi di (s)fortuna sono comparsi alle frontiere ungheresi, italiane, e presto belghe, là dove è stato steso il filo spinato e sono state erette porte fortificate da sensori e poliziotti.

Frontex (1), che un tempo si vantava di respingere gli annegati alle frontiere d’Europa, di aver ridotto da 2000 a 200 le morti nel Mediterraneo, anche se non faceva altro che far aumentare il loro numero nei deserti africani o sulle spiagge di Evros in Turchia, ora annaspa in mezzo a un mare di cadaveri siriani e iracheni.

A questo si aggiunge un aumento degli attacchi razzisti, xenofobi e fascisti contro i/le migranti, in tutta Europa, incoraggiati e amplificati dai discorsi securitari dei politici e degli stati. Le responsabilità sono invertite dappertutto: i migranti sono degli stupratori, dei potenziali jihadisti, dei ladri di posti di lavoro, dei facinorosi, dei miserabili che vogliono impoverire l’Europa. Insomma, sono tutto fuorché le vittime di un liberalismo aggressivo, di due decenni di guerre in Oriente e in Africa e di un percorso di migrazioni disseminato di umiliazioni, perdite, sofferenze e brutalità. 

Non c’è alcun corridoio umanitario alla fine del quale l’Europa accoglie calorosamente “i rifugiati”: c’è solo un lungo tunnel buio che porta a una fogna, una disumanizzazione continua dove l’umanitario è solo la misera stampella di un percorso interminabile. La fine del calvario è condizionata da un patto di perdita culturale e de-individualizzazione che un/a migrante accetta di firmare con un paese: “se tu non chiedi asilo, non avrai un tetto e se non vuoi un tetto devi accettare di salire su un autobus, di essere portato in un luogo in cui le regole dell’integrazione sono state scritte per te, dove dovrai piegarti al futuro che hanno scelto per te, lontano dalle persone a te care, lontano da ciò che sei stato e hai vissuto prima”. Per un/a che fa o può fare questa scelta, ce ne sono 100 che vanno da un marciapiede a un ponte, da un ponte a una baraccopoli, da una baraccopoli alla prigione, e dalla città alla campagna, sballottati da un sistema volto principalmente ad impedire che quella insoddisfazione possa mettere radici, diffondersi e organizzarsi. 

Ogni volta che i/le migranti si organizzano socialmente, si politicizzano collettivamente, con o senza il contributo di chi li sostiene, arriva la polizia che sgombera, reprime, contrasta e divide. Fino alla sottomissione, alla rinuncia, alla disperazione, alla morte. Che siano occupazioni, jungle o accampamenti di fortuna, essi scompaiono uno dopo l’altro sotto il gas e le botte negli anni. 

fuckDi fronte a tutto ciò, non bisognerebbe ripensare resistenze transfrontaliere, riorganizzare mobilitazioni coordinate e simultanee tanto nelle diverse città francesi quanto in Europa? E non soltanto delle giornate d’azione simbolica come il 1 marzo o manifestazioni come quella del 23 gennaio scorso a Calais, ma intraprendere un attacco continuo e concertato contro i dispositivi di controllo, gli arresti, le deportazioni, l’assimilazione. I/le migranti si autodefiniscono a volte “incendiari di frontiere” e forse servirebbe, come in Ungheria o come accade tra Slovenia e Croazia, che ci si organizzi per bruciarle veramente e tagliarle, attraversarle e abbatterle collettivamente.

“Nessun Confine, Nessuna Nazione” non significa solo che preferiremmo non ci fossero le frontiere: vuol dire che le combattiamo ovunque esse si frappongano, tra noi e i/le migranti, tra i paesi e le città, in un aeroporto, al porto o in un centro di detenzione. No Border sono due decenni di azioni radicali, una quarantina di campi che hanno fisicamente preso d’assalto i confini internazionali e creato gruppi e reti di lotte alle frontiere, in una opposizione quotidiana alle politiche securitarie e xenofobe. 

Forse non è abbastanza essere presenti a Calais, a Ventimiglia, a Parigi o in tutti gli angoli in cui i/le migranti per lo più si bruciano le ali per cercare di passare. Dall’immagine dell’inglese Robert Lawrie, finito sotto processo a gennaio a Boulogne-sur-Mer per aver cercato di far passare un bambino, decine di persone sono state condannate per aver tentato di aprire le frontiere o di far passare migranti; perché, dopo aver lottato per mesi a fianco dei/delle migranti, l’unico modo che sembrava utile per aiutare un amico/a a uscire fuori dalla sua miseria era quello di bruciare la frontiera con lui o lei o diventare passeur per solidarietà, senza compenso. Invece di lasciare isolate queste azioni disperate, non dovremmo noi tutti/e bruciare le frontiere, ospitare chi viene da lontano, accompagnare per un tratto di strada, fino alla porta di amici e amiche che li aspettano un po’ più lontano e così via fino a che raggiungeranno la loro destinazione

Costruire una rete di lotta lungo tutte le strade, da una città, da un paese all’altro. Ripensare la nostra azione in movimento, in viaggio con i migranti, come trafficanti che hanno tessuto una tela che ingloba i/le migranti da un capo all’altro del loro percorso. Non credo che possa esserci autonomia dei migranti finché non avremmo costruito con loro l’emancipazione dalla prima dominazione che subiscono: quella delle reti di passaggio che noi fingiamo per la maggior parte del tempo di ignorare, come se fossero nostri alleati o complici invisibili. Eppure è solo violenza e disumanizzazione. Non è che quando la migrazione si ferma, e la necessità di muoversi rallenta, si riesce ad abbozzare collettivamente un’autonomia con le persone che sono bloccate, volenti o nolenti, nella loro progressione. Dico bene abbozzare perché è in questi momenti che la repressione si esercita con maggior vigore per rompere il legame sociale e dividere geograficamente chi ha tentato di organizzarlo. 

Solo trovandoci all’inizio, durante il viaggio e all’arrivo dei migranti avremmo la possibilità di perseguire realmente la costruzione di una politica comune, perché nonostante le deportazioni, la migrazione, la riconfigurazione giornaliera di gruppi, i migranti saprebbero che sono attesi nella tappa successiva da amiche/i in grado di riallacciare i collegamenti interrotti e di garantire un minimo di continuità con ciò che è venuto prima e quello che seguirà. Quindi ritengo che l’opposizione alle frontiere potrà farsi rete, estendersi e diffondersi tra migranti e solidali in tutta Europa e oltre, quando avremmo raggiunto una parte di autonomia collettiva cessando di essere necessariamente i garanti a livello locale. Da un lato, perché i migranti sarebbero in grado di continuare e costruire opposizione in più punti e dall’altro perché abbiamo bisogno di immaginarci in trasferta, di sfruttare la nostra capacità di muoversi (come si può), pensare ad una militanza in movimento, incontrandoci lungo le rotte migratorie e promuovendo azioni, partecipazione e supporto laddove non ci sono ancora. Con nuovi campi No Border, con l’Infotours, con incontri tra i gruppi, transfrontalieri e regolari con giornate d’azione e con una maggiore mobilità da un posto ad un altro.

Nonostante le forze che troppo spesso ci sembrano esangui o insufficienti, mi sembra essenziale riprendere l’offensiva contro le infrastrutture del controllo, della repressione e delle deportazioni, perché ritengo che solo colpendo il sistema al cuore si possa distruggerlo. È solo ricordandoci ciò che noi e altri siamo stati in grado di fare prima e riacquistando la coscienza della forza collettiva che tu, io e gli altri siamo in grado di mobilitare che abbandoneremo la sensazione di impotenza e frammantazione che ci può assalire quando lottiamo al fianco delle e dei migranti.

No Nation, No Border

Fight law and order !

Freedom of mouvement is everybody’s right,

We are here and we will fight !

(1) L’Agenzia europea per i controlli alle frontiere esterne, aveva un mandato iniziale per la lotta contro l’immigrazione clandestina che gradualmente è stato ampliato al traffico e il terrorismo di recente

 

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