Riceviamo e pubblichiamo questo contributo:
L’accordo con la Turchia non rappresenta una novità della politica dell’unione europea in materia migratoria ma un’inquietante accelerazione di un processo di condizionalità degli aiuti alla cooperazione che l’unione elargisce ai partner dell’altra sponda del mediterraneo in cambio del supporto al controllo dei flussi migratori diretti versi l’europa.
Questo processo di esternalizzazione dei controlli delle frontiere esterne della UE, infatti, è stato avviato oramai anni fa. Senza andare troppo indietro nel tempo, è sufficiente citare il Processo di Rabat del 2006, il Processo di Praga del 2009, la strategia di Dakar del 2011 fino ad arrivare al recente Processo di Khartoum del novembre 2014[1]. Partenariati questi che hanno aperto la strada ad un’interpretazione estensiva delle politiche di cooperazione allo sviluppo: in pratica, in cambio di ingenti finanziamenti da parte dell’unione europea, gli stati partner – principalmente africani, ma il processo abbraccia anche territori molto più vasti dell’area asiatica e pacifica, si pensi all’accordo di Cotonou del 2000 – si impegnano a supportare le politiche migratorie europee, a facilitare il rimpatrio dei propri connazionali etichettati dall’europa come clandestini ma anche di persone provenienti da altri paesi che hanno transitato nel paese africano in cui poi vengono rimpatriati. Gli aiuti elargiti dall’europa sono destinati sia a finanziare processi di sviluppo capitalista all’interno del Paese – nell’ottica di depotenziare i cosiddetti “push factors” ovvero i fattori di natura economica e sociale che spingono le persone ad emigrare verso l’europa – sia a fornire allo stato partner le adeguate conoscenze tecniche, di polizia e di intelligence, nonché i necessari macchinari, per implementare un rigido ed efficace controllo delle frontiere. Questa strategia di esternalizzazione – che evidentemente mira a contrastare a monte le partenze dei migranti – è stata ribadita nell’Agenda Europea sulla Migrazione del maggio 2015[2], documento base della strategia comunitaria in materia di politiche migratorie, i cui quattro pilastri sono rappresentati dalla riduzione degli incentivi alle migrazioni irregolari, da un più rigido controllo delle frontiere esterne, dal rafforzamento della politica di asilo comune e dall’introduzione di meccanismi di ingresso regolare temporaneo per lavoratori stranieri altamente qualificati, detentori ad esempio della famosa “Blue Card”. È stata riconfermata, inoltre, anche dal “Partnership Framework”[3] del giugno 2016, una strategia di azione con la quale la UE mira a stabilire rapporti strategici con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori – a partire da Niger, Nigeria, Senegal, Mali ed Eritrea, i 5 paesi pilota – al fine, nel breve periodo, di contrastare l’immigrazione irregolare e, nel lungo periodo, di utilizzare strumentalmente la cooperazione allo sviluppo per spostare sempre più in là le frontiere esterne dell’unione. Il “Partnership Framework” – la cui implementazione è stata oggetto in questi giorni di un monitoraggio[4] che ha raccolto l’ipocrita entusiasmo dei rappresentati istituzionali della Ue che continuano a presentarlo come una misura essenziale per ridurre il numero dei morti in mare – costituisce, ad oggi, lo strumento principale di esternalizzazione dei controlli alle frontiere e si sostanzia, da un punto di visto finanziario, dello “EU Trust Fund”[5] – un programma di aiuti finanziari mirante a contrastare alla radice i flussi migratori irregolari in partnership con numerosi paesi del continente africano.
D’altronde già all’inizio di quest’anno le intenzioni della Ue in materia di politiche migratorie venivano esplicitate dalla comunicazione della Commissione europea n. 85 del 10 febbraio 2016[6] in cui oltre a monitorare lo stato di avanzamento dell’Agenda europea sulla migrazione si ribadisce il ruolo strategico dei partner africani nel controllo dei flussi migratori.
Questa Comunicazione del febbraio 2016 riveste un’importanza fondamentale per comprendere l’attuale panorama delle politiche migratorie della UE. Infatti, da un lato, vengono esposti una serie di meccanismi di rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne della UE: si ribadisce l’importanza del sistema hotspot, si invitano gli stati sia al raggiungimento del 100% delle identificazioni delle persone appena arrivate sul suolo europeo sia all’introduzione negli ordinamenti giuridici interni della nozione di “Paese terzo sicuro” – che come sappiamo è alla base delle procedure di esternalizzazione dei controlli – e della possibilità dell’uso della forza come strumento di ultima istanza per piegare la resistenza all’identificazione. Sempre in materia di controllo delle frontiere esterne, la Comunicazione menziona la creazione della European Border and Coast Guard, ovvero la Guardia Costiera europea destinata a sostituire gradualmente FRONTEX e a cui è stata riconosciuta la possibilità, in caso di emergenza, di agire direttamente sul territorio degli Stati membri. La European Border and Coast Guard, in effetti, non solo è stata creata ma ha iniziato già ad operare sul campo con l’obiettivo di verificare la sicurezza delle frontiere esterne di alcuni paesi UE quali Grecia, Lettonia, Germania, Finlandia, Romania e Slovenia[7]. Se a ciò si aggiunge la recente riforma del regolamento Schengen del marzo 2016[8] – che disciplina in maniera estremamente restrittiva i controlli alle frontiere esterne della UE, le condizioni per accedervi regolarmente e ribadisce la possibilità per gli stati di sospendere la libera circolazione interna alla ue in caso di emergenza, come è accaduto varie volte dall’inizio della cosiddetta “crisi migratoria” – risulta evidente che l’europa sta rafforzando la fortezza, colmando i buchi che nel tempo si erano creati nella rete che la circonda. Proprio in questo contesto, assumono rilevanza centrale gli accordi con i partner extra-UE definiti indiscriminatamente Paesi terzi sicuri – come ribadito dalla già menzionata Comunicazione del 2016 – dove per Paese terzo sicuro si intende, secondo quanto disposto dall’art. 35 della Convenzione di Ginevra, ognuno di quei Paesi dove esiste la possibilità di ricevere una protezione conforme ai principi della Convenzione stessa senza che necessariamente lo Stato l’abbia ratificata senza riserva geografica. In tal senso si capisce, perché la Turchia sia stata scelta come volano di questa accelerazione dell’esternalizzazione dei controlli alle frontiere.
Con il cosiddetto Statement del 18 marzo 2016, alla Turchia – firmataria appunto della Convenzione di Ginevra con riserva geografica, ovvero della versione originaria della Convenzione che prevedeva la possibilità di riconoscere la protezione internazionale solo ai cittadini di Paesi europei ed in particolare a quelli che scappavano dal regime sovietico durante la guerra fredda – viene richiesto di riprendersi i “migranti economici” che hanno attraversato illegalmente il confine greco a partire dal 20 marzo; di rimpatriare cittadini siriani e per ogni siriano rimpatriato, un altro verrà ammesso nel territorio dell’unione secondo il meccanismo di “resettlement” (il c.d. sistema 1:1). Viene inoltre aumentato di oltre tre miliardi di euro il volume di finanziamenti da destinare alla Turchia e viene promessa l’accelerazione della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e della tabella di marcia per l’adesione alla UE. Su tale accordo tanto è stato detto sia a proposito dell’illegittimità da un punto di vista giuridico[9] sia sull’impatto dei rimpatri sulla vita e i corpi dei migranti in un Paese, la Turchia appunto, che viene definito come paese terzo sicuro e paese di primo asilo nonostante le ripetute violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Quello che qui rileva, tuttavia, è che questo accordo – caratterizzato da un’informalità giuridica che ne ha velocizzato la stipula e l’applicazione – lungi dall’essere una novità della politica europea rappresenta il prototipo da applicare a ripetizione per rispondere efficacemente a quella che i media e i politicanti descrivono da tempo come l’emergenza migratoria o la crisi dei profughi.
La solita logica dell’emergenza, insomma, che fa crollare come un castello di carte la retorica dei diritti, dell’europa come faro di civiltà e democrazia, della terra dell’accettazione della diversità da opporre al resto del mondo non occidentale, continuamente descritto come retrogrado e sottosviluppato. La realtà ci racconta, invece, che quando le persone arrivano ai confini della fortezza europa e tentano di accedere e di rivendicare la libertà di muoversi a prescindere da frontiere e filo spinato, questi bei diritti diventano degli scomodi optional. Ed è così che la Turchia diventa un partner strategico verso cui deportare i migranti; la Grecia torna ad essere un Paese sicuro verso cui trasferire i richiedenti protezione internazionale secondo quanto previsto dal sistema Dublino; paesi contro i quali la comunità internazionale ha scagliato nel tempo i suoi anatemi imponendo “democratizzazioni” forzate d’un tratto diventano i paladini dell’ordine nel mar mediterraneo.
Non siamo certo nuovi a questi processi di rimozione della memoria politica, basti pensare alla lunga sequela di accordi stretti dall’Italia con la Libia e ai soldi elargiti per la costruzione sulle coste libiche di centri di detenzione per i migranti irregolari rimpatriati. Tuttavia, l’emergenza sta producendo una proliferazione incontrollata di accordi – sia bilaterali che a firma UE – finalizzati a velocizzare le procedure di espulsione e a interrompere le rotte migratorie non solo nel mediterraneo.
Si può menzionare il Memorandum di intesa che la polizia italiana ha firmato con la controparte sudanese. Secondo tale accordo funzionari del governo sudanese sarebbero accolti nei porti italiani per identificare i migranti irregolari. Inoltre, in casi urgenti e per motivi di sicurezza, il rimpatrio potrebbe essere disposto anche senza il colloquio individuale di identificazione aumentando in maniera sconcertante la discrezionalità delle forze di polizia italiane. E se poi una persona ritenuta erroneamente sudanese viene deportata in Sudan? Bè, in caso di errore l’Italia si dichiara disposta a ricondurla in Italia senza però dire come ed entro quali tempi. Gli effetti prodotti da questo accordo sono noti: 48 persone sono state rimpatriate senza grandi cerimoniali formali da Torino alla volta di Khartoum[10] [10a]. Pare, inoltre, che siano in corso i negoziati per replicare un accordo simile anche con il Gambia[11].
Ma l’attività diplomatica firmata UE non sembra arrestarsi. Sul modello dello Statement UE-Turchia, di recente due ulteriori accordi informali sono stati firmati. Il 2 ottobre è stata la volta dell’Afghanistan[12] a cui la UE ha promesso 4,8 miliardi di euro di “aiuti umanitari” in cambio di una stretta collaborazione nei rimpatri e nel contrasto ai flussi di migranti irregolari: a tal fine, una serie di voli da circa 50 passeggeri riporteranno gli afghani rastrellati nei Paesi dell’unione a Kabul dove un terminal dell’aeroporto è stato completamente dedicato a ricevere i rimpatriati[13] e [13a]. La logica negoziatoria di questi accordi viene candidamente ammessa dal presidente del consiglio europeo Donald Tusk, secondo il quale dai paesi partner “non ci aspettiamo ringraziamenti, ma ci aspettiamo che i Paesi di origine riaccolgano i propri migranti economici irregolari”. Allo stesso modo, il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha affermato che “gli aiuti sono condizionati al progresso delle riforme in Afghanistan e ci aspettiamo cooperazione sul fronte migratorio”. I negoziati sono stati aperti il 12 ottobre anche con la Tunisia alla quale – in cambio della liberalizzazione dei visti e dall’aumento di canali per l’immigrazione regolare verso l’Europa – viene richiesto di collaborare assiduamente al contrasto delle partenze via mare verso l’europa e alla riammissione dei tunisini irregolari[14]. Si vocifera di accordi simili in procinto di essere firmati anche con Eritrea, Sudan e Niger[15].
Di fronte a questo fitto quadro di repressione e controllo delle esistenze che dalle frontiere si diffonde a macchia d’olio sia all’interno del territorio degli stati – con retate, controlli di massa e profiling etnico – sia al di là delle frontiere stesse – in territori che vengono alternativamente rappresentati come l’eldorado della repressione contro i migranti in salsa europea o come forze oscure del male generalmente di matrice islamica – le pratiche di resistenza e rivolta sperimentate dai soggetti oppressi, i/le migranti, rappresentano l’unica forza in grado di inceppare l’ingranaggio del controllo. Da parte nostra, la solidarietà e la lotta contro ogni tipo di frontiera e militarizzazione l’unica risposta possibile.