riceviamo e pubblichiamo:
Sabato 29 ottobre, in 30 circa siamo tornat* come ogni mese davanti alle mura del CIE di Ponte Galeria.
Per qualche ora abbiamo fatto sentire la nostra solidarietà alle donne ancora recluse nel lager romano, con musica, cori, poesie e aggiornamenti su ciò che succede negli altri centri di detenzione che si moltiplicano sempre più dentro e fuori l’Europa.
Non si fermano infatti le proteste delle persone migranti rinchiuse nei lager di stato, così come incessanti sono quelle di chi, dai centri accoglienza ai campi migranti informali, dalle frontiere ai ghetti nelle campagne, lotta per la propria sopravvivenza e liberazione.
Continuare a tornare davanti a quelle mura, con le nostre voci e i nostri corpi, è uno dei modi per rompere il silenzio e l’isolamento intorno a quel luogo. Un modo per rimanere sempre in contatto con le donne detenute, farci raccontare le loro storie e le sempre più difficili condizioni in cui sono costrette a vivere nel CIE, dal cibo pessimo alla quasi mancanza di assistenza sanitaria.
Proprio per questo motivo, come avviene spesso ogni volta in cui sanno che saremo lì fuori, i carcerieri si affrettano a chiudere le donne nelle loro stanze dal mattino, in modo che sia per loro più difficile ascoltare quello che diciamo e rispondere con le loro grida. Nonostante ciò, per qualche minuto, le recluse sono riuscite a farsi sentire al di là di quelle gabbie.
Il presidio si è concluso con un lancio di palline da tennis con dentro il numero di telefono per rimanere in contatto e dei fuochi d’artificio come saluto finale.
Al momento, il CIE di Ponte Galeria trattiene circa 70 donne, di cui molte nigeriane che subiscono più frequentemente retate e deportazioni a causa degli accordi bilaterali tra l’Italia e la Nigeria in materia di espulsioni. Il CIE romano, infatti, almeno una volta al mese diventa il polo centrale per le deportazioni di massa di uomini e donne pres* di mira e fermat* durante i rastrellamenti in tutta Italia.
Torneremo sotto quelle mura ogni volta che ce ne sarà bisogno e in cui avremo voglia di ripetere alle persone recluse che non sono sole e che fuori c’è qualcun* che prova a raccontare in città la loro resistenza alle deportazioni. Torneremo nonostante i frequenti blocchi in stazione e sui treni e l’ingente presenza di polizia, con il suo ultimo ridicolo tentativo di recintarci con del nastro di delimitazione, ci facciano capire ogni volta che non siamo benvenut* davanti quel lager in cui lo stato preferirebbe continuare a esercitare il suo autoritarismo nel silenzio generale.
E torneremo ogni volta con la speranza inquieta di trovare quel luogo ridotto in macerie.
nemiche e nemici delle frontiere