La situazione dell’Algeria illustra bene le condizioni di vita nei paesi africani, sia di transito che di origine dei migranti, le tante lotte che avvengono in questi paesi, la repressione che colpisce chi alza la testa e la complicità dell’Unione Europea sia nel sostenere i governanti locali nelle politiche contro la popolazione sia i loro provvedimenti in funzione anti-migratoria.
Nel paese vivono da 100.000 a 150.000 immigrati, provenienti soprattutto da Nigeria, Niger, Mali, Camerun, Guinea e Liberia. La maggior parte di queste persone si fermano in Algeria per recuperare le forze dopo la prima tappa del loro viaggio dall’Africa sub sahariana e per guadagnare, lavorando anche anni, il denaro necessario al tentativo di passare in Europa attraverso il Marocco o la Libia.
I/le migranti sub-sahariani lavorano soprattutto in cantieri edili pubblici o privati, in ristoranti, caffè, come ambulanti sulle strade. Gli stessi che costruiscono intere zone residenziali nelle grandi città, come la capitale Algeri, sono costretti a vivere in edifici diroccati o a pagare prezzi superiori a quelli di mercato per una sistemazione in piccoli alloggi o garage. Racconta un migrante: “Ad Algeri ci sono cantieri ovunque. Viviamo dentro i cantieri abbandonati, lavoriamo in quelli aperti: la nostra vita si riassume così. Facciamo tutto quello che le persone di qui non vogliono fare. I padroni ci chiamano “compagni”, e uno ha l’impressione che voglia dire “schiavi”. Ma non abbiamo scelta, sono i soli che accettano di far lavorare dei clandestini”.
Per legge, chiunque entri illegalmente in Algeria rischia due mesi di carcere, una multa e la deportazione. Tuttavia dal 2012, anno in cui è cominciata una guerra civile e scontri armati nel sud del paese, pur continuando gli arresti, le detenzioni e i decreti di espulsione, si era assistito ad un forte decremento delle effettive deportazioni: i migranti irregolari erano infatti “tollerati” per soddisfare il fabbisogno di manodopera a nero e ricattabile.
Infatti, dal 2014, solo i nigeriani sono stati arrestati e deportati (secondo i dati ufficiali, 17.000 persone) come parte di un accordo tra Niamey e Algeri.
Le cose sono cominciate a cambiare nel 2016. Nell’ambito del quadro di partenariato con i paesi terzi, adottato nel giugno di quest’anno, l’Algeria è stato identificata come uno dei 16 paesi “prioritari”, con cui la Commissione europea vuole stipulare accordi. In cambio di vari “incentivi”, come gli aiuti allo sviluppo e al commercio, l’UE chiede cooperazione per prevenire i flussi di migranti che raggiungono le coste europee e nell’accettare i rimpatri dei migranti dall’Europa.
I paesi che si rifiutano di firmare rischiano quelli che la Commissione UE definisce “incentivi negativi”. Con gli accordi noti come Processo di Khartoum, siglato il 28 novembre 2015 a Roma e con il precedente Processo di Rabat del 2006, l’Unione Europea sta cercando di bloccare la rotta migratoria attraverso il Maghreb.
Nel mese di agosto, più di 400 maliani sono stati rimpatriati in Mali dopo le violenze avvenute nella città di Tamanrasset, e a settembre il ministro degli Interni ha annunciato l’espulsione di 1.492 senegalesi e 370 guineani.
A partire da giovedi 1 ° dicembre 2016 quasi 1.500 migranti sono stati arrestati, per decisione del Governatore di Algeri, in diversi quartieri della capitale, molti dei quali nel quartiere Bouchebouk nel sobborgo di Dely Ibrahim. La polizia ha effettuato rastrellamenti nelle strade, nei posti di lavoro, negli edifici abitati dagli immigrati.
I bus della polizia hanno condotto le persone arrestate nel centro di detenzione di Zeralda (a 35 km ad ovest di Algeri). La maggior parte delle testimonianze su quanto sta succedendo arrivano grazie al gruppo “Stop ai massacri a Beni”, in contatto telefonico con alcune delle persone deportate. Il gruppo ha denunciato, pubblicando una foto, che almeno una persona è morta a Zeralda in seguito al lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia. La mattina di venerdi 2 dicembre la caccia all’immigrato è ricominciata e la stessa sera un primo convoglio di 11 bus ha deportato centinaia di persone a Tamanrasset, l’ultima grande città del sud, a 2.000 chilometri dalla capitale. Coloro che si sono rifiutati di salire a bordo del bus sono stati picchiati dalla polizia e diversi feriti gravi sono stati inviati in ospedale. Nei campi di detenzione di Zeralda e Tamanrasset le persone sono state costrette a dormire per terra, con scarso o niente cibo e acqua, e gli sono stati sequestrati tutti i soldi che avevano. La “Lega algerina per la difesa dei diritti umani (LADDH)” in un comunicato scrive che tra gli arrestati ci sono bambini, donne incinte, persone malate, e sia migranti in situazione irregolare che richiedenti asilo e rifugiati.
Il 7 dicembre un secondo convoglio di bus della polizia è arrivato nella provincia di Tamanrasset e da qui, nei giorni successivi, circa 1000 persone sono state espulse in Niger, passando prima per la città di Arlit per poi finire ad Agadez in un centro circondato da una recinzione, in attesa della deportazione nei paesi di provenienza. Ad Algeri e nelle altre città del paese l’ondata di arresti ha causato il panico. Sophie, liberiana, ha raccontato a una testata locale che non ha praticamente dormito per tre giorni: “Sobbalzo quando sento un rumore. La polizia è arrivata due volte per arrestare le persone nelle loro case”. Molti migranti non escono dalle loro case e non stanno andando a lavoro per paura di nuovi rastrellamenti.
Il regime del presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, si trova ad affrontare da tempo le proteste degli algerini contro le politiche di austerità applicate dal governo. Nel 2015 la spesa pubblica è stata tagliata del 9%, e per il 2016 è previsto un ulteriore taglio del 14%, malgrado i proventi per lo stato per la vendita di petrolio e gas passeranno dai 26,4 miliardi di dollari di quest’anno ai 35 previsti nel 2017. Nel corso dell’anno sono avvenuti frequenti scioperi e rivolte locali di disoccupat* e lavoratori/lavoratrici in tutto il paese. La disoccupazione, ufficialmente al 10 per cento, è in realtà più vicina al 30%.
Nel gennaio 2016, le autorità hanno risposto alle proteste contro la disoccupazione organizzate nella città meridionale di Laghouat dal “Comitato nazionale per la difesa dei diritti dei disoccupati” (CNDDC) arrestando attivisti e manifestanti, compresi alcuni che avevano aderito alle proteste in segno di solidarietà con gli attivisti detenuti. I fermati sono stati condannati a uno/due anni di reclusione. Altre decine di arresti e condanne per i/le disoccupat* per la semplice partecipazione a manifestazioni sono avvenuti nel corso dell’anno.
Ad aprile sono scesi in sciopero le/gli insegnati, hanno attuato uno sciopero della fame e la loro marcia verso il parlamento di Algeri è stata bloccata dalla polizia. Il 17 ottobre ha avuto luogo uno dei più partecipati scioperi generali degli ultimi 25 anni, chiamato da 16 sindacati, e al quale hanno preso parte il 75% dei lavoratori dei settori interessati.
Il sindacato dei lavoratori pubblici SNAPAP ha scioperato per tre giorni dal 25 al 27 ottobre per un aumento dei salari e assunzioni a tempo indeterminato dei lavoratori precari. “L’unico modo in cui possiamo cambiare le persone al potere è quello di scendere in piazza” hanno affermato i manifestanti. Dal 22 al 25 novembre si sono tenuti tre giorni consecutivi di scioperi per protestare contro i piani di austerità del governo, che prevedono l’aumento delle tasse, il congelamento dei salari e l’aumento dell’età minima pensionabile a 60 anni. Quello degli insegnanti, degli operatori sanitari e dei dipendenti dei servizi pubblici locali erano tra i 12 sindacati che hanno preso parte allo sciopero. Il 27 novembre le autorità hanno represso violentemente il raduno previsto dall’appello dei sindacati autonomi di fronte alla sede del Parlamento ad Algeri per denunciare il progetto di legge per l’abolizione della pensione anticipata, il nuovo codice del lavoro e la politica di austerità. Un impressionante dispositivo di sicurezza ha portato a decine di arresti di sindacalisti, militanti, e cittadini accorsi a sostenere il presidio. Questa situazione economica e la repressione nel paese porta molti giovani algerini a emigrare verso l’Italia (recentemente, sbarcando sopratutto in Sardegna) e la Spagna, con l’intenzione, per la maggior parte di loro, di raggiungere in seguito la Francia. Tuttavia in base agli accordi di riammissione tra Italia, Spagna e Algeria, chi riesce a raggiungere l’Europa viene detenuto e rapidamente deportato. Non a caso sono algerini la maggior parte dei reclusi nei CIE spagnoli, e sono costoro anche i protagonisti delle recenti fughe e rivolte.
Dovendo fronteggiare questa forte contestazione di disoccupat* e lavoratori/lavoratrici anche in Algeria i governanti stanno portando avanti campagne e pratiche razziste per spostare l’attenzione e criminalizzare gli immigrati. Per citare solo un esempio, lo scorso 5 dicembre Farouk Ksentini, presidente della “Commissione consultiva nazionale per la promozione e protezione dei diritti umani”, che dipende dalla presidenza della Repubblica, ha dichiarato alla stampa che “noi algerini siamo a rischio diffusione dell’AIDS e di altre malattie sessualmente trasmissibili a causa della presenza di questi migranti. I migranti africani sono responsabili della diffusione di queste malattie in Algeria, e non hanno alcun futuro in questo paese” aggiungendo, come giustificazione che “Non sono Marine Le Pen, io non sono razzista, ma delle soluzioni devono essere trovate”.
Il clima di razzismo ha avuto come conseguenza almeno 4 episodi di aggressioni di massa nei confronti degli immigrati, l’ultimo dei quali proprio nel sobborgo di Dely Ibrahim ad Algeri, nei giorni precedenti i rastrellamenti e le detenzioni del 1° dicembre.