Transfobia di stato: ogni frontiera è violenza sulle donne

fonte cagne sciolte

Aggiornamento del 27 marzo.
Apprendiamo da fonti giornalistiche che Adriana è stata di nuovo rinchiusa in un CIE (oggi CPR) questa volta quello di Caltanissetta. Le autorità, infatti, hanno disposto la reclusione a causa dei suoi precedenti penali: l’attuale disciplina legislativa in materia di immigrazione prevede infatti che i richiedenti asilo con precedenti attendano il responso delle Commissioni Territoriali nei CPR. Ancora una volta Adriana è stata rinchiusa in un CIE in cui c’è solo la sezione maschile: sempre per “tutelarne l’incolumità” è stata isolata dagli altri prigionieri e alloggiata in un container. La violenza dello stato sui corpi delle donne è come sempre spietata e la transfobia è chiaramente una colonna portante della violenza di genere e del genere. Contro ogni gabbia e confine tra i territori e i generi.

Grazie alla denuncia del Mit (Movimento Identità Transessuale) siamo venute a conoscenza della storia di Adriana, una donna trans che da 17 anni vive in Italia. Da 3 anni, dopo aver perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, si è ritrovata  a vivere nell’illegalità, condizione comune a moltissime delle persone migranti che vivono nella penisola. In un sistema legislativo come quello italiano il rilascio del permesso di soggiorno è legato o ad un regolare contratto di lavoro oppure a strumenti che, come il ricongiungimento familiare, restano appannaggio delle sole famiglie eterosessuali e stabiliscono allo stesso tempo l’indissolubilità del legame matrimoniale, che, soprattutto per le donne migranti, diventa condizione unica per rimanere in questo paese.
A seguito di un controllo di polizia in un hotel a Napoli, in cui Adriana si trovava con il suo compagno, e verificata la sua posizione di irregolare, è stata prelevata e portata nel CPR (centro di permanenza per il rimpatrio) di Brindisi, istituto detentivo riservato agli uomini migranti.
Non siamo a conoscenza dei motivi per i quali le forze dell’ordine si siano presentate nell’albergo: sono state chiamate da qualcuno? Era un controllo di routine? Vista l’assiduità delle retate nei confronti delle sex workers e il pregiudizio per il quale spesso le donne trans vengono automaticamente considerate lavoratrici del sesso, non ci sentiamo di escludere che i controlli siano avvenuti per questo motivo; infatti, nonostante in Italia la prostituzione non costituisca reato, le politiche a difesa del decoro urbano e contro favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, ogni giorno determinano numerosi e violenti rastrellamenti di sex workers, tra le quali numerose donne trans, per le quali il lavoro sessuale è una delle poche opzioni per guadagnarsi da vivere data la transfobia vigente sul mercato del lavoro ufficiale.
Adriana è reclusa nel CPR di Brindisi da circa un mese; grazie alle sue precedenti relazioni con l’associazione MIT, il 18 di Marzo siamo venut* a conoscenza della sua storia e dello sciopero della fame che stava portando avanti da ormai 8 giorni. Secondo le informazioni diffuse, tra i motivi dello sciopero c’è la negazione della sua identità di genere, motivo per il quale è stata reclusa in un centro di detenzione maschile, con tutto ciò che ne consegue, ossia una costante situazione di violenza psicologica e pericolo per la sua incolumità.
Le narrazioni dei media di questi giorni ci raccontano solo un aspetto della violenza che Adriana sta vivendo, ossia la pericolosità di essere rinchiusa tra uomini. Noi chiamiamo violenza anche che le sia negato il trattamento ormonale sostitutivo di cui ha bisogno, il cis-sessismo e la transfobia delle istituzioni, che di fatto non riconoscono l’identità delle persone trans, e il razzismo dello stato che criminalizza, rastrella e ingabbia le persone migranti. Vogliamo denunciare il fatto  che la detenzione e il rischio di deportazione a cui Adriana è  sottoposta sono il frutto delle transmisoginia, del cis-sessismo e del  razzismo strutturali che permeano le istituzioni.
Proprio a questo stiamo assistendo con crescente assiduità negli ultimi tempi, anche a causa della circolare del capo della polizia che indicava a numerose prefetture sparse per l’Italia di intensificare i controlli finalizzati al rintraccio di migranti irregolari provenienti dalla Nigeria; nonché a causa della recente approvazione dei due decreti legge Minniti che, da un lato, fanno della lotta all’immigrazione irregolare un baluardo delle politiche migratorie italiane (D.L. Minniti sull’immigrazione) e dall’altro includono la prostituzione tra i comportamenti da stigmatizzare in quanto lesivi del decoro urbano (D.L. sicurezza urbana).
Quanto accade ad Adriana non è un caso isolato ma la normalità nelle esperienze di detenzione delle persone trans.
Nei CPR così come nelle carceri, le persone trans sono soggette  a oppressioni specifiche che vanno dall’essere detenute in sé, all’essere migranti (specie nel caso della detenzione nei CPR) e alla negazione dell’identità, motivo per cui queste persone sono detenute nelle sezioni in base al genere assegnato alla nascita e non a quello vissuto/scelto. La prassi è essere recluse in sezioni specifiche o spesso nelle infermerie o in isolamento, dovendo quindi affrontare la pena aggiuntiva della negazione della socialità con le altre persone detenute. La stessa esclusione vissuta nella società viene dunque riprodotta all’interno delle carceri.
La sola differenza tra Adriana e le altre persone trans recluse è che lei ha trovato un canale di comunicazione con l’esterno con cui diffondere la sua lotta e la sua storia.
Siamo consapevoli dell’importanza di avere contatti con chi è detenut* perché emerga la sua voce e la narrazione delle resistenze quotidiane che porta avanti, per evitare le vittimizzazioni e le strumentalizzazioni politiche di chi adesso usa queste persone per ergersi a paladino delle soggettività LGBTQI+. A dispetto della lotta che Adriana ha portato avanti per far uscire la sua voce fuori da quelle sbarre,  la sua storia ci sembra essere stata trasformata invece nel caso mediatico attraverso cui, gli stessi politici che hanno contribuito a istituire a suo tempo i centri di detenzione per migranti e che partecipano alla creazione dell’apparato repressivo dello stato, oggi si indignano per la negazione dei diritti delle persone trans nei CPR.
Proprio queste vittimizzazioni e strumentalizzazioni sono alla base dell’intero sistema d’accoglienza e detenzione delle persone migranti: un sistema che si riproduce e nutre con la differenziazione tra migrante buono da proteggere (il rifugiato che scappa dalla guerra, chi è vittima di tratta) e il migrante cattivo da criminalizzare (i cosiddetti “migranti economici” che, secondo la logica dello stato, sarebbero inclini al compimento di reati, chi non ha documenti in regola, chi per scelta o necessità vive di extralegalità). Un sistema che a fronte di una minima percentuale di persone “accolte”, ne reclude e deporta centinaia ogni mese.
La prima soluzione con cui lo Stato ha pensato di risolvere la faccenda di Adriana è stata metterla in isolamento, costantemente piantonata dalle forze dell’ordine, il chè non ci ha fatto smettere di temere per la sua incolumità perché non riconosciamo loro un ruolo di protezione né vogliamo dimenticare i numerosi casi in tutto il mondo di persone trans aggredite dalla polizia nelle strade e nelle carceri. Successivamente è stato concesso ad Adriana un permesso di soggiorno di 6 mesi per protezione internazionale ma finito questo periodo cosa accadrà? Ci si scalda il cuore alla notizia della sua liberazione ma alla stampa che parla di “reclusione disumana” soltanto per quanto riguarda la detenzione di Adriana rispondiamo che, nonostante lei subisse il peso ulteriore di un’oppressione specifica, quel luogo è disumano per ognuna delle persone che vi vengono rinchiuse.

Ciò a cui aspiriamo è che tutte le persone recluse nelle carceri o nei CPR vengano liberate.

Urliamo forte la nostra solidarietà ad Adriana e a chi ogni giorno lotta e resiste in ogni gabbia.

Contro ogni frontiera tra generi e territori

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