I discendenti di Calibano e il mito del “Buon Selvaggio”

Riceviamo e pubblichiamo

“ Gli indiani, privi di tutto, sono incapaci di ogni forma di vita politica e solo la tutela europea e cristiana potrà elevarli a un livello di piena civilizzazione. Agli occhi di Colombo, si instaura così tra europei e indiani un rapporto di reciproco vantaggio: cedendo i propri beni, gli indiani, ottengono una progressiva promozione culturale e una pacifica trasformazione da ”naturali” a “civili”, mentre gli europei, donando beni culturali, ottengono ciò che hanno lungamente desiderato.”

 Sergio Botta – Dimensioni lontane

A seguito della lettura dell’articolo pubblicato su MeltingPot Europa per promuovere lo Sherwood festival di Padova riteniamo necessario proporre delle riflessioni in merito al posizionamento delle persone di movimento nei confronti delle persone migranti. Innanzi tutto vorremmo riflettere sul linguaggio usato, facilmente riconducibile alle narrazioni colonialiste del Medioevo, nelle quali il “simile a noi”, dopo essere stato idealizzato e infantilizzato, diviene soggetto da “civilizzare”. Una civilizzazione che passa dal “leggere gli scontrini nel verso giusto” fino al sentire “la musica uscire dalle casse”, passando per “l’imparare a fare gli spritz”.

“Ognuno chiama Barbarie ciò che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.”

de Montaigne – Saggi – 1585 d. C.

In sostanza ci sembra che il testo tutto sia permeato da una visione Eurocentrica che non si discosta dall’idea coloniale del mito del “buon selvaggio”. Non mettendo in discussione l’esperienza coloniale degli stati occidentali, infatti,  un testo come questo finisce per  riproporre le stesse idee e strategie di assoggettamento usate dal  potere degli Stati Nazione durante i secoli, per riproporre  la cosiddetta  “supremazia bianca”, ossia l’unica strada percorribile per raggiungere il grado di “civilizzazione” di quello che, in contrapposizione al terzo,  potremmo definire il “primo mondo”.

Se si riconosce che gli squilibri dei  governi coloniali non sono stati cancellati e che il nuovo ordine globale, seppur non attuato attraverso il dominio diretto,  si basa sulla penetrazione economica culturale e politica di alcuni paesi in altri, ci apparirà chiaro come questo tipo di intervento politico, tristemente molto diffuso, alimenta e sostiene la politica delle frontiere nonché le nuove strategie neocoloniali. La mancanza di autocritica culturale unita ad una dichiarata collaborazione con le strutture, ossia le cooperative, che si occupano “dell’accoglienza” non fa altro che riproporre le stesse visioni e le stesse strategie di controllo e sfruttamento che lo stato impone. A essere ripropagata inoltre, è la differenziazione tra “migrante buono” , ossia colui che si occupa di prestare servizi “volontari”, ossia lavoro gratuito, per mantenere la “sicurezza” e il “decoro” delle città con il fine d’essere guardato di “buon occhio” dalla commissione che valuterà la sua richiesta d’asilo; e il “migrante cattivo”, ossia il cosiddetto migrante economico, in sostanza chi non scappa dalla guerra, o l’emarginato che vive di extra legalità e si rifiuta di essere risucchiato nel sistema dell’accoglienza per dei documenti che, in una percentuale molto vicina alla totalità dei casi, non avrà.

Questo testo, non vuole essere una critica sterile ma vuole stimolare una riflessione su come il privilegio bianco non venga riconosciuto tanto meno messo in discussione nella partecipazione alle lotte che portano avanti le persone migranti senza la necessità della nostra presenza. Vuole aprire una discussione attraverso cui decostruire e neutralizzare il protagonismo e i ruoli di potere che vengono messi in campo ogni qual volta  ci si sostituisce ai soggetti oppressi nella narrazione o nella lotta ad un’oppressione. Contro ogni frontiera geopolitica e culturale.

Delle compagne arrabbiate

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