Torino – Le parole di una persona imputata per i fatti del 6 aprile

fonte: macerie

“Avremmo voluto scacciare la polizia dal quartiere con bottiglie e blocchi stradali. Avremmo voluto impedire una delle sempre più frequenti retate contro i “sans papiers” a Torino. Saremmo stati felici di sabotare un controllo di documenti (sempre mascherato e venduto come azione antidroga) con lanci di pietre. Non ci sarebbe dispiaciuto che due poliziotti si ferissero davvero: avrebbero capito, forse, che la loro violenza continua ogni tanto trova la risposta rabbiosa di chi è stanco di questa militarizzazione.

Ci accusano di “aver aggredito un gruppo di agenti impegnati in un servizio antispaccio”. Ci accusano di avergli lanciato contro pietre, bottiglie e “tutto ciò che gli capitava sotto mano”. Ci accusano di danneggiamento, resistenza aggravata in concorso, di essere arrivati in massa e aver aggredito gli sbirri mentre tranquillamente identificavano dei ragazzi nigeriani.
Ora cinque persone sono state messe agli arresti domiciliari dal Tribunale del Riesame, non senza essere passate prima dalle patrie galere. Su altre due grava ancora un divieto di dimora. “Misure cautelari”. Siamo “persone pericolose”.

Queste parole non sono per difendersi dalle accuse false dei PM, della Digos e dei giornali. È normale che la Magistratura e i Tribunali lavorino a pieno ritmo per reprimere ogni forma di dissenso che cerchi di ostacolare le loro forme di potere e di controllo. È normale che i giornali riportino ciò che PM e Digos di turno hanno inventato, anche se si tratta di diffamazione pura in quanto primo le cose non sono andate così, e secondo nessuna sentenza né giudizio è ancora stata emessa. Ma per mostrare una volta di più le assurdità e le contraddizioni evidenti di questo sistema che chiamano Giustizia.

 I FATTI

Due parole su quel giorno.

Era il 6 Aprile, io sono in un bar a fare aperitivo con amici, vicino a Corso Giulio. Sentiamo un po’ di casino, qualcuno dice che c’è una retata in corso ai giardini ex-GFT, decidiamo così di andare a vedere cosa sta succedendo. Le retate sono sempre più frequenti a Torino, e non solo. Qui le giustificano come “azioni antidroga”, “operazione per la sicurezza” e cose simili. Bloccano le strade, la polizia ferma tutti i neri e gli arabi che incontra e gli chiede i documenti. Chi non li ha, o li ha scaduti, viene portato via. E poi, chi sa. Decreti di espulsione dal paese, minacce, CIE/CPR. Con il nuovo decreto Minniti-Orlando si accosta il “problema immigrazione” a quello sicurezza. L’obiettivo è semplice: “gestire” il migrante, l’immigrato, come un problema di sicurezza interna, con determinati metodi repressivi. Renderlo ancora più vulnerabile, quindi più controllabile e sfruttabile. I controlli per le strade, le retate nei quartieri, rientrano perfettamente in questa ottica di “gestione” economica e repressiva. Per prima cosa gli sbirri vogliono far vedere il loro “potere” in determinati quartieri e in certe strade della città. Imporsi dove si sentono più deboli. Con la scusa della “sicurezza” attuano un vero e proprio metodo repressivo e, in più, razziale. Se sei bianco non hai problemi in queste retate, solo chi ha la pelle scura o tendente al mulatto.
A Milano, a Ventimiglia, in ogni città di frontiera, nelle stazioni, nei quartieri in via di riqualificazione, queste retate sono diventate la normalità. Controlli specifici per allontanare gli “indesiderati”, per nasconderli o per deportarli. Con il nuovo Decreto Sicurezza ci faremo l’abitudine.

Comunque. Arrivo con amici davanti ai giardini ex-GFT. Si forma in modo spontaneo un gruppetto di persone che cerca di capire che sta succedendo. Nel vedere che la polizia sta fermando e identificando delle persone, dopo aver bloccato entrambi gli accessi dei giardini, nascono dei cori e qualche grido contro le retate sempre più frequenti e contro la militarizzazione del quartiere.

Passano tra i due e i quattro minuti circa. Chi è lì sul marciapiede, dall’altra parte di Corso Giulio e quindi con quella ventina di metri che dividono il gruppetto di persone che si è radunato e la polizia, senza contare tutte le macchine che passano in mezzo, non ha fatto nient’altro che guardare la retata in corso e fare qualche coro. D’altronde no avrebbe avuto il tempo di fare altro. Dopo questa manciata di minuti due camionette dei carabinieri in antisommossa si precipitano a soccorrere i loro camerati dai pericolosi slogan. Scendono vestiti di tutto punto – scudi, manganelli etc- e immediatamente effettuano una carica. Completamente presi alla sprovvista- chi mai si aspetterebbe che essere su un marciapiede a guardare e a dire ciò che si pensa sulle retate e sulla militarizzazione comporta essere caricati da trenta carabinieri che ti insultano con manganelli alla mano ?- tutti iniziano a correre. I carabinieri invadono entrambe le corsie di corso Giulio e ci rincorrono per i vicoli. Ci insultano: “zecche”, “fermatevi e vedrete”, “cagasotto” e un sacco di stronzate. Ma dato che nessuno ha molta voglia di essere manganellato senza un senso, continuiamo a correre. Poi sbucano altre camionette.

Alla fine ci portano via in 5. Circondati dai carabinieri nelle camionette, ci scortano fino alla questura di Porta Palazzo. Due persone vengono picchiate. Prima cercavano di farci reagire, con insulti e accuse verbali, sperando in una nostra reazione. Poi, hanno fatto a meno anche di quello. A un ragazzo si sono visti i lividi sul corpo per una settimana.

Alla domanda di quali accuse ci sono mosse e “perché siamo qui”, rispondono: “semplice controllo di polizia”. In pratica ci fanno restare in due questure per un totale di circa 4-5 ore, prendendoci le impronte digitali e foto-segnalandoci, dicendo che potevano farlo quando e come volevano con tutti. In pratica possono fermare chiunque per strada e portarlo in questura e identificarlo in questo modo.
Veniamo rilasciati senza nessuna denuncia. Anche perché l’unica “colpa” è quella di esserci fermati su un marciapiede ed essere scappati mentre trenta carabinieri ci rincorrevano incazzati.

CONCLUSIONE DELLA STORIA

Il 4 agosto cinque persone sono finite in carcere e a due sono stati notificati dei divieti di dimora da Torino e Provincia. Le accuse? Sempre difficili da capire dati i codici inintellegibili con cui la magistratura si esprime. Dovrebbero essere: resistenza a pubblico ufficiale in concorso (più di dieci persone) e lancio di “corpi contundenti” (pietre e bottiglie), danneggiamento (di una macchina?) sempre aggravato dal concorso.
Noi facciamo cori su un marciapiede e loro ci caricano con i manganelli e gli aggressori siamo noi. Loro ci insultano e ci rincorrono per mezzo quartiere e i violenti siamo noi. Loro ci sbattono a terra poi ci accusano di “resistenza aggravata”. Non gli servono prove, è la loro parola contro la tua. Ma noi siamo i “soggetti pericolosi”, e loro “le forze dell’ordine”.
Avremmo voluto, non l’abbiamo fatto. Ma ti accusano di tutto comunque. L’unica cosa che si rimpiange è di non avere fatto tutto ciò di cui ci accusano.”

macerie @ Agosto 19, 2017

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