Gli hotspot, così come i CPR, sorgono per la maggior parte in posti isolati: ciò serve per nascondere agli occhi dei più l’orrore di questi campi di concentramento. Solo le proteste e le rivolte (e i presidi dei/delle solidali all’esterno, dove possibile) riescono talvolta a rompere il muro di silenzio che circonda questi luoghi di reclusione. A Lampedusa circa 150 persone, in maggioranza tunisine, sono in attesa di ricevere, alcuni da due mesi, un decreto di espulsione o essere deportate direttamente per via aerea. Le condizioni di vita nell’hotspot sono al solito disastrose. Lo racconta uno dei reclusi durante un’intervista, avvenuta sabato 24 febbraio nel corso di una protesta che ha visto decine di persone uscire dall’hotspot per dirigersi al porto dell’isola, reclamando libertà di movimento:
“Loro ci danno il mangiare con le medicine, metà pasti metà medicine: mangiamo un po’ e dormiamo due, tre giorni. Dobbiamo dormire qui o morire qui. Ci fanno vivere come animali, anzi gli animali vivono meglio di noi. Per dieci giorni non ho dormito, per dieci giorni non ho fatto doccia, perché non funziona.”
L’uso di psicofarmaci per sedare le persone recluse è stato testimoniato varie volte nei CPR, e ciò avviene anche a Lampedusa, costringendo le persone a saltare i già pessimi pasti per protesta, e a vagare sull’isola per procurarsi un po’ di cibo. A Lampedusa, come nell’hotspot di Trapani o nel CPR di Caltanissetta (il secondo danneggiato, il CPR ora chiuso, grazie ai danni provocati dalle rivolte), la notte non si dorme, per tenersi pronti a resistere alle possibili deportazioni, le cui operazioni di solito si svolgono alle prime luci del giorno.
Dal poco che si riesce a ricostruire da quanto riportato dai media, le proteste a Lampedusa sono continue.
Giovedi 22 febbraio nell’hotspot dei migranti avrebbero sparato dei razzi di segnalazione, provocando l’allarme e l’intervento delle forze dell’ordine.
Il sabato seguente, 24 febbraio, “un centinaio di migranti – pressoché tutti – sono usciti di mattina dalla struttura recandosi dapprima nella solita piazza antistante la Parrocchia di San Gerlando e successivamente, con un pacifico corteo, si sono spostati sulla banchina del porto commerciale di Cavallo Bianco. Al molo hanno dato il via ad un sit-in che promettono di mantenere fino a quando non verranno trasferiti in Sicilia. Ma la loro idea del trasferimento differisce da quanto previsto dagli accordi internazionali tra Italia e Tunisia circa i rimpatri dei cosiddetti migranti economici. Gli harragas seduti al porto pretenderebbero il trasferimento in Sicilia e da li la libera circolazione.” La protesta è stata controllata da polizia e carabinieri e i tunisini, malgrado l’intenzione di mantenere il presidio al porto a tempo indeterminato, sono stati costretti dal mancato approdo di traghetti e dal gelo notturno a ritornare nell’hotspot.
Il giorno successivo, lunedì 26 febbraio, nell’hotspot sono di nuovo intervenute le ff.oo. e i vigili del fuoco, a causa di un fumogeno acceso, intorno alle 22, in prossimità dell’atrio antistante la cucina.