Riceviamo e pubblichiamo.
Nel pomeriggio di mercoledì 7 marzo una ventina di compagn* ha formato un presidio di fronte all’hub per richiedenti asilo di via Mattei.
L’attenzione dedicata dalla stampa locale a questa chiamata, come era prevedibile, si è tradotta nella presenza di tre camionette di polizia e carabinieri ai lati dell’ingresso della struttura, relegando le/i manifestanti sul marciapiede dalla parte opposta della strada.
Questo dispiegamento di forze ha assunto da subito un significato intimidatorio, inteso a scoraggiare le persone che attualmente vivono nella struttura dall’avvicinarsi al presidio.
Nonostante la distanza, i/le partecipanti hanno dato avvio a una lunga serie di interventi in diverse lingue, intervallati dalla musica, riuscendo nell’intento di farsi notare da chi stava all’interno dell’hub anche grazie alla distribuzione di materiale informativo a persone che rientravano nella struttura, incontrate nelle vicinanze.
Poco a poco è stato possibile innescare la comunicazione sulle questioni più importanti, come il progetto di trasformazione parziale dell’hub in centro di permanenza per il rimpatrio, struttura detentiva per chi attende l’espulsione. Di fondamentale importanza è stata la condivisione di notizie sulle lotte passate e presenti dei migranti che tentano di mettere in crisi il sistema repressivo fondato su accoglienza e deportazione.
La messa in scena poliziesca che aveva accolto il presidio si è definitivamente sgonfiata quando i primi abitanti del campo di via Mattei hanno raggiunto il presidio e, in senso opposto, alcun* compagn* hanno incontrato, avvicinandosi all’ingresso della struttura, i migranti che vi si erano affacciati dall’interno. Grazie a questo movimento reciproco è stato possibile chiarire le ragioni dell’iniziativa a un numero maggiore di persone.
Polizia e carabinieri hanno deciso di non intervenire, mossa che peraltro avrebbe sancito esplicitamente la trasformazione dei migranti in detenuti e della struttura in prigione. L’incontro tra manifestanti e migranti ha permesso, però, che emergesse una verità già palese per tutti i migranti di via Mattei: “this prison” è il nome più usato per indicare il posto in cui si trovano a vivere, e la sovrapposizione di accoglienza e detenzione che il sindaco Merola vorrebbe realizzare materialmente e formalmente è già percepita da chi si trova oggi nell’hub. Non sono mancate espressioni di esasperazione per le condizioni di vita subite, soprattutto riguardo l’igiene, il cibo, l’isolamento relazionale. Alcuni richiedenti asilo hanno segnalato di non essere in possesso, a causa delle disfunzioni burocratiche, del permesso di soggiorno provvisorio, essendo quindi esposti a una condizione di illegalità sul territorio.
Lo scambio di informazioni si è fatto progressivamente più fitto fino a quando, tre ore dopo l’inizio, il presidio si è concluso. Mentre si allontanavano dall’hub diversi attivisti/e sono stati raggiunti da agenti della digos e identificati.
L’hub di via Mattei è stato un centro di detenzione fino al 2013. Dal 2014 fino all’era Minniti è servito come punto di smistamento per tutti i richiedenti asilo assegnati all’Emilia Romagna. Ora potrebbe essere destinato a svolgere due funzioni diverse: parte della struttura – stando alle intenzioni del sindaco – tornerebbe a essere una prigione per migranti senza documenti, la parte restante diventerebbe una struttura di accoglienza di lungo periodo, non più un luogo caratterizzato dal”rapido turnover” di persone da redistribuire nella seconda accoglienza.
Questa seconda funzione potrebbe essere già operativa, ancora prima dell’assegnazione in base al nuovo bando di gara, in discussione in quest’ultimo periodo, dove si torna a parlare di centro di accoglienza per richiedenti asilo (cara) per nominare la struttura. L’ipotesi sembra avvalorata alla luce dell’esperienza delle persone migranti incontrate oggi, ormai giunte in via Mattei da 4, 6, 10 mesi, che raccontano di un numero molto basso di trasferimenti verso altre destinazioni. E’ possibile,allora, che siano forzate a restare nell’hub dal nuovo assetto dell’accoglienza post-Minniti – pochi arrivi, più centri di detenzione, più morti in mare, più morti in Libia – affinché l’impalcatura dell’accoglienza, con il suo carico di fondi ministeriali e posti di lavoro, possa restare in piedi anche lì.
Solo la presenza dei richiedenti asilo giustifica il funzionamento della struttura di via Mattei. Fino all’estate scorsa si trattava sempre di persone diverse, per lo più appena sbarcate e poi smistate nel giro di poche settimane o una paio di mesi: ora che gli arrivi non ci sono più non è interesse della prefettura che i 400 migranti del centro vengano trasferiti, perché questo significherebbe lo svuotamento del centro. Il sistema di accoglienza bolognese perderebbe un tassello importante – il suo “fiore all’occhiello”, come l’ha definito un assessore – un luogo sotto il diretto controllo della polizia, attraversato da tutti gli “scarti” del sistema di gestione delle migrazioni, tra cui molti migranti deportati da altri paesi europei o dai confini nord dell’Italia.
Per quanto non si smetterà mai di ripetere che ogni tipologia di residenza forzata della cosiddetta accoglienza è una forma di oppressione, è necessario sottolineare che le persone che si trovano oggi in via Mattei sono costrette a sopportare a lungo delle condizioni di vita che finora persino le stesse istituzioni avevano giudicato tollerabili solo per un breve periodo. La conversione del “campo” da centro di detenzione a hub avvenuta nel 2014 (conservando gran parte della struttura architettonica del carcere, il concentramento di alcune centinaia di persone, la mensa scadente, l’igiene malsana e ovviamente l’isolamento geografico) era stata possibile prevedendo che le persone ci restassero per un paio di settimane o al massimo un paio di mesi. L’esposizione a queste condizioni di vita per un tempo molto più lungo appare come una condanna, segno ulteriore dell’irrigidimento in senso sempre più disumanizzante delle politiche sull’immigrazione.
Le proteste che hanno attraversato l’Italia nel mese di marzo da Lampedusa a Bologna dimostrano la rabbia e l’esasperazione delle e dei migranti nei confronti del sistema che abbiamo descritto. Il primo marzo cinquanta migranti hanno occupato la struttura di seconda accoglienza di Villa Aldini a Bologna per protestare contro i tempi lunghissimi di rinnovo dei permessi di soggiorno e contro le lunghe attese per la commissione, che li costringono a rimanere dipendenti dal sistema d’accoglienza per mesi o addirittura anni. Tra le richieste, anche l’eliminazione dell’assurda regola che prevede la decurtazione del pocket money giornaliero di due euro e cinquanta per i periodi di assenza dalla struttura. L’ufficio immigrazione della prefettura di Bologna ha infine accettato di incontrare i rivoltosi e ha promesso di prendere in carico le loro richieste, ma si tratta del solito inutile teatrino inscenato dalle istituzioni che promettono cambiamenti solo per sedare situazioni di conflittualità e tenerle sotto controllo. Non resteremo in silenzio a guardare gabbie che diventano sempre più opprimenti, qualunque sia il nome con cui le chiamano (hotspot, cpr, sprar, cara).
Al presidio di mercoledì 7 marzo seguiranno nuove mobilitazioni per ascoltare e diffondere la voce di chi vive sul proprio corpo la privazione della libertà di movimento.
Nemiche e nemici delle frontiere