I corridoi umanitari ovvero un tassello del controllo statale sul movimento delle persone

Negli ultimi anni una delle principali richieste e parole d’ordine avanzate dalle realtà antirazziste “democratiche”, umanitarie e religiose (partiti, sindacati, ONG, associazioni, chiese, cooperative sociali, gruppi per i diritti umani etc.) è stata quella dell’istituzione dei cosiddetti corridoi o canali umanitari, per permettere l’arrivo legale e in sicurezza delle persone migranti nei paesi occidentali.

Con il termine “corridoio umanitario” (dall’inglese humanitarian corridor) storicamente si intendeva “la fascia di territorio di un paese in guerra in cui le attività belliche vengono sospese per consentire il passaggio di convogli per il trasferimento dei profughi e per l’assistenza alle popolazioni”, un provvedimento temporaneo ed eccezionale applicato in tempo di guerra. Ora questa espressione viene estesa alla gestione di quella che i governanti dei paesi europei definiscono la crisi dell’immigrazione di massa.

Gli aspetti pratici di questa richiesta di corridoi umanitari sono sempre rimasti ambigui. Al sostegno di chi sarebbe stato rivolto questo corridoi umanitario? A tutte le persone che lasciano i loro paesi o solo ad alcune nazionalità e categorie? Si sarebbe trattato di un provvedimento temporaneo o di un cambiamento sostanziale nel sistema delle frontiere?

Nella sostanza con questa equivoca espressione si chiede a quegli stessi stati che da anni impediscono alle persone di arrivare senza rischi in Europa (non concedendo i visti che permettono di muoversi con navi e aerei o di attraversare semplicemente le frontiere terrestri, deliberando leggi sempre più restrittive sui movimenti delle persone, spendendo miliardi di euro per blindare le frontiere) di concedere un canale di accesso straordinario e legale solo ad alcune tra le persone intenzionate a lasciare i loro paesi. Non si propone dunque di modificare un regime delle frontiere che ha provocato decine di migliaia di morti negli ultimi anni, e che continua con torture, detenzioni, lager e deportazioni, ma di dar vita a un provvedimento di eccezione, limitato nel tempo, che non mette in discussione il principio del controllo militarizzato dei confini nei confronti delle persone migranti.

Berlino

Non è certo un caso che questa parola d’ordine così ambigua in breve tempo sia stata fatta propria dal Governo italiano. Alla fine del 2015 una prima sperimentazione è diventata operativa con la firma di un protocollo d’intesa tra istituzioni (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Ministero dell’Interno) e società civile (Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche e Tavola Valdese).

Il progetto è descritto sul sito del Ministero degli Esteri, e lo riportiamo integralmente perché tra le righe si può comprendere il reale obiettivo politico di questo esperimento che si candida a diventare un modello replicabile ovunque.

I corridoi umanitari sono un programma di accoglienza in Italia rivolto a migranti in condizione di particolare vulnerabilità: donne sole con bambini, vittime del traffico di esseri umani, anziani, persone con disabilità o con patologie.

Il programma prevede l’ingresso nell’arco di 24 mesi di oltre 1.000 persone provenienti dal Libano (profughi siriani) e dal Marocco (migranti provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana in fuga da situazioni di rischio per conflitti, terrorismo, instabilità politica, povertà, carestie, siccità).

Un modo per rispondere anche alla domanda sulla nostra sicurezza

La lista dei possibili beneficiari dei corridoi umanitari viene vagliata dal Ministero dell’Interno, previa individuazione e segnalazione dei casi più bisognosi di tutela da parte del personale della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e della Tavola Valdese, presente nei Paesi coinvolti nel programma. Il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale effettua quindi i controlli necessari per la concessione dei visti.

Accoglienza e Integrazione

La Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese si occupano dell’accoglienza dei beneficiari al loro arrivo in Italia, garantendo alloggio e assistenza economica per il periodo di tempo necessario all’espletamento dell’iter della richiesta di protezione internazionale. I fondi per i corridoi umanitari vengono dall’8×1000 della Tavola Valdese, da donazioni private e dalla Comunità di Sant’Egidio attraverso il 5×1000. Il sistema di accoglienza e di integrazione, che coinvolge organizzazioni di volontariato in più di 10 regioni, è parte fondamentale del progetto.

Un modello replicabile

I corridoi umanitari sono un progetto pilota che dimostra come, utilizzando gli strumenti legislativi già a disposizione dell’Unione Europea, si possono garantire ingressi regolari scongiurando rischiosi “viaggi della speranza”. Un progetto quindi replicabile in altri Paesi insieme alla società civile, un modello di solidarietà che è sicuramente un vanto per l’Italia, come ha sottolineato anche Papa Francesco: “Guardo con ammirazione all’iniziativa dei corridoi umanitari (…) sono la goccia che cambierà il mare”.

Coinvolgere e valorizzare il ruolo della società civile nella gestione di una crisi che è globale non solo perché riguarda tutti i Paesi del mondo, ma perché riguarda TUTTI.”

Gli stessi concetti sono ribaditi anche dalle organizzazioni della società civile che collaborano:

Si tratta di un progetto-pilota, il primo di questo genere in Europa, e ha come principali obiettivi:

– evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini;

– impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre;

– concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo;

– consentire di entrare in Italia in modo sicuro per sé e per tutti, perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane.”

Lesbo

Riassumiamo: si parla di concedere l’accesso controllato, in modo da rispondere anche alla domanda sulla nostra sicurezza, solo a poche selezionate persone “vulnerabili”, provenienti da determinati paesi, scongiurando e evitando così i viaggi affrontati dalle persone in autonomia, e coinvolgendo la società civile nella gestione delle migrazioni. Questo modello sarebbe infine replicabile in altri paesi.

L’apertura e la disponibilità dei governi nell’attuazione di questo piano chiarisce un aspetto importante: quello che interessa e conviene alle economie dei paesi europei non è assolutamente il blocco totale delle frontiere ma la creazione di un meccanismo efficiente che permetta l’accesso programmato direttamente dai paesi di origine o di transito delle persone, intese come forza lavoro, in base alle esigenze mutevoli di queste economie. Le frontiere devono rimanere blindate per i/le migranti che decidono autonomamente di muoversi, porose (in entrata e in uscita) e controllate nei confronti del quantitativo di forza lavoro ritenuta necessaria.
La scelta arbitraria su chi è considerato necessario e 
benvenuto, o vulnerabile e rifugiato, deve rimanere fermamente in mano ai governi dell’Unione Europea. È quanto già applicato e previsto dall’accordo UE-Turchia. I/le siriani che non provano a raggiungere l’Europa e accettano di rimanere in Turchia possono sperare di essere tra i/le pochx fortunatx destinatx al ricollocamento, chi invece raggiunge le isole greche viene qui rinchiuso per mesi e anni in condizioni terribili e sarà deportato indietro. Inoltre, la creazione arbitraria della categoria di “migrante vulnerabile”, si inserisce perfettamente nell’operazione politica e mediatica di differenziazione tra migrante buono e cattivo, da accogliere o indesiderabile, strumentalizzando ancora una volta la violenza sulle donne, vittimizzando queste ultime insieme a bambini, anziani e persone non abili, per gestire i flussi migratori.

Calais

Chi in questi anni ha seguito e/o supportato le innumerevoli e durissime lotte delle persone migranti in Europa e alle frontiere sa che le loro rivendicazioni fondamentali sono sempre state la libertà di movimento e dimora e la possibilità per tuttx di ottenere i documenti di soggiorno incondizionati.

L’attuazione dei corridoi umanitari nega e cancella perciò innanzitutto queste rivendicazioni: basta con i viaggi autonomi e la pratica reale della libertà di movimento, niente più lotte per smantellare le leggi razziste e i dispositivi di controllo alle frontiere e nei paesi UE, il volersi spostare in un altro paese non potrà più essere una scelta individuale ma una concessione, che deve venire sottoposta alla valutazione e controllo delle autorità. I/le pochx fortunatx vincitori di questa lotteria umanitaria, che avranno pazientemente aspettato – spesso per anni – una risposta nei propri paesi o in quelli limitrofi, all’arrivo in Italia vedranno le loro vite gestite dalle varie associazioni caritatevoli.

Esprimiamo il concetto con ancora più chiarezza: si chiede alla cosiddetta società civile di togliersi dalla testa la possibilità di supportare le lotte autodeterminate delle persone migranti per la libertà di movimento, riconoscendosi l’un con l’altrx come persone complici e solidali che si battono insieme contro la comune oppressione, ma di schierarsi dalla parte degli stati come collaborazionisti per gestire insieme le migrazioni, e tutto questo sulla pelle di poche persone “salvate” e di una stragrande maggioranza di persone “sommerse”. Proprio l’approccio considerato “umanitario”, “realistico” e “pratico” giustificherebbe la scelta di collaborare ai piani di controllo sulle persone migranti.

Le persone in arrivo attraverso i corridoi umanitari non possono scegliere né il paese di destinazione né il luogo dove vivranno, e per lungo tempo vedranno la loro autonomia limitata dal controllo dei gestori dell’accoglienza. Non sorprende perciò che in tanti cerchino di fuggire e continuare il loro viaggio, come è successo a 17 delle 35 famiglie giunte lo scorso anno a Torino. Ovviamente i gestori si sono premurati di precisare che “nel momento in cui è successo la prima cosa che abbiamo fatto è segnalarlo alla Questura. Siamo stati noi, in tempo reale, a segnalarlo alle autorità” .

Purtroppo il modello è stato rapidamente ed efficientemente replicato in altri paesi, come era nelle intenzioni iniziali delle istituzioni.

Il 2 febbraio 2017 è stato firmato a Roma un memorandum tra Italia e Libia, per il contrasto all’immigrazione, che prevede il supporto tecnologico e finanziario al governo libico per l’attuazione di queste politiche, fornitura di mezzi e addestramento della guardia costiera libica e il finanziamento dei campi di concentramento.

Como

Tra luglio e dicembre 2017 abbiamo assistito ai primi effetti dell’applicazione di questi accordi: gli arrivi in Italia dalla Libia sono calati del 70%, più di 20.000 persone sono state intercettate ufficialmente in mare dalla guardia costiera libica e portate nelle decine di centri di detenzione nel paese, dove vengono torturate, abusate e assassinate.

Questa prima fase è stata appunto giustificata dall’obiettivo di fermare le partenze per evitare le morti in mare (cosa peraltro non vera, anzi in percentuale sugli arrivi le morti in mare sono aumentate nell’ultimo anno del 75% ) e smantellare le reti dei trafficanti che permettono ai/alle migranti di raggiungere l’Europa.

Nel novembre 2017 si è dato avvio alla seconda fase, anche in questo caso giustificando l’operato con motivazioni umanitarie. A partire dallo scandalo suscitato dalle immagini trasmesse dalla CNN sulle torture che avvengono nei lager libici, i governi europei e africani, riuniti nel summit di Abidjan in Costa D’Avorio, giungono nel novembre 2017 a un accordo per l’evacuazione dei campi di concentramento in Libia.

Nel solo mese successivo, a dicembre, voli charter quotidiani deporteranno 6.200 persone nei loro paesi di origine, portando il numero dei rimpatri “volontari” (come se fosse una vera scelta poter uscire da un lager solo accettando la deportazione) a 20.000 nell’arco del 2017.

Il compito di organizzare le deportazioni è svolto dall’O.I.M., l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, in collaborazione con i vari governi e con il finanziamento dell’UE.

A questo punto, dopo aver fermato gran parte delle persone e averle recluse in Libia, ecco che si può concedere uno pseudo “corridoio umanitario” definito come piano di ricollocamento, gestito dall’UNHCR, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Ai funzionari dell’UNHCR viene concesso l’accesso ai campi di concentramento (che vengono “ripuliti” in occasione di queste visite) per identificare e selezionare le persone che, secondo il Governo libico (in realtà, secondo gli interessi dei paesi UE), hanno diritto alla possibilità di chiedere il ricollocamento in un paese europeo. Queste persone appartengono a solo sette nazionalità: Eritrea, l’etnia Oromo in Etiopia, Iraq, Siria, Darfur in Sudan, Palestina e Somalia.

L’UNHCR inizia l’evacuazione di queste persone, che tuttavia non vengono portate in Europa ma solo trasferite nei nuovi campi in Niger, l’unico paese che ha acconsentito a ospitarli temporaneamente. A marzo 2018, su 1.020 persone portate in Niger, solo 37 erano state reinsediate in Francia, distribuite in piccoli gruppi in varie strutture ecclesiastiche, malgrado le promesse dei paesi UE di accogliere 24.000 persone nel biennio 2018/2019. A causa del mancato ricollocamento, il governo del Niger ha sospeso a fine marzo 2018 il programma e l’accoglienza delle persone provenienti dalla Libia.

Oltre al trasferimento in Niger, a dicembre 2017 si avvia il primo corridoio umanitario legale dalla Libia, grazie a un accordo tra i governi italiano e libico, l’UNHCR, e la Caritas.

«Questo è un giorno storico, per la prima volta è stato aperto un corridoio umanitario dalla Libia verso l’Europa» dice il ministro dell’Interno Marco Minniti che ha accolto sulla pista dell’aeroporto di Pratica di Mare il primo gruppo di migranti. «Questo è un inizio e continueremo con l’Unhcr secondo il principio di combattere l’illegalità per costruire la legalità. Per la prima volta, si è aperto un canale umanitario direttamente dalla Libia verso l’Europa e in questo caso verso l’Italia, per la stragrande maggioranza si tratta di donne e bambini. È una prima volta storica perché la Libia non aveva mai firmato la convenzione di Ginevra. Tuttavia, con la collaborazione del governo libico, che vorrei ringraziare, si è potuto aprire questo corridoio umanitario per accogliere donne e bambini che scappano dalla guerra, e che ora in Italia troveranno accoglienza e una mensa dove mangiare».

Minniti ha voluto ringraziare anche «chi ha acceso questa nostra iniziativa, ovvero il cardinale Bassetti, presidente Cei, che ha costruito con noi questo percorso. Per noi è solo l’inizio, ha concluso, continueremo a lavorare per i corridoi umanitari».

Le 162 persone arrivate in Italia con i primi due voli dello scorso dicembre sono state distribuite dalla Caritas in vari centri di accoglienza, come “Mondo migliore”, gestito dalla nota cooperativa Auxilium, la stessa che fino al 2015 aveva in appalto il CIE di Ponte Galeria a Roma e quello di Brindisi-Restinco, oltre a vari CARA, CAS e SPRAR.

In 5 mesi, solo 312 persone vengono trasferite in Italia, attraverso voli su aerei militari che atterrano all’aeroporto militare di Pratica di Mare, accolti dalle massime autorità, compreso lo stesso ministro Minniti, davanti alle telecamere, per mostrare il volto umano della civile Italia che salva le persone attraverso questi corridoi umanitari.

Altre 10 persone sono dislocate in un centro di transito in Romania.

Il conto che illustra la realtà dei corridoi umanitari nell’ultimo anno è presto fatto: 104.000 persone in meno sbarcate in Italia, decine di migliaia recluse nei lager, 22.000 persone deportate nei paesi di origine (il 99%), 359 ricollocate in Europa (l’1%).

Infine, il modello dei corridoi umanitari, proprio in questi giorni, il 12 aprile 2018, viene proposto all’intera Europa:

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), la UN Refugee Agency (UNHCR) e la Catholic Migration Commission (ICMC) hanno presentato un nuovo modello innovativo per l’accoglienza dei rifugiati in Europa.

Il progetto, co-finanziato dall’Unione Europea, ha concentrato le proprie ricerche su tre percorsi per l’ammissione dei rifugiati nell’Unione Europea. Il primo consiste nella sponsorizzazione delle comunità private, il secondo nel possesso dell’istruzione superiore e il terzo nei programmi di ammissione umanitaria.”

La stessa richiesta di permettere l’accesso in Europa attraverso un meccanismo di sponsorizzazione e canali umanitari, è stato avanzato dalla società civile europea:

Il 19 aprile a Roma le associazioni hanno lanciato la campagna “Welcoming Europe, per un’Europa che accoglie”, un’iniziativa di cittadini europei per chiedere alla Commissione europea di scrivere una legge comune europea sull’immigrazione e sull’asilo in particolare su tre punti: la creazione di canali umanitari per i rifugiati attraverso lo strumento della sponsorship, la protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e di violenze e la depenalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per le organizzazioni umanitarie che aiutano i migranti non a scopo di lucro.”

La prima proposta riguarda i richiedenti asilo, chiediamo che sia introdotta la sponsorship privata. Chiediamo cioè d’introdurre la possibilità, sulla scia dei corridoi umanitari realizzati in Italia, di avere un finanziamento per le sponsorship private”, spiega Claudia Favilli, docente di diritto europeo all’università di Firenze e socia dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. “I privati, le associazioni, le organizzazioni possono farsi carico dell’accoglienza di rifugiati e del percorso di d’integrazione dei rifugiati, come nel modello canadese”

Nel documento ufficiale di presentazione della campagna si legge:

La nostra campagna:

I governi nazionali stanno incontrando grandi difficoltà nella gestione dei flussi migratori. Molti di noi vogliono rendersi utili perché hanno a cuore quanti hanno bisogno d’aiuto. Milioni di persone si sono messe all’opera per dare una mano. Ora vogliamo essere ascoltati. Chiediamo un’Europa che accoglie! E chiediamo alla Commissione Europea di agire.

I nostri obiettivi:

1. I cittadini di tutta Europa vogliono supportare i rifugiati con programmi di sponsorship e offrire loro una casa sicura e una nuova vita. Vogliamo che la Commissione offra un sostegno diretto a gruppi locali e associazioni che aiutano i rifugiati beneficiari di un visto d’ingresso.” 

Tra i promotori dell’iniziativa ci sono: Radicali italiani, Arci, Asgi, Arci, Action Aid, A buon diritto, Cild, Oxfam, Fcei, Casa della carità, Cnca, Agenzia scalabriniana per la cooperazione e lo sviluppo, Legambiente, Baobab experience.

L’impegno della cosiddetta società civile non si ferma certo in Italia ed Europa: sempre più agisce nei paesi di origine e transito, affiancandosi alle politiche colonialiste e razziste dei governi. Varie ONG italiane hanno vinto il “bando governativo italiano – promosso da Aics, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ente del ministero degli Esteri – per operare per quattro mesi (febbraio-maggio 2018) nei tre centri di Tarek al Matar, Tarek al Sija e Tajoura, a cui seguirà a breve un ulteriore chiamata per dieci mesi in altri cinque centri lontani dalla capitale. Helpcode, Cesvi, Cefa, Cir, Fondazione Albero della Vita ed Emergenza Sorrisi sono le sei organizzazioni non governative attive in tali centri.” 

La Caritas ha invece annunciato l’ apertura con propri fondi di 300.000 euro di 2 campi in Niger, collaborando così allo spostamento del filtro applicato alle persone migranti sempre più vicino ai paesi di transito:

Tra gli scopi del progetto: dare informazioni ai migranti in transito e alla popolazione sui rischi del viaggio, fornire assistenza alle persone respinte alle frontiere d’Europa o rimpatriate da Libia e Algeria e realizzare due centri di accoglienza a Niamey e Agadez. Sono previsti corsi di formazione per le forze dell’ordine e la polizia di frontiera, per una ventina di operatori che lavoreranno nei centri, contributi per le spese di viaggio per i rimpatri, sostegno psicologico, aiuti alimentari e sanitari.”

Nel Niger sono già presenti 5 centri analoghi gestiti dall’OIM, dai quali nel 2017 sono state deportate 10.000 persone attraverso il rimpatrio assistito. 

Anche in Niger si comprende dai dati ufficiali come l’intervento delle agenzie internazionali e delle ONG abbia in realtà come conseguenza e obiettivo il dissuadere le persone dal continuare il viaggio.

Per concludere ricapitoliamo come funzionano questi corridoi umanitari:

– prima si crea consenso sull’apertura dei corridoi umanitari, con la giustificazione di evitare le morti in mare, presupponendo e avallando il blocco governativo dei viaggi autonomi delle persone migranti nel Mediterraneo e la creazione di centri chiusi (o falsamente “aperti” in quanto in luoghi isolati) dove contenerli

– poi si giustifica l’intervento e la collaborazione nell’attività di detti centri in Africa col pretesto di garantire i diritti umani e migliorare le condizioni di vita, che sono in realtà rese dalle autorità volutamente “infernali” come mezzo di dissuasione per chi ha osato sfidare le frontiere, e per costringerli ad accettare la deportazione. Si procede nei fatti con il selezionare alcune persone etichettandole come vulnerabili, mentre si informano le altre sulla pericolosità di continuare da sole il viaggio, convincendole dei benefici dei rimpatri volontari

– si gestiscono nei propri centri in Europa le persone che arrivano attraverso i corridoi umanitari, assicurando il controllo sui loro spostamenti

– ed infine si assicura in questo modo la complicità “dal basso” sul dispiegamento delle politiche europee di filtraggio delle migrazioni, scongiurando possibili convergenze delle lotte contro le frontiere tra autoctoni e migranti.

Si chiude così il cerchio della cooperazione tra la società civile e le agenzie internazionali (OIM, UNHCR) con i governi nella gestione statal-umanitaria delle migrazioni.

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