Le informazioni disponibili in rete sono poche ma sufficienti per mettere insieme gli elementi di una vicenda emblematica della serie stratificata di oppressioni che schiacciano i vissuti delle donne che decidono di migrare.
Stiamo parlando della storia di una ragazza diciannovenne proveniente dalla Nigeria, arrivata in Italia con la figlia di 18 mesi. Com’è evidente in un regime di frontiere serrate e sempre più fatte arretrare verso il Mediterraneo, prima, e verso i Paesi di origine e transito, poi, chi riesce ad arrivare in Europa presenta subito richiesta di asilo, anche solo per ottenere un pezzo di carta e organizzarsi la vita o la fuga altrove.
Non sappiamo e non ci interessa la motivazione dietro questa scelta, sta di fatto che questa ragazza decide di fare domanda di asilo e scattano subito le maglie del paternalismo di stato: viene trasferita in una struttura protetta per donne con figl* minori gestita dalla croce rossa italiana.
Anche qui si potrebbe scrivere un trattato sul ruolo infame della CRI nella gestione dei flussi migratori, limitiamoci a ricordare che sempre a gestione CRI è il campo per transitanti localizzato a Ventimiglia, vicino alla frontiera francese, più volte segnalato da chi lotta contro le frontiere e da ONG e associazioni che hanno recentemente indirizzato una lettera ai governi francese e italiano per segnalare la violazione dei diritti fondamentali delle persone in transito, anche dei minori.
Ma che importa, alla croce rossa viene data la gestione di una casa protetta per donne e minori nonostante la retorica buonista sulla “buona accoglienza”, in italia – come altrove – funziona che se fai domanda di asilo, vieni messo in un centro di accoglienza e devi attenerti al regolamento interno del centro.
Ti allontani? Diventi irrintracciabile e quindi per le autorità di polizia stai rinunciando di fatto alla domanda di asilo.
Vuoi andare a vivere da un’altra parte? Impossibile perché le questure sempre più (in particolar modo quelle di Milano, Roma e Bologna) non accettano la dichiarazione di domicilio, ma pretendono la residenza, una vera e non quella fittizia. Quindi se non puoi permetterti un regolare contratto di affitto o se nessuno dichiara di ospitarti, o ti compri una residenza finta oppure anche lì bye bye, irrintracciabile e niente procedura di asilo.
Ti lamenti di come ti viene imposto di vivere nel centro? Anche qui la repressione arriva fulminea: sono sempre più frequenti i casi di revoca dell’accoglienza, di procedimenti penali aperti per danneggiamento, violenza privata e lesioni, di trasferimenti forzati da un centro all’altro.
Così si articola un sistema infantilizzante e paternalista che impone alle persone in viaggio di vivere alle condizioni decise da chi detiene il potere, nell’attesa che sempre chi questo potere lo detiene si riunisca per valutare la veridicità delle storie che impone alle persone di raccontare di fronte a perfetti sconosciuti (i membri delle commissioni territoriali per il diritto d’asilo), persone bianche e privilegiate che sedute a un tavolo si passano le carte da cui dipenderà poi il rilascio di uno status di protezione.
Questa desolante panoramica c’entra ovviamente con la vicenda di cui stiamo parlando: la ragazza diciannovenne decide che al centro della CRI non ci vuole stare. Chiede di andarsene. Le fanno un TSO e la ricoverano coattamente nel reparto di psichiatria dell’ospedale “Versilia”. La figlia? affidata dal tribunale per i minori di Firenze ai servizi sociali. A quanto pare lei dal reparto sta protestando contro questa decisione, contro questo ricovero violento e – come sempre sono i TSO – autoritario, coercitivo e immotivato.
Tutto questo accade in un Paese che – al di là della rampante retorica razzista e nazionalista che infiamma gli animi dei più – si batte il petto per la famiglia, per la donna sposa e madre, contro la tratta, contro lo sfruttamento. Quando però la donna si ribella a questa spinta vittimizzante, viene dichiarata pazza, incapace di badare alla figlia. Subentrano le istituzioni che diventano immediatamente i soggetti più adeguati a decidere per lei, per la sua salute, per il benessere di sua figlia.
Niente di nuovo ovviamente, se pensiamo alla funzione di normalizzazione coercitiva che la psichiatria ha esercitato sui corpi delle donne e dei soggetti non binari e conformi alla norma sin dagli albori, a partire dalla diagnosi di isteria. Un brivido si aggiunge pensando all’entusiasmo di chi ha condiviso la dichiarazione della Società italiana di psichiatria in risposta a Salvini.
L’esito di questa vicenda è incerto, probabilmente non emergeranno pubblicamente ulteriori risvolti. La potenza della violenza delle istituzioni e delle frontiere però emerge con tutta la sua forza. Come sempre.
Puoi anche leggere un altro nostro contributo: “TSO (trattamenti sanitari obbligatori) – La repressione psichiatrica contro i migranti in protesta”