In Libia le condizioni di reclusione di decine di migliaia di persone sono in continuo peggioramento. I lager gestiti dal governo e dalle milizie sono strapieni delle persone respinte in mare dalla guardia costiera, con la collaborazione dell’Italia. Le proteste, rivolte, fughe sono frequenti ma sconosciute a causa della difficoltà a comunicare con l’esterno. Ad agosto avevamo raccontato della rivolta nel lager di Tarek al Matar e in altri campi.
Stamattina 9 novembre più di 200 persone hanno forzato i cancelli del lager di Al Furhaji Sebha e sono fuggite, riuscendo a superare le guardie che hanno sparato e ferito gravemente un ragazzo. Affamate, disperate e spaventate le persone in fuga si sono dirette poi lungo le strade di Tripoli cercando di raggiungere gli uffici dell’UNHCR, per chiedere libertà e la possibilità di lasciare finalmente l’inferno della Libia. Dopo qualche ora sono state però raggiunte e circondate tutte dai camion e dai militari dell’esercito libico, che le hanno riportate indietro nel centro di detenzione, compreso il ragazzo ferito.
Ora rischiano le ritorsioni delle guardie: le persone di altri campi si dicono preoccupate su quanto potrebbe accadere a chi viene ricatturato, e sicure che gli accadrà qualcosa di brutto. Raccontano che l’ultima volta, dopo un’evasione collettiva dal campo di Bin Keshir le persone che avevano continuato a protestare nelle strade erano state catturate dalle guardie e picchiate, trasferite in vari campi e in uno di questi un fuggiasco era stato ucciso con scosse elettriche.
La situazione nei lager in Libia è perfettamente conosciuta dalle agenzie internazionali come l’OIM e l’UNHCR e dai governi europei che hanno affidato ai libici il controllo delle migrazioni. Queste agenzie internazionali sono di fatto complici delle terribili violenze che avvengono in questi luoghi di segregazione e tortura. Da giorni le 230 persone di origine eritrea ( tra le quali ci sono 56 minorenni) recluse a Al Furhaji Sebha, contattando attivisti per i diritti umani e della diaspora eritrea in Europa e con alcuni giornalisti, avevano raccontato delle condizioni nel campo. Una lettera era stata inviata alle varie agenzie, a governi, Croce Rossa, Commissioni UE etc. senza che nulla avvenisse.
Il testo della lettera del 7 novembre:
”Scriviamo in relazione ai disperati appelli di aiuto che continuiamo a ricevere da 230 rifugiati eritrei in un centro di detenzione di Tripoli, Al Furghaji Sebha, gestito dalla polizia libica. Sono presenti circa 50 minori, molti sono molto malati. Ora tutti loro credono di essere stati lasciati lì a morire! Scriviamo perché, nonostante le brevissime visite degli operatori di IOM e MSF, i detenuti continuano sistematicamente a non ricevere cibo da parte della polizia libica, che sta minacciando di trasferirli in un altro centro di detenzione più nascosto e li picchia e li maltratta quando chiedono del cibo alla polizia.
Sono molto spaventati, affamati, malati e soffrono il freddo. Comprendiamo perfettamente che è probabile che voi siate a conoscenza di tutto questo, ma le condizioni sembrano essere seriamente pericolose per la vita di questi detenuti, alla polizia libica locale non ha importato di lasciare le persone per 10 giorni senza cibo o acqua pulita, fino a quando operatori dell’OMI hanno portato loro pochissimo cibo e coperte. Ma oggi sono stati lasciati senza cibo di nuovo dalla sadica polizia per tutto il giorno! Sono lasciati morire.
Comprendiamo che migliaia di rifugiati sono attualmente detenuti in condizioni orribili in molti centri di detenzione e tutti hanno bisogno di assistenza, ma questo gruppo di 230 Eritrei nel centro di Al Furghaji Sebha è stato registrato presso l’UNHCR dal gennaio 2018. Si trovano ad affrontare gravi problemi e abusi e sono attualmente in balia di una squadra di polizia violenta e sadica. Saremmo molto grati se la loro evacuazione potesse essere portata avanti con estrema urgenza.”
Ieri 8 novembre era circolato un nuovo appello urgente:
”L’emergenza nel centro di detenzione di Al Furhaji Sebha continua. #PortateliFuori !! Oltre 230 eritrei, tra cui 56 minori, sono affamati e malati. Dopo che MSF e OIM hanno portato del cibo “take away”, distribuito individualmente, negli ultimi tre giorni la polizia libica ha costantemente rifiutato di dare loro del cibo la sera e li ha lasciati senza cibo, dato che nessuna organizzazione ha fatto visita alla struttura.
Ieri la polizia ha minacciato i detenuti per fargli dire all’IOM che non gli piaceva il cibo “take away” e di mentire all’OIM affermando che preferirebbero che il cibo venisse affidato alla polizia e poi distribuito. Questo ovviamente con lo scopo di consentire alla polizia di esercitare il controllo sul cibo, diminuire quello consegnato ai detenuti e farne altro uso. I detenuti sono stati molto coraggiosi e hanno detto all’OIM il contrario. Hanno raccontato all’OIM le minacce della polizia e quello che avevano ricevuto l’ordine di dire. I membri dell’OIM hanno quindi parlato alla polizia separatamente e se ne sono andati. La polizia si è arrabbiata molto e ha picchiato i detenuti. Sono in condizioni terribili e perdono la speranza. Ora ci stanno chiedendo il massimo aiuto e pubblicità possibile. Per favore, scrivi all’UNHCR Libia, OIM Libia e MSF su messenger, su twitter e via e-mail per chiedere di dare la priorità all’evacuazione di questo gruppo vulnerabile di eritrei nel centro di detenzione di Al Furhaji Sebha a Tripoli che sono in balia degli abusanti agenti di polizia libici.”
Quello che avviene realmente nei campi di concentramento è stato raccontato, in un articolo pubblicato ieri dal giornale inglese Guardian, da un eritreo recluso nel centro di detenzione di Triq al Sikka, nell’area di Tripoli.
“Ho provato a raggiungere l’Europa all’inizio di quest’anno. Siamo rimasti sulla barca per 26 ore, nel mezzo del Mediterraneo, e un elicottero italiano è venuto a fare foto. Dopo questo, è comparsa la guardia costiera libica per riportarci in Libia, e ci hanno portato all’inferno. Da allora, sono stato in un centro di detenzione a Tripoli.
Ad oggi, le persone che sono qui ammalate sono state tre settimane senza farmaci per la tubercolosi, e ora pensiamo che tutti gli uomini e i ragazzi ce l’abbiano. I medici hanno smesso di presentarsi, si è interrotta la fornitura d medicine, e viviamo tutti insieme. Persino le guardie non si avvicinano a noi, e dicono agli altri di non avvicinarsi. Il posto in cui viviamo è simile a una caverna. Non ci sono finestre. Non c’è aria fresca. Condividiamo letti, tazze, quasi tutto. Per passare il tempo, preghiamo al mattino. Rimaniamo seduti. Dormiamo. È buio tutto il giorno.
Due settimane fa, un somalo si è ucciso prendendo la benzina da un generatore e dandosi fuoco. Il suo nome era Abdulaziz e aveva 28 anni. Aveva aspettato nove mesi per l’evacuazione. Era un brav’uomo: quando i funzionari dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) lo visitarono, chiese loro perché aveva passato così tanto tempo in prigione. L’ultima volta che sono venuti, ci ha detto che l’UNHCR lo aveva respinto. Quindi ha preso la benzina. Aveva perso la speranza nel sostegno dell’UNHCR dopo aver atteso così tanto tempo per il trasferimento in un paese sicuro. Altri sette quest’anno sono morti a causa delle condizioni. Nessuno si assume la responsabilità per noi. Il nostro unico bisogno è lasciare la Libia, perché la Libia non ha governo. Sono eritreo, quindi non posso tornare a casa. Altre persone potrebbero avere una scelta, ma non eritrei, somali, sudanesi.
Nel frattempo i paesi dell’UE stanno giocando, specialmente l’Italia. L’Eritrea è stata colonizzata dall’Italia per un lungo periodo. Per la gente eritrea ancora non c’è libertà, e l’Italia l’ha plasmata direttamente o indirettamente. Il mio paese è una dittatura. Sembra che i paesi dell’UE non vogliano che gli africani si sviluppino, siano intelligenti, istruiti e così via. Ecco perché lo stanno facendo. Stanno uccidendo il nostro tempo, uccidendo il nostro cervello. È come la guerra fredda. Le nostre condizioni peggiorano sempre. Non c’è abbastanza cibo e la gente beve l’acqua della toilette.
E questo viene nascosto. Quando le persone esterne arrivano nei giorni di visita degli ospiti, le guardie ci danno del buon cibo, un buon ambiente, servizi igienici. Ma i rifugiati non hanno contatti con i visitatori, non abbiamo la possibilità di parlare loro dei nostri problemi. A volte li vediamo solo attraverso un piccolo foro nella porta. Quando l’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ci ha fatto visita quest’anno, sono passato attraversato le guardie con la forza e l’ho trovato, raccontandogli ogni problema nel centro di detenzione e chiedendo perché le evacuazioni erano cessate. Mi ha detto: “Conosco tutti i problemi”. Abbiamo parlato faccia a faccia. Dopo che se ne fu andato, le guardie mi picchiarono e mi minacciarono in modo che non lo facessi più. Da quel momento, non mi è mai stato permesso uscire o parlare con nessuna organizzazione. Ecco perché sono costretto a scrivere ora con uno pseudonimo.
Quando l’UNHCR e l’Organizzazione internazionale per la migrazione (OIM) ci forniscono cose come prodotti per l’igiene o coperte, scattano alcune foto. Poi, quando se ne vanno, le guardie la riprendono e vendono tutto. IOM e UNHCR conoscono questo gioco, ma non fanno nulla. Fingono come se non lo sapessero. A volte le guardie ci picchiano di fronte a loro e loro non le fermano. Veniamo forzati a chiedere alle nostre famiglie di inviarci denaro per cibo e prodotti per l’igiene. Arriva attraverso il mercato nero e le guardie si prendono il 40%. Altrimenti moriremmo. Recentemente abbiamo cercato di abbattere la porta e scappare insieme, ma non ce l’abbiamo fatta. Le guardie ci sono venute contro con pistole e catene.
Per tutto il tempo i libici che dovrebbero prendersi cura di noi pensano solo a come ottenere più soldi dall’UNHCR. Fanno film, mentono, fingono di gestire e aiutare i rifugiati. Quando sanno che i bianchi verranno, ripuliscono, nascondono le persone che sono in cattive condizioni e quelle che hanno picchiato. Se non rovinasse così tante vite, potresti quasi ridere del modo in cui fingono: potrebbero essere attori di Hollywood.
* Thomas Issak, un rifugiato eritreo”
Le “evacuazioni” dai lager, per la stragrande maggioranza delle persone, si traducono comunque in deportazioni e trasferimenti. L’OIM continua a deportare migliaia di persone nei paesi d’origine, attraverso gli pseudo “ritorni volontari”, in pratica un ricatto per accettare la deportazione pur di uscire dai campi di concentramento. L’UNHCR invece riporta indietro le persone nei campi in Niger, in attesa di un possibile futuro accesso a meccanismi di ricollocamento nei paesi europei, ricollocamenti che diventano sempre più un miraggio, come abbiamo spiegato in questo articolo.