Ieri, 28 dicembre 2018, 43 persone a bordo di una imbarcazione nei pressi di Pantelleria sono state intercettate da una motovedetta della guardia di finanza e fermate. Un ragazzo tunisino è stato fatto sbarcare a Pantelleria e portato in ospedale, le altre 42 persone sono state condotte nel porto di Trapani e da qui detenute nel CPR di Trapani-Milo.
19 anni fa: il 28 dicembre 1999, altre persone migranti dopo uno sbarco in Sicilia erano state portate nel CPT (Centro di Permanenza Temporanea) “Serraino Vulpitta” a Trapani. Questo campo di concentramento era stato da poco istituito, come altri 10, dalla legge “Turco-Napolitano” emanata nel 1998 dal Governo Prodi, con l‘appoggio e il voto favorevole di Rifondazione Comunista, dei Comunisti Italiani e della Federazione dei Verdi.
Dopo un tentativo di fuga, queste persone erano state catturate e rinchiuse in una cella, sprangata all’esterno con una sbarra di ferro. La protesta continua e si dà fuoco ad un materasso per essere liberati. I poliziotti invece non aprono la cella, non spengono l’incendio: muoiono bruciate vive 3 persone, altre 3 successivamente in seguito alle ferite, le altre rimangono ustionate. La morte di Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim è la più grave strage avvenuta nei lager italiani chiamati CPT, CIE o CPR. I processi relativi alla strage di stato hanno visto assolti tutti i responsabili istituzionali.
Questo il racconto di uno dei sopravvissuti, Amin:
“Salii su quella barca mezza allagata, con i bulloni del motore sparsi per tutto lo scafo…in inverno. Il mare era gonfio ed eravamo tantissimi a bordo. Fu un viaggio lunghissimo. Dopo essere sbarcati in Sicilia ci portarono prima ad Agrigento e poi a Trapani al CPT Vulpitta. Era un ex ospizio adattato a centro di accoglienza. Ma in pochi giorni capimmo che eravamo prigionieri e che non aspettavamo altro che essere rimpatriati. Mangiavamo tutti i giorni pasta e pomodoro e vivevamo in condizioni igieniche pessime. Io posso certificare che durante la permanenza nel CPT ho contratto la scabbia e ho avuto i pidocchi. Scoppiavano rivolte in continuazione, nessuno voleva tornare a casa dopo quel viaggio! Un giorno alcuni di noi smontarono un termosifone e riuscirono a trovare una via di fuga dal buco nel muro. Ci calammo usando delle lenzuola legate tra loro, ma l’ultimo della fila cadde rovinosamente e si fratturò un piede. Ci circondarono le guardie. Erano ragazzini, terrorizzati, come noi. Fummo tutti chiusi nuovamente nelle celle e la nostra fu sprangata dall’esterno con una grossa barra di ferro. Il più irrequieto del gruppo decise di appiccare il fuoco a un materasso per costringere le guardie ad aprire. Me lo sentivo che sarebbe andata male. Cercammo di convincerlo a non farlo, ma lui agì di testa sua. Riuscimmo a spegnere l’incendio una volta, ma la seconda il materasso diventò una torcia. Nella stanza c’era una certa corrente d’aria e in pochi minuti tutti i materassi, fatti di materiale sintetico, presero fuoco e poi anche le persone. Eravamo in dodici nella mia cella. Non c’era via di scampo. Le fiamme ci avvolsero completamente, uno per uno. Mi lanciai contro le grate della finestra. Le mani mi rimasero incollate al ferro rovente! Gridavamo aiuto. I due fratellini di quello che aveva appiccato il fuoco morirono abbracciati sotto una branda, carbonizzati, fusi tra loro. I poliziotti urlavano di non avere le chiavi e noi continuavamo a bruciare vivi. Poi vidi la porta che si sbriciolava, attraverso il fumo, e decisi di correre fuori. Non sapevo che c’era una sbarra di ferro a ostruire il passaggio. Caddi per terra colpito all’altezza del petto da quel ferro incandescente. Urlai a tutti di non tirarmi acqua addosso. Dentro la cella c’era ancora fumo e puzza di carne bruciata. Nessuno ci venne a salvare. Io non so che merito ho per essere sopravvissuto e perché gli altri sono morti. In sei sono morti. Alcuni dopo settimane di agonia in ospedale. Non c’erano neanche estintori. Ho gli incubi la notte. Non posso neanche andare al mare, mettere una canottiera, perché le mie ustioni mi ricorderanno sempre quella notte. Oggi ho un lavoro, grazie a Dio posso mantenere la mia famiglia, ho comprato anche un camioncino per fare le consegne e sto bene. Mia figlia non deve vivere come ho vissuto io”.
Nel CPR di Trapani Milo, che sostituì il lager di Serraino Vulpitta, e come negli altri CPR nelle ultime settimane, le persone recluse lottano per la libertà: il più recente tentativo di evasione collettiva di cui siamo a conoscenza – in un luogo isolato e dove purtroppo non si tengono iniziative di solidarietà in grado di stabilire contatti con i reclusi – è avvenuto lo scorso ottobre.