Traduzione da https://www.elsaltodiario.com/migracion/huelga-hambre-continente-tres-meses-espera
Uno sciopero della fame per arrivare alla penisola dopo tre mesi di attesa
Ieri, sabato 16 gennaio, più di 175 persone, la maggior parte delle quali provenienti dal Senegal, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il loro trattenimento a Tenerife.
Alcuni si trovano da tre mesi nell’hotel Tenerife Ving, una soluzione di accoglienza provvisoria dopo il loro arrivo via mare sull’isola. Il loro obiettivo continua a rimanere lo stesso di quando sono partiti dal Senegal mettendo a rischio la propria vita e passando svariati giorni di angoscia in mezzo al mare: ricongiungersi ai propri familiari in Spagna e trovare un lavoro. Però le settimane passano, e anche se molti dispongono del proprio passaporto, gli viene impedito di arrivare alla penisola dove si trovano i familiari che potrebbero ospitarli e sostenerli. Quando escono in strada sanno di essere esposti al rischio della detenzione, di finire in un CIE (Centro de Internamiento de Extranjeros – i nostri CPR) e di essere deportati. Per tutti questi motivi – dopo lunghe settimane di attesa e tre periodi consecutivi di quarantena dovuti all’arrivo di nuovi gruppi di persone – la mattina di sabato hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame, senza prevedere una data di fine. Questa mattina, secondo quanto comunicato a El Salto dall’hotel, una persona ha dovuto essere trasportata in ospedale per le conseguenze dello sciopero.
Khalifa Ibrahima Ndiaye è arrivato a Tenerife alla fine di ottobre. “Un miracolo”, assicura, dato che sul gommone, di piccole dimensioni, viaggiavano duecento persone. “Mangiavamo un piatto di riso e bevevamo un bicchiere di acqua al giorno”. Hanno avuto fortuna visto che ci hanno messo “solo” sei giorni ad arrivare. Nell’hotel, racconta, ci sono persone che ci hanno messo dieci, dodici giorni ad arrivare. Pensa anche a tutti quelli che si sono fermati lungo il cammino. Questo studente di diritto, che parla uno spagnolo perfetto, appare in un video nel quale, circondato da altri giovani senegalesi, spiega i motivi per cui ha scelto di smettere di alimentarsi come forma di protesta. Parlando con El Salto, racconta la frustrazione che si respira nell’hotel, una delle infrastrutture turistiche dove sono state distribuite le persone che arrivavano alle isole e il cui utilizzo come luogo temporaneo di accoglienza per i migranti ha suscitato critiche xenofobe e razziste. Però Ndiaye e le oltre 175 persone che si sono unite allo sciopero non desiderano stare in un hotel di Tenerife. “Qui ci danno da mangiare, possiamo dormire. Le lavoratrici della Croce Rossa ci trattano bene. Però non siamo animali, non vogliamo solo mangiare e dormire, siamo esseri umani, vogliamo lavorare, vogliamo essere liberi per avere una vita migliore”.
Da settimane, Ndiaye ha i soldi necessari per pagarsi un volo per la Spagna e ricongiungersi con la sua famiglia che lo sta aspettando a Huesca. Il suo progetto personale, come quello di tutti coloro con cui condivide la sensazione di limbo e la paura di essere rispedito al punto di partenza, si scontra con la ferrea volontà dello stato di impedire che chi arriva sulle coste delle isole Canarie (circa 22.000 persone nel 2020) prosegua verso il continente.
Il caso dei senegalesi è complesso perché non gli viene riconosciuto il diritto di asilo come avviene invece per coloro che arrivano dal vicino Mali – anche se sono stati denunciati rimpatri verso la Mauritania anche di cittadini maliani – e la Ministra degli Esteri, Arancha González Laya, è già andata in Senegal lo scorso novembre per negoziare con il presidente Macky Sall la ripresa delle deportazioni verso questo paese.
Ndiaye incolpa le autorità di Dakar di non aver mobilitato la diplomazia a Madrid per aiutare i suoi cittadini migranti bloccati nell’arcipelago. Persone che, dopo aver trascorso più di 60 giorni di detenzione, dovrebbero poter circolare senza paura della deportazione. Le critiche al governo senegalese per la sua indifferenza di fronte alla tragedia che colpisce gran parte della gioventù del paese, spinta all’emigrazione dall’assenza di futuro, ha generato lo scorso autunno un’ondata di proteste.
Però, da quanto racconta Ndiaye, lo sciopero intende interpellare il governo spagnolo. Spiega che, essendo la Spagna un paese democratico, si aspettavano un trattamento più umano. Non è solo una questione di solidarietà, ma di giustizia. “Come persone migranti, siamo venute a reclamare la nostra fetta della torta. Per secoli si sono portati via la ricchezza dell’Africa, ci hanno usato come schiavi. E ora ci respingono quando veniamo a lavorare dopo aver rischiato le nostre vite sui gommoni”.
Il giovane senegalese e i suoi compagni sperano di riuscire a dare visibilità alla situazione in cui si trovano. “Al governo spagnolo chiediamo di lasciarci arrivare alla penisola per ritrovare le nostre famiglie. Sia per coloro che hanno un passaporto in regola che per coloro che non ce l’hanno. Nessun essere umano è illegale”, racconta il pomeriggio di sabato, prima di passare la sua prima notte di digiuno. Per ora, i media senegalesi hanno già dato copertura alla protesta.