Tra il 22 e il 26 ottobre 2020 le regioni Lombardia, Campania, Lazio, Sicilia, Calabria e Piemonte hanno imposto un coprifuoco notturno dalle 23 alle 5 del mattino, come “misura urgente di contenimento del contagio” da Covid-19. Con il DPCM del 3 novembre 2020 il coprifuoco dalle 22 alle 5 è stato esteso in tutta Italia a partire dal 6 novembre. Inizialmente temporaneo, il provvedimento è stato rinnovato più volte ed è tuttora vigente, dopo quasi 5 mesi, senza che il suo rinnovo sia stato accompagnato da una effettiva valutazione, trasparente e pubblica, sulla sua reale efficacia nella riduzione dei contagi.
I media hanno ricordato l’ultimo caso di applicazione del coprifuoco avvenuto in Italia, durante la Seconda guerra mondiale: era il luglio del 1943, quando il maresciallo Badoglio, che era subentrato a Mussolini come Capo del Governo, aveva indetto lo stato d’assedio con la legge del coprifuoco, dalle 20 alle 6 del mattino. La disposizione prevedeva il divieto di uscire di casa dal tramonto all’alba, vietava le riunioni di più di tre persone, proibiva l’affissione di stampati e manifesti.
Tuttavia i media si sbagliano. Un coprifuoco di fatto, che comporta il divieto di uscita notturno, è stato imposto a partire dal 2015 nei confronti di persone assegnate a una determinata categoria giuridica e sociale: richiedenti asilo e rifugiatx che vivono nelle varie tipologie di strutture di accoglienza, e lavoratori e lavoratrici agricole immigratx, alloggiatx nelle tendopoli\campi di lavoro istituzionali.
I regolamenti interni dei centri di accoglienza per persone migranti da sempre prevedono severe misure di controllo: dal rientro obbligatorio notturno, alle firme di presenza fino a 3 volte al giorno, ai rigidi orari di distribuzione dei pasti, alle autorizzazioni necessarie per allontanarsi per alcuni giorni dai centri. Tutte misure che, se violate, portano alla perdita dell’accoglienza e in certi casi anche al respingimento della domanda d’asilo.
Queste limitazioni delle libertà personali incidono pesantemente sulla vita quotidiana delle persone coinvolte. Non è possibile cercarsi un lavoro serale o notturno (dato che molti lavori vengono effettuati a nero, e quindi senza un contratto per giustificare l’uscita), né spostarsi facilmente per lavorare nei dintorni. Non si può socializzare con la comunità circostante, frequentare attività culturali serali, organizzarsi tramite riunioni e iniziative sindacali o politiche, o semplicemente passare del tempo con affetti, conoscenti e amici. Di sera, una persona che è costretta a vivere nei centri e campi per immigrati, per le autorità diventa automaticamente “socialmente pericolosa”, e questo rafforza la ghettizzazione istituzionale delle persone immigrate, dunque lo stigma sociale, e limita le possibilità di migliorare la propria esistenza. Per questi motivi sono state frequentissime le proteste portate avanti in questi anni, e ad ogni protesta è seguito il coro razzista di politici che chiedevano ulteriori strette repressive e controlli sugli immigrati.
Purtroppo di queste comuni e diffuse misure quasi mai si è parlato e men che meno sono state criticate e contrastate, se non dalle persone direttamente interessate, tranne in rari casi quando la “stretta” è giunta da istituzioni come le Prefetture o gli enti locali.
Ad esempio nel settembre 2015 nei centri di accoglienza in Veneto fu imposto un coprifuoco notturno dalla Prefettura. “I rappresentanti del governo in Veneto hanno deciso di imporre una sorta di coprifuoco. Infatti alla caserma Serena di Casier (Treviso) e all’ex convento Costagrande di Grezzana (Verona) i migranti devono rientrare negli alloggi entro le 20, alla base di Cona (Venezia) alle 21, alla Prandina di Padova alle 23,15.Adottiamo limitazioni di orario previste dalla normativa statale, che ci consente di imporre agli ospiti regole di accesso, entrata e uscita dal centro di accoglienza — conferma il prefetto di Treviso, Laura Lega —. Siamo rigorosi nell’applicazione di queste disposizioni generali, che contemplano il pernottamento dentro la struttura di riferimento. Ogni prefettura può adottare l’orario che ritiene più opportuno, a seconda della necessità e dell’ubicazione del presidio di accoglienza
Una minima risonanza sui media si ebbe anche nell’ottobre del 2018 quando la Prefettura di Firenze emanò una circolare che prevedeva che “a decorrere dal 1° novembre 2018 gli ospiti (dei centri di accoglienza) dovranno rientrare nelle strutture entro le ore 20 e permanervi fino alle ore 8,00 successive”.
Nell’attuale crisi sanitaria ed economica mondiale il dibattito sui media si è concentrato sull’opportunità di chiamare o meno “Coprifuoco” la misura di obbligo di rientro notturno a cui siamo sottoposti. Più che interrogarsi sull’efficacia in termini sanitari si è sottolineato il sapore “bellico” della parola e sconsigliato l’utilizzo.
Lasciamo sullo sfondo le immagini di un convoglio militare che, colmo di cadaveri, attraversa nella notte una città immersa nella paura e quelle del generale Figliuolo, onnipresente in tv, dopo un anno di sacrifici, solitudini, difficoltà e lutti: chiediamoci se il coprifuoco che viviamo da 143 giorni ha ridotto i contagi o è una forma di disciplinamento che ci avvicina alla rassegnazione.
Da casa si può andare a lavoro, resta giusto il tempo per fare la spesa e tornare a casa.
Chiediamoci perché, anche in “zona bianca”, è una misura che permane modulata alla chiusura di bar e ristoranti.
È importante sottolineare come, nel dopoguerra, l’uso del coprifuoco sia stato quasi esclusivamente adottato come misura repressiva. Il coprifuoco era una delle misure preconizzate dalla dottrina della “guerra contro-insurrezionale”. Fu attuato dal governo francese durante la battaglia d’Algeri nel 1957, e di nuovo nelle città metropolitane francesi nel 1961, quando il governo francese decretò un coprifuoco per le persone di origine algerina (e più in generale i francesi musulmani), tra le 20,30 e le 5,30 del mattino. Il 17 ottobre 1961 una manifestazione contro il coprifuoco fu repressa con un massacro, con centinaia di persone assassinate. Venne imposto anche nel 2005 in alcuni quartieri delle città francesi, dopo la rivolta delle banlieues. Il coprifuoco fu indetto in Egitto nel 2011, durante la rivolta contro il regime di Mubarak, e di nuovo nel 2013 per arginare le proteste contro il governo Morsi. Negli USA è ormai una misura consueta di contrasto delle tensioni sociali, ed è stato applicato a Ferguson nel 2014, a Baltimora nel 2015 e in varie città nel 2020, in tutti i casi dopo le proteste contro le uccisioni di persone afroamericane da parte della polizia.
Forse attendere la “naturale” dissoluzione del coprifuoco con l’arrivo del caldo, la voglia diffusa di non stare chiusi tappati in casa, non impedirà allo Stato di reintrodurlo in qualsiasi momento, dopo averlo testato per quasi 5 mesi sulla popolazione intera del paese, e in precedenza, sulle persone immigrate.