Fonte: Comitato lavoratori delle campagne
Dall’altra parte del confine europeo, c’è chi chiede un pass per non morire
Ormai da quaranta giorni, davanti agli uffici dell’UNHCR di Tripoli, ci sono circa 4000 persone accampate in protesta che chiedono di essere evacuate immediatamente dalla Libia verso paesi sicuri. Molte ci sono arrivate dopo una serie di attacchi governativi iniziati il primo ottobre, veri e propri rastrellamenti dove almeno cinquemila persone, incluse intere famiglie con donne e bambini, sono state prelevate a forza dalle loro case o per strada, imprigionate nei centri di detenzione e sottoposte a violenze e torture. Dall’inizio del presidio, largamente ignorato dalle ONG così come dai media, gli episodi di violenza sono stati molteplici e quasi quotidiani: dalla morte di un giovane sudanese attivo al presidio, picchiato da uomini mascherati, agli attacchi delle guardie di sicurezza dell’edificio dove si trova l’ufficio dell’agenzia ONU.
Dopo la fuga di circa duemila persone dalla prigione di Al Mabani, la polizia ha sparato sulla folla uccidendo un numero imprecisato di persone (almeno 34) e ferendone centinaia, per poi ri-arrestarne moltissime. I sopravvissuti e gli sfollati hanno occupato le strade di fronte alla sede dell’agenzia ONU che dovrebbe occuparsi dei diritti dei rifugiati (l’UNHCR, appunto) e chiedono di essere registrati come rifugiati e di venire evacuati.
L’UNHCR, di fatto, sta a guardare, mentre l’UE finge di non vedere gli episodi delle ultime settimane, preoccupata solo dalla stabilità politica del paese, funzionale al controllo delle frontiere e al mantenimento di interessi economici (come si dirà oggi a Parigi alla conferenza per “stabilizzare la Libia”), tra cui quelli di Eni in testa. In poche parole, il gas deve passare, le persone soltanto opportunamente e brutalmente selezionate, pronte per essere poi sfruttate nelle campagne del Made in Italy.
Le imbarcazioni di chi prova a raggiungere le coste italiane continuano ad essere respinte dalla guardia costiera libica e la quasi totalità di chi ri-sbarca in Libia dopo aver fallito la traversata viene imprigionato. Tutto ciò accade leggittimizzato dal governo italiano (e dalla commissione europea), che con il Memorandum d’Intesa siglato nel 2017 con il governo libico (ma ricordiamo che si tratta di una politica che affonda le sue radici nell’era degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi) di fatto hanno un ruolo chiave nel respingimento delle persone in mare, continuando a fornire ingenti finanziamenti alla guardia costiera libica, che poi è anche il soggetto che favorisce gli sbarchi illegali, a carissimo prezzo.
Sulla frontiera orientale dell’Unione, intanto, tra Polonia e Bielorussia, la follia della violenza dei confini ha già ucciso decine di persone rimaste intrappolate e ibernate nelle foreste verso cui vengono respinte dai soldati polacchi. E’ di due giorni fa la notizia di 50 persone arrestate al confine per aver rotto e superato la recinzione di filo spinato; e mentre i soldati polacchi sparano, quelli bielorussi impediscono a chi scappa di tornare indietro. Anche qui, i migranti sono oggetto di un crudele mercato politico. L’Europa punta il dito contro il despota bielorusso Lukashenko, accusato di usare i migranti come arma umana per vendicarsi delle sanzioni europee. Sulla sorte di chi sta lottando contro due eserciti e il freddo per sopravvivere non si esprime, se non per parlare di muri e di rimpatri forzati.
In risposta a queste drammatiche cronache in molte città le comunità della diaspora si sono mobilitate per protestare e mettere pressione ai governi europei finora rimasti in silenzio, nonostante siano i principali e conclamati responsabili – per conto dei grandi interessi economici di cui sono espressione – delle morti e delle violenze così come delle crisi economiche, politiche e climatiche che portano le persone a rischiare la propria vita per attraversare il mare o le foreste.
Ma il silenzio su quanto sta accadendo è troppo diffuso, una barriera di indifferenza che è tanto complice quanto assassina, da parte non solo delle istituzioni, ma anche della “società civile” europea, poche eccezioni a parte.
La flebile attenzione generale al momento, poi, è puntata sui confini orientali dell’Europa, e quasi non si parla di come la repressione delle persone immigrate continui anche dopo essere sbarcati sulle nostre coste. Al superaffollato hotspot di Lampedusa al momento sono rinchiuse 850 persone, arrivate nei giorni scorsi e destinate a passare per tutti i gironi infernali della burocrazia razzista che regola i meccanismi di richiesta di asilo in Italia e in Europa. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone sono prive di un documento per anni, condannate ai ghetti, alla precarietà, ai lavori in nero, alla strada o alla detenzione nei CPR o nelle carceri.
Solo un mese fa, proprio in Sicilia, a Campobello di Mazara, un ghetto dove vivevano centinaia di lavoratori braccianti africani giunti lì per raccogliere le olive è bruciato, uccidendo Omar, un lavoratore senegalese. Alle insistenti proteste dei suoi compagni, le istituzioni locali hanno risposto nell’unico modo che conoscono: repressione e poi prefabbricati in plastica, forniti proprio dalla stessa UNHCR in collaborazione con la fondazione IKEA. Praticamente un nuovo ghetto, ma istituzionale e non più abusivo (e quindi riservato a chi è in possesso di documenti, gli irregolari si arrangino), dove i lavoratori continuano a vivere segregati in scatoloni che saranno nuovi e scintillanti per una stagione, il tempo di fotografarli e sbandierarli come soluzioni abitativa dignitosa. La stessa UNHCR che caldeggia la creazione di un sindacato di lavoratori agricoli immigrati si tappa occhi orecchie e bocca, dalla Libia alla Sicilia, quando quegli immigrati e quei lavoratori pretendono il minimo riconoscimento, quello di potersi spostare e fuggire da guerra, povertà, stupri, abusi e torture, e di vivere senza essere segregati in regime di apartheid a seconda del profilo giuridico, in luoghi in tutto e per tutto simili alle baraccopoli che periodicamente vengono smantellate, ma decisamente più controllati.
E che dire di chi una volta arrivato viene obbligato a vivere in un centro di accoglienza o imprigionato in un CPR, e se prova a ribellarsi viene arrestato, deportato, processato? La repressione e le violenze che iniziano ben prima dei confini costituiti da barriere e filo spinato, continuano ben oltre, dalla fase della cosiddetta “accoglienza”, ai magazzini e ai campi, fino alle piazze dove da anni immigrati e solidali manifestano per chiedere documenti per tutti.
Il gioco perverso della macchina umanitaria di UNHCR e di chi li sostiene deve essere smascherato e fermato. Contro confini e sfruttamento, l’unica strada è la lotta.