Eboli (SA) – I padroni sfruttano, lo stato sgombera

fonte: lapiega.noblogs.org

[Riceviamo e pubblichiamo]

Giovedì 4 aprile alle 5 di mattina, prima del sorgere dell’alba, su ordine della Procura di Salerno, è iniziata un’operazione di polizia in località Campolongo, nella zona litoranea del Comune di Eboli (Salerno). Con l’ormai consueto e sproporzionato dispiegamento di forze dell’ordine utilizzato in questi casi, circa 200 unità tra Polizia, Carabinieri, e Guardia di Finanza, affiancati da decine di mezzi, compreso un elicottero, hanno sgomberato un insediamento in cui vivevano un centinaio di persone immigrate, tra cui alcune famiglie con bambin*.

Gli agenti hanno prima circondato completamente l’insediamento e bloccato le strade adiacenti, deviando il traffico su strade interne. Hanno poi perquisito una per una tutte le strutture (casupole, roulotte, baracche, un vecchio bus) e identificato le persone che ci vivevano. L’operazione si è protratta fino al pomeriggio, per diverse ore: tutte le persone sono state cacciate via dai loro alloggi e buttate in strada, le strutture sono state sigillate e poste sotto sequestro. Il proprietario italiano dell’area è stato fermato con l’accusa di furto di corrente elettrica e sfruttamento della manodopera clandestina. Due bambin* sono stati sottratt* ai loro papà e, in assenza delle madri e di “verifiche”, affidat* ai servizi sociali.

I media locali riportano acriticamente la stessa velina (https://www.lacittadisalerno.it/cronaca/eboli-minori-nei-tuguri-scatta-il-blitz-all-alba-1.2192728) delle autorità, scrivendo del degrado in cui versavano gli alloggi, di presunti giri di prostituzione e spaccio che avvenivano nella zona, di 7/10 persone fermate sulle circa 100 presenti (quasi tutte africane) perché senza documenti in regola, le quali subiranno probabilmente l’espulsione. Difficile per ora trovare altre notizie sui media, e soprattutto difficile che siano riportate notizie veritiere. Soprattutto nessuno si è interrogato, nel pubblicare la notizia dello sgombero, sulla sorte delle persone sgomberate: cento persone rimaste all’improvviso senza un tetto è un evento che non merita riflessioni o domande (https://www.youtube.com/watch?v=cj0rsbtNHTg). Il perché è presto svelato potendo parlare, il giorno dopo lo sgombero, con alcune delle persone che lo hanno subito, a Campolongo, dove c’è ancora un via vai di braccianti che tornano dal lavoro e di auto dei Carabinieri a controllarle le casupole ormai vuote.

Sì, sono venuti in tanti e ci hanno controllato i documenti, noi ce li abbiamo tutti, siamo regolari, lavoriamo nelle campagne. Hanno controllato le nostre case, non so perché, ma non hanno trovato niente. Gli abbiamo dato anche i contratti di affitto, paghiamo ogni mese dai 200 ai 300 euro per vivere qui. Ma ci hanno mandato via lo stesso tutti, sotto la pioggia. Io ho potuto prendere solo un paio di borse, per fortuna sono riuscito a trovare un posto dove dormire qui vicino

Un’altra persona racconta: “Sono arrivati alle 5 di mattina, era buio, c’erano tutti, la polizia, i carabinieri, tutti. Ci hanno detto che il proprietario non pagava l’acqua e la luce, ma questo non dipende da noi, noi gli pagavamo l’affitto. Abbiamo avuto un’ora per lasciare le nostre case, solo un’ora, tutti sono dovuti andare via, abbiamo potuto prendere solo poche cose, siamo dovuti andare in strada. Ora ho paura che qualcuno rubi ciò che avevo lasciato, perciò sono ancora qui. Non so se hanno portato via altre persone senza documenti. Questo sgombero l’hanno fatto con noi perché siamo africani, con gli italiani non avrebbero fatto così. Nessuno ci aveva avvertiti prima, avremmo cercato un’altra casa. Adesso devo cercarmi una casa, qui è difficile trovarla, non vogliono affittarci le case. Qui sono tutti d’accordo, qui c’è la mafia e il razzismo. 

Da queste parole emergono le testimonianze di uno sgombero quasi surreale: dopo aver controllato i contratti di affitto delle persone e dopo aver a lungo perquisito le loro abitazioni (evidentemente in cerca di elementi d’accusa), pur non avendo trovato nulla, hanno semplicemente apposto i sigilli alle case e costretto le persone ad allontanarsi. Nessun preavviso di sgombero, neppure la possibilità d’avere un po’ di tempo per trovare una nuova abitazione o di recuperare i propri oggetti personali all’interno delle case, in quella che sui giornali è stata definita come mini-baraccopoli; un centinaio di persone, bambin* compres*, sono stat* scacciat*, sotto una pioggia scrosciante e senza alcuna soluzione alternativa. Se pure sono stati scoperti allacci di energia elettrica ed acqua abusivi, ciò non implica nessuna responsabilità da parte delle persone che vi abitavano, che avevano un contratto e pagavano regolarmente l’esoso canone di affitto e che, però, hanno subito le durissime conseguenze di uno sgombero.

Un’altra cosa molto chiara sottolineata dai braccianti è che tutto quello che è accaduto è stato possibile solo perché le persone sgomberate sono africane e non italiane, dandoci così una spiegazione molto semplice del razzismo istituzionale che governa il territorio. Mentre le imprese fanno affari con lo sfruttamento lavorativo delle persone migranti e proprietari di alloggi si arricchiscono con gli affitti in nero c’è lo Stato che interviene nei fatti a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita delle persone immigrate e a perpetuare così ogni sorta di abuso e sopraffazione. Quando si parla di degrado pensiamo proprio a questo, alla costante repressione e alle varie forme che assume lo sfruttamento, alla estesa complicità delle istituzioni e delle varie forze politiche. Continua a leggere

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Milano – Sabato 6 aprile incontro contro la prossima apertura del CPR di via Corelli

Fonte: Punto di Rottura

Milano: sta per riaprire un lager per immigrati

A giugno 2019, il CPR di via Corelli a Milano sarà riaperto.

I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono lager in cui vengono rinchiusi gli immigrati senza documenti per essere poi deportati nei loro Paesi d’origine. Si tratta di una segregazione su base razziale che utilizza pestaggi, psicofarmaci, stupri e violenze di ogni natura come strumenti di controllo dei reclusi. TUTTO CIÒ È INACCETTABILE.

Il CPR fa parte di un programma che parte da lontano: fu la “legge Turco-Napolitano” (1998) a istituire questo genere di reclusione amministrativa, riaggiornato l’altr’anno con la “legge Minniti-Orlando” e infine ripreso dal governo Lega-M5S con un ulteriore inasprimento nel segno dell’odio razziale e della guerra ai poveri.

L’applicazione della “legge Salvini” su sicurezza e immigrazione colpisce tutti coloro che non stanno alle regole di questo giogo truccato in cui vince sempre chi comanda. L’introduzione di norme sempre più complesse per ottenere i documenti d’immigrazione e il potenziamento del controllo e della repressione hanno lo stesso scopo: limitare la libertà di chiunque, italiano o straniero che sia, e ridurre, fino a eliminarla, ogni espressione di scontento, protesta, lotta.

Vogliamo:

– ricordare le battaglie del passato contro i lager per immigrati, che li hanno fatti chiudere

– discutere della situazione presente

– per iniziare a organizzarci contro il nostro nemico comune.

Troviamoci perciò sabato 6 aprile 2019
dalle ore 15,30, in piazzale Gabriele Rosa
per passare un pomeriggio insieme e confrontarci sui CPR e sulla “legge Salvini”.

Video sulle ribellioni degl’immigrati reclusi, opuscoli e libri che vale la pena di leggere. Poi la merenda!

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Francia – Distruggiamo i CRA! Manifestazione per la libertà dei/delle reclusx nei centri di detenzione

Traduzione da: Paris Luttes

Domenica 31 marzo alle 14 alla metropolitana Croix de Chavaux (Montreuil): manifestazione contro i centri di detenzione e per la liberazione di tuttx!
Portare qualcosa per fare rumore.

Lo scorso mercoledì è iniziato un nuovo movimento collettivo nel centro di detenzione di Vincennes (CRA1): sciopero della fame, sciopero dell’ASSFAM (l’associazione che fornisce le informazioni legali all’interno) e dell’infermeria ( vale a dire, rifiuto collettivo di presentarsi).
La sera di giovedì 21, c’è stato il primo presidio spontaneo, che consiste nel radunarsi davanti al CRA e fare rumore per comunicare con i detenuti e mostrare loro che stiamo mostrando solidarietà all’esterno. Un secondo presidio selvaggio si è svolto il pomeriggio di domenica 24, per sostenere i prigionieri all’interno. In questa occasione furono arrestati due compagni italiani.
Questa domenica, 31 marzo, sarà passata una settimana dalla reclusione di Andrea e Gabrio. Accusati di aver istigato la ribellione, sono tenuti prigionieri…nello stesso CRA de Vincennes: la prefettura ha dato prova di ironia.

Da più di tre mesi nei CRA si sviluppano lotte per migliori condizioni di reclusione, e contro la stessa detenzione. Scioperi della fame, rifiuto delle cure, sommosse, occupazione dei corridoi per impedire le deportazioni, incontri ed eventi si sono svolti all’interno dei CRA di Oissel, Vincennes,  Mesnil-Amelot, Pleasure , Lione, Rennes, Hendaye… Sono usciti molti comunicati dei prigionieri in lotta. C’è movimento un po’ dappertutto!

Ma c’è anche molta repressione: arresti, processi per direttissima, mesi di galera, la violenza della polizia decuplicata. All’esterno, ci siamo organizzatx per fare uscire le voci dall’interno, ma anche per portare un sostegno ai detenuti e fargli visita. Dall’inizio di gennaio sono state organizzate più di una dozzina di presìdi selvaggi a Vincennes, Mesnil Amelot, ma anche a Rennes, a Lione e a Sète.

Questa domenica, uniamoci contro i tentativi repressivi volti a isolare ulteriormente i/le prigionierx dal supporto esterno, come nel caso di due compagni arrestati. Ma anche e soprattutto per la liberazione di tuttx i/le reclusx, in solidarietà concreta con le lotte all’interno.

Affinché questi luoghi scompaiano, e con essi confini, rastrellamenti e politiche razziste:

Manifestazione 31 marzo alle 14 alla metropolitana Croix de Chavaux (Montreuil) alla fine della strada pedonale!

Libertà per Andrea, Gabrio e tuttx gli/le altrx! Abbasso i CRA!

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Malta – Sulla nave Elhiblu per fuggire dai lager europei in Libia: il coraggio punito con altra prigionia

Nella notte di martedì 26 marzo la petroliera ElHiblu I soccorre un barcone con a bordo 108 persone fuggite dalla Libia. Obbedendo a quanto richiesto dalla guardia costiera libica, la nave si dirige verso Tripoli. Mercoledì mattina, a pochi chilometri dalla costa, accorgendosi della destinazione, le persone migranti hanno cominciato a protestare, non volendo essere di nuovo recluse nei lager libici. Di conseguenza, l’equipaggio, composto da 6 persone compreso il capitano, decide di far rotta verso nord, in direzione di Malta. “Non c’è stata violenza, assolutamente” hanno dichiarato i membri dell’equipaggio, ma politici e media europei e libici, artefici e complici dei campi di concentramento dove migliaia di persone vengono torturate, affamate, stuprate e uccise, hanno subito gridato scandalizzati al “dirottamento” e alla “pirateria”.
La scorsa notte, in prossimità dell’isola, sono intervenute le forze speciali maltesi, affiancate da motovedette e un elicottero, prendendo il controllo della nave e conducendola nel porto di La Valletta.
All’arrivo,  103 persone (comprese 19 donne e 12 bambini) sono state portate da bus della polizia nel centro di detenzione per migranti di Marsa, eufemisticamente chiamato “Initial Reception center”. Altre 5 persone, probabilmente accusate di essere a capo della protesta, sono state invece fatte scendere ammanettate con fascette di plastica e sono state recluse nel centro di detenzione di Hal Safi.

L’arrivo delle persone sbarcate nel lager di Marsa

Nel campo di concentramento di Marsa sono ancora recluse le 47 persone sbarcate il 9 gennaio dalle due ONG Sea Watch e Sea Eye. Malgrado le promesse di ricollocamento nei vari paesi europei disposti ad accettarle, queste persone sono sequestrate da due mesi e mezzo dalle autorità maltesi. Per questo motivo dal 5 all’8 marzo avevano protestando ricorrendo ad uno sciopero della fame, rivendicando la fine della detenzione e l’avvio dei trasferimenti in Europa. La settimana successiva 13 persone erano riuscite a fuggire dal lager, e altre due durante un trasferimento in un ufficio. Solo 5 persone sono poi state riprese dalle forze di polizia maltesi, e riaccompagnate a Marsa.

Centro di detenzione di Hal Safi, Malta

Il campo di concentramento di Hal Safi è tristemente famigerato per le terribili condizioni di reclusione. È un’ex base militare, sotto la vigilanza dell’esercito, dove sono detenute le persone in attesa della deportazione. Nel gennaio dello scorso anno qui era avvenuta l’ultima rivolta delle persone recluse contro le condizioni di vita: 9 persone sono ancora sotto processo per questi fatti.

Quello della Elhiblu è solo l’ultimo caso che vede coivolte navi commerciali. Le navi in viaggio nella zona del Mediterraneo compresa tra la Libia e l’Italia, sono ormai da mesi complici nel respingimento dei/delle migranti. Violando l’articolo 33 della convenzione di Ginevra (che vieta i respingimenti verso paesi in cui la vita o la libertà dei/delle migranti sarebbero minacciate), quando intervengono nel soccorso di imbarcazioni in difficoltà, accettano di riportare le persone nei lager libici.
Ricordiamo la protesta che aveva visto protagoniste, nel novembre 2018, 95 persone a bordo del cargo Nivin giunto a Misurata: per più di 10 giorni si erano rifiutate di sbarcare, fino all’intervento delle forze di polizia libiche che le aveva riportate con la forza nei lager. Di loro si son perse le tracce.

Con questi precedenti, gli stati europei e la Libia cercano di ribadire un principio cardine della loro strategia per fermare i flussi migratori: quello di considerare la Libia un “paese sicuro” per legittimare così tutte le forme di respingimento in mare. Dall’altro lato, anche le compagnie di navigazione spingono per non ottemperare all’obbligo di soccorso e, quando costrette, cavarsi dagli impicci nel più breve tempo possibile, riportando le persone migranti nei lager, pur di non veder limitati i propri profitti.

Per questi motivi sarà importante non far cadere nel dimenticatoio la sorte delle persone sbarcate oggi a Malta: sulla loro pelle, condannandole e deportandole alla prima occasione, le autorità vogliono rafforzare politiche sempre più disumane.

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Francia – Due compagni italiani detenuti nel CRA di Vincennes a Parigi, dopo un presidio solidale

Riceviamo e diffondiamo. Per scriverci: hurriya [at] autistici.org

Ieri (24 marzo), dopo una due giorni di dibattiti e pranzi benefit in solidarietà con l’Asilo di Torino in alcuni luoghi solidali a Parigi, alcune compagne e alcuni compagni hanno dato vita a un presidio davanti al Cra (il Cpr francese) di Vincennes. Il presidio era stato chiamato in solidarietà con lo sciopero della fame cominciato mercoledì nella prigione per stranieri, con decine di detenuti coinvolti che hanno deciso di dormire nel cortile per protesta, rifiutando il cibo, le cure all’infermieria, il sostegno giuridico dell’associazione che interviene nel centro.

Durante il presidio siamo riuscitx a parlare con i prigionieri, abbiamo gridato slogan contro i CRA e per la liberazione di tuttx, e i prigionieri hanno risposta al grido di “Liberté”. Dopo alcuni minuti le guardie del Cra sono uscite per allontanarci, sguinzagliando i cani e usando gas lacrimogeno. Gli sbirri sono saltati addosso a due compagni, entrambi italiani, gettandoli violentemente al suolo. Il tentativo di liberarli è stato vano, e mentre gli/le altrx compagnx venivano inseguitx per tutto il quartiere i due compagni sono stati condotti in commissariato.

Oggi lunedì 25 è stato chiamato un presidio davanti al commissariato in cui erano rinchiusi. I e le solidali hanno scoperto che, nel mentre, i due compagni arrestati erano stati spostati… al Cra di Vincennes, la stessa prigione per migranti dove sono stati catturati. L’accusa è di minaccia all’ordine pubblico, per cui è stato emesso un foglio di via di 3 anni dalla Francia. Per ora non è stato ancora previsto un volo per deportarli in Italia. Abbiamo potuto parlare con i compagni, il morale è alto.

La macchina delle espulsioni è versatile, e viene utilizzata nuovamente per reprimere chi lotta contro i centri per stranierx e le frontiere (tre compagne italiane erano già state imprigionate in Cra nel 2016, durante un’azione a Calais).

Vogliono isolare ancora di più le persone detenute, e rompere qualsiasi forma di solidarietà dall’esterno. Vogliono spaventarci, ma non ci riusciranno: che sia perché non si hanno i “documenti giusti” o perché ci si oppone al sistema razzista che produce sfruttamento e imprigionamento, i Cra e tutti i loro simili vanno distrutti. Continueremo a batterci perché ciò accada, e a sostenere chi, da dentro, si ribella.

A bas les Cra! Liberté pour tou.te.s!

Per aggiornamenti, abaslescra.noblogs.org oppure paris-luttes.info

 

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Francia – Sciopero della fame e presidio solidale al CRA di Vincennes

Domenica 24 marzo, durante un presidio non autorizzato davanti al centro di detenzione amministrativa (CRA) di Vincennes per comunicare con i reclusi, due persone sono state fermate dalla polizia e poste sotto custodia cautelare. Nel CRA i detenuti sono in sciopero della fame da mercoledì.

Qui di seguito i comunicati inviati dalle persone in sciopero della fame.

Comunicato del CRA 1 di Vincennes in sciopero

Traduzione da: A Bas les CRA

“Diremo quali sono i motivi dello sciopero della fame. Tre mesi qui sono peggio della prigione. Siamo in un centro di detenzione ed è peggio della prigione. Perché qui abbiamo un piede dentro e un piede fuori, dal momento che da un momento all’altro possono espellerci. Ci sono persone che stanno dentro da oltre 60 giorni… È troppo così.
È necessario che chi sta fuori manifesti per questo.
I bagni fanno schifo. Il mangiare è immondo, la maniera in cui ci portano in tribunale, in gabbia, è impossibile. Le persone malate sono lì… è tutto davvero deplorabile.
È un centro di merda, ci hanno messo dentro un centro di detenzione di merda qui.
Noi siamo dentro un centro che definiscono una prigione, ma si direbbe che è peggio qui. Non abbiamo diritto ai nostri telefoni, solo a telefoni che non possono scattare foto. Non possiamo nemmeno comunicare con WhatsApp perché ci hanno privati di tutto questo. Mangiamo troppo male, beviamo l’acqua del rubinetto. Le loro fontane d’acqua sono piene di ruggine.
C’è gente malata, di tubercolosi, di AIDS, di epatite… c’è di tutto qui. C’è un ragazzino qui che è pazzo.
Non abbiamo il diritto di manifestare qui, ci sono delle persone che sono sposate qui eppure le hanno rimpatriate nei loro paesi. Gli mettono dello scotch, li legano e altre cose del genere. Li spediscono con la forza eh. Prima di salire nell’aereo gli mettono lo scotch, come una maschera. Abbiamo queste informazioni da amici che sono stati deportati nel loro paese . C’è pure qualcuno che è riuscito a uscire dal CRA.
C’è uno che hanno picchiato e non doveva essere espulso. L’hanno picchiato proprio perché non sono riusciti ad espellerlo.
Utilizziamo una forbice per capelli in cento persone, un taglia unghie per tutti.
Qui c’è pieno di furti, soldi e tutto.
Ci sono anche discriminazioni, mettono zizzania tra arabi e neri. E poi la maniera in cui li trattano i neri!
Si mettono più neri in un settore, in una stessa stanza. Questo ha creato conflitti. Uno dei nostri è stato portato all’ospedale e ha cambiato il CRA. È la strategia della polizia di metterci in conflitto. Quando vogliamo rivendicare qualcosa non ce lo permettono. Loro dicono che non hanno mai colpa, che c’è una gerarchia e sono obbligati a rispettarla. I giudici fanno parte del gruppo della prefettura, perché quando tu prendi un avvocato privato vieni liberato, ma quando è d’ufficio non c’è nessuna liberazione.
Il cibo non è halal.
Tutti si lamentano della stessa cosa, quando la scadenza si avvicina si inventano qualche cosa (tipo andare a parlare con la tua ambasciata) e quindi ti prolungano la detenzione. Così prendi il massimo della pena. Quando vedono che ti restano uno o due giorni, ti fanno qualche cosa e così il giudice ti allunga la pena dicendo che non hanno avuto il tempo di farti viaggiare ma che la procedura è in corso.
Alla prima sentenza ti danno la pena massima di 28 giorni, poi fanno di tutto per prolungartela.
Quando tu sei un francese, ti danno la pena massima, allora è finito tutto. Non per noi.
Gli chiediamo di migliorare la situazione dei detenuti nel più breve tempo possibile. Non abbiamo bisogno di 3 mesi per lasciare il paese. Nemmeno di 28 giorni. È per questo che facciamo lo sciopero della fame, preferiamo morire piuttosto che attendere le cose. Si direbbe che è un centro senza scadenza.
Siamo là in una condizione deplorevole, disumana. Non possiamo sopportare 3 mesi. È per questo che scioperiamo”.

Lettera collettiva del CRA 1 di Vincennes in lotta

Traduzione da: A Bas les CRA

Saluti, Continua a leggere

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Nuova Zelanda – Terrorismo nero nella terra della lunga nuvola bianca

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dalla Nuova Zelanda. Riteniamo che le informazioni e le considerazioni riportate possano aiutarci a comprendere la situazione nel paese oltre le poche notizie comparse (brevemente) sui media dopo la strage di Christchurch.
Per scriverci e inviarci contributi hurriya[at]autistici.org

Aotearoa, il nome in lingua Māori per la Nuova Zelanda che significa “Terra della Lunga Nuvola Bianca”, ha subìto il suo primo attentato di natura fascista. Sono passati 5 giorni dall’attentato alle due moschee che ha causato la strage nella città di Christchurch e la risposta del paese è stata di solidarietà, shock e amore.

La Prima Ministra Jacinda Ardern, nella prima conferenza stampa dopo l’attentato del 15 Marzo, ha dichiarato “Questo non siamo noi” riferendosi al manifesto del terrorista fascista e al livello di violenza raggiunto.

Da una parte ha ragione, in queste due isole in mezzo dell’oceano Pacifico di solito non si vive una violenza di tale livello. Parte del trauma collettivo deriva da una violenza inimmaginabile per questo paese.

Per quanto la Prima Ministra, Jacinda Ardern, parli del giorno più buio per la Nuova Zelanda, ricordiamoci i secoli di colonizzazione.

Contesto storico politico

La prima nave europea ad arrivare sulle sponde di Aotearoa nel 1642 era dell’olandese Abel Tasman. Ma solo agli inizi del 1800 i primi Europei cominciano a stabilirsi. Nel 1835 la Nuova Zelanda si dichiara protettorato dell’Impero Britannico. Nel 1840 viene firmato Te Tiriti o Waitangi, il Trattato di Waitangi, il documento legale più vicino ad una costituzione che ha questo paese.

Te Tiriti o Waitangi, scritto in lingua Māori e Inglese, venne firmato da rappresentanti della corona inglese, guidati dalla Regina Vittoria e 540 capi di Māori, tra cui 13 donne. Nella versione nella lingua indigena I Rangatira (capi) consentivano di mantenere la loro autonomia e autodeterminazione sulle loro Iwi (tribù) e hapu (clan) e la corona inglese manteneva piena autonomia sui propri sudditi. La versione inglese dice ben altro e riconosce la Nuova Zelanda come parte dell’Impero Britannico con a capo la Regina Vittoria. Dal 1860, dal periodo delle guerre sanguinose e violente per la conquista delle terre Māori e fino ai giorni nostri, il trattato in lingua Māori è stato continuamente violato. Il fatto che il governo neozelandese non si sia mai scusato per il massacro dimostra le radici, sia storiche che contemporanee, del razzismo insito nella società e il contesto in cui avviene questo attentato.

Contesto attuale

Anche la Nuova Zelanda negli anni ‘80, come molti altri paesi ricchi, si è immessa sulla traiettoria neo-liberista, nonostante la sua piccola popolazione e la sua distanza geografica dai grandi centri del potere capitalista. Ciò ha continuato ad aumentare le ineguaglianze sociali tra ricchi e poveri, tra indigeni e coloni bianchi. Sempre in quegli anni, iniziano il movimento di lotta per i diritti Māori, e il primo movimento anti-razzista dei Pākehā (bianchi neozelandesi).

Dopo la recessione del 2008 la Nuova Zelanda fu duramente colpita e 9 anni di politiche neo-liberiste del Governo del National Party, con a capo John Key che portò avanti una guerra mediatica contro i poveri, si traducono in una nuova guerra coloniale contro i Māori. Si osserva un innalzamento del tasso di disoccupazione, aumentano le persone senza casa e il numero delle famiglie che pur lavorando non riescono a dar da mangiare ai propri figli.

Le fasce più povere di questo paese sono i Māori e le persone dalle isole del Pacifico, “importate” come manodopera a basso costo in Nuova Zelanda tramite politiche di immigrazione dal dopoguerra a oggi. Altro capitolo buio della storia di questo paese sono le Dawn Raids (retate dell’alba) in cui ci furono deportazioni di massa di Samoani, Tongani, Cook Islanders.

In concreto le conseguenze di queste politiche per i Māori sono:
– Avere un’aspettativa di vita intorno ai 65 anni, vivendo 20 in meno dei Pākehā.
– Vivere in condizione di povertà.
– Morire di malattie curabili legate soprattutto alle condizioni disastrose in cui sono costretti dalla povertà.
– Le donne e le/i bambine/i (tamariki) Māori subiscono più violenza domestica e sessuale, ed è più probabile che i tamariki vengano tolti dalle famiglie creando un’altra “stolen generation” (generazioni di sottratti alla cultura indigena) in nome dell’assistenza sociale.

I maori rappresentano il 15% della popolazione, il 60% di loro vive in carcere. Innumerevoli ricercatori locali hanno dimostrato che Māori e persone dal Pacifico vengono arrestate più frequentemente e ricevono sentenze più lunghe.

Mentre ciò avviene a livello locale, a livello globale si osserva un avanzamento delle destre razziste e fasciste. Questi segnali dimostrano che il razzismo colonialista non è mai scomparso e un radicalismo di destra sta aumentando.

Il razzismo colonialista si è spesso presentato sotto forma di leggi, che legittimavano la supremazia dei bianchi e negavano l’esistenza della cultura e della lingua Māori. Nel 2018 il paese ha avuto un dibattito sulla necessità (o meno) dell’insegnamento della storia del colonialismo nelle scuole, e sull’obbligo dell’insegnamento della lingua Māori nelle scuole. Durante questo dibattito le parti politiche conservatrici hanno mostrato tutte le loro posizioni ignoranti e razziste.

Il rifiuto sistematico di insegnare la storia della colonizzazione di questo paese crea una vulnerabilità verso le politiche dell’odio. L’Australia, da questo punto di vista, è ancora peggiore e per questo il terrorista poteva credere che queste terre siano un’ “estensione” dell’Europa e non che lui sia un ospite, anche non gradito, su terre indigene e aborigene.

Nel 2017 Taika Waititi, regista Kiwi/Māori, lanciò una campagna contro il razzismo insieme alla Commissione per i Diritti Umani neozelandese. La sottile ironia riflette un razzismo subliminale e nascosto, come una tortura della goccia cinese per chi la subisce, composta di sguardi, battute e uso di un linguaggio esplicitamente razzista solo quando si è al sicuro solo tra bianchi. Insieme a questa campagna la Commissione per i Diritti Umani e il Consiglio Nazionale delle Donne Musulmane (qui in NZ) da 5 anni chiedono a polizia e intelligence di monitorare e agire contro l’aumento di minacce verso la comunità musulmana e altre comunità come migranti, rifugiati e LGBTQI+.

Nell’ agosto 2018 due rappresentanti della destra canadese si sono presentati su queste sponde, esprimendo ideologie di odio razziale, islamofobico, omo/transfobico e misoginia. Questi avevano affittato un locale del comune di Auckland e l’evento era tutto esaurito (più di 300 biglietti). Quando il comune di Auckland ha scoperto chi fossero questi soggetti li ha cacciati da tutti i locali di proprietà del comune, con il messaggio chiaro che la città più multiculturale del paese non può ospitare chi propaganda odio e intolleranza.

Riposta del paese

Per quanto eravamo coscienti dei problemi di questo paese nessun@ poteva immaginarsi un attentato di quella brutalità. A cinque giorni di distanza tutte le parti sociali e politiche parlamentari hanno condannato l’atto di terrorismo fascista. Ci sono state diverse manifestazioni e sit-in in memoria delle 50 vittime e in solidarietà alla comunità musulmana.

Mentre leggo un articolo di Moana Jackson, accademico e leader Māori, le sue parole chiariscono le sensazioni che sto provando. Rifletto che le parole di Martin Luther King riecheggiano nei tanti gesti di amore che avvengono in questi giorni successivi alla strage, ma ci ricorda che anche Martin Luther King parlava di azione politica per cambiamenti concreti e reali.

Per me è importante che Jacinda Ardern, senza esitazione e riferendosi al manifesto del terrorista, ha dichiarato “Questo non siamo noi” in un mondo dove odio, razzismo diventano sempre più accettati e normalizzati. Altrettanto è importante che i neozelandesi bianchi non lo usino come scudo dietro cui nascondersi per evitare che avvengano dei cambiamenti concreti, oltre la riforma delle armi da fuoco.

In un paese dove culturalmente si evita a tutti i costi il conflitto sociale attraverso la “Tyranny of Politeness”, la tirannia delle buone maniere, che di fatto proibisce di parlare di politica e espressioni di rabbia. Dalla mia esperienza politica e personale la rabbia di fronte alla politica dell’odio ha il suo posto nella lotta quanto l’amore e la solidarietà. Mentre riflettevo ieri mi chiedevo in che altro modo si esprimerà questa rabbia repressa, che qui di solito si manifesta negli alti numeri di violenza sessuale, domestica e suicidi.

La mia speranza, come sempre in questo paese, sono i leader e la cultura Māori che combattono la supremazia bianca da quando era chiaro che i colonizzatori inglesi avevano intenzioni ignobili. Spesso hanno scelto la via della non violenza, per assicurarsi la sopravvivenza del proprio popolo. I loro valori culturali come Tino Rangatirotanga (auto-determinazione), Aroha (amore), Manaakitanga (ospitalità e supporto), Turangawaewae (sapere la propria identità e posto nel mondo) e Whanaungatanga (legami umani sanguigni e oltre) sono valori che mi aiutano nel mio quotidiano ad agire in modo da riflettere il cambiamento che voglio vedere. Quindi mi unisco alla Ka whawhai tonu mātou – la lotta continua.

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Da Bologna a San Ferdinando contro i complici dello sfruttamento

Riceviamo e pubblichiamo.

Balletti con Coldiretti. Racconto del presidio a Bologna

Nel pomeriggio di martedì 19 marzo 2019 un gruppo di persone che odiano le frontiere e le politiche ad esse connesse si è trovato in una delle piazze in cui la Coldiretti, dietro al simbolo ben ripulito di “Campagna amica”, fa i banchetti di vendita di prodotti agricoli. Il luogo e il momento non sono stati scelti a caso poiché nel discorso della produzione agricola “etica”, “corretta” e “amica”, la voce di chi nelle campagne ci lavora non esce mai. La voce dei lavoratori delle campagne del sud italia, come è stato ribadito con volantini e interventi al megafono, viene messa a tacere da politiche repressive e controllanti. Così come viene messa a tacere ogni rivendicazione di documenti, case e contratti, il minimo sindacale per una vita dignitosa, il minimo sindacale su cui si passa sopra con le ruspe e le guardie, sgombero dopo sgombero.

Il 6 marzo a San Ferdinando è infatti andato in scena l’ennesimo sgombero fortemente voluto dal sindaco, dal governo e dai sindacati, con la scusa dell’illegalità non più sopportabile i primi e con la scusa della vita indecente i secondi, perché sanno che su queste persone si può trarre guadagno. In questa azione di guerra ai poveri, lo stesso giorno, la Coldiretti si faceva bella con i suoi discorsi su un’agricoltura made in italy pulita e giusta. La Coldiretti, proprio quella rappresentante delle associazioni padronali che lucrano sul lavoro dei tanti braccianti che vivevano in quella tendopoli e che, come il governo, preferisce averli a testa china e controllati all’interno di campi in cui poterli schedare e addestrare alle regole dello sfruttamento. Va ribadito che la maggior parte degli e delle abitanti della tendopoli ha scelto di andarsene altrove e sfuggire quindi alla deportazione nei campi e centri d’accoglienza statali o nei lager. Perchè la scelta per chi vive sul territorio di questo paese senza un pezzo di carta chiamato “permesso di soggiorno” è questa: deportazione, controllo e lager.

Come è successo a Tomi, un ragazzo algerino in sciopero della fame da 40 giorni in protesta contro la reclusione all’interno del CPR di Torino e di cui in questo pomeriggio di protesta è stato mandato l’audio delle sue interviste. Tomi ha continuato a resistere anche dopo i pestaggi subiti nel CPR, ha continuato a resistere anche se i medici, complici del sistema di controllo, hanno dichiarato che il suo stato di salute (perde un kg al giorno da quando ha iniziato la protesta) è perfettamente compatibile con la detenzione amministrativa, ovvero il lager e continua a resistere nella sua dura protesta nonostante, per allontanarlo dalla solidarietà espressa a Torino, sia stato trasferito al CPR di Bari.

La presenza di chi ad alta voce e in una maniera visibile ha tirato fuori le contraddizioni di questo sistema di sfruttamento ha interessato e spinto molte persone a fermarsi e chiedere informazioni ma ha anche fortemente disturbato, generando reazioni così esagerate che la digos ha delegato il suo compito di filmatori compulsivi ad alcuni associati della coldiretti che lì avevano il proprio banchetto. Questi hanno anche cercato di contattare alcuni dei piani alti, con cui ci siamo poi trovati a dover improvvisare balletti per sfuggire al loro tentativo di zittire ciò che avevamo da esprimere al megafono.

Le persone sconvolte dal fatto che la loro bella associazione potesse essere complice di siffatte nefandezze e soprattutto dal fatto che qualcuno potesse disturbare il loro tranquillo mercato, sono state invitate a contattare direttamente Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, per chiedere delucidazioni in merito alle scelte fatte dall’associazione di cui fanno parte e prendere posizione. Il silenzio è complice!

nemici e nemiche delle frontiere

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San Ferdinando – Un altro morto nel lager di stato

Fonte Campagne in lotta

Anche oggi la giornata inizia con immensa rabbia e dolore. Il feroce business dei lager di Stato ci ha portato via un altro fratello. Non conosciamo ancora il suo nome perché l’ordine è quello di non far avvicinare nessuno, per coprire l’ennesima strage e le forze dell’ordine hanno sequestrato i telefoni per evitare ogni forma di testimonianza.
Il giovane uomo, che aveva circa 20 anni, è morto bruciato vivo per un corto circuito del sistema elettrico, che dal giorno dello sgombero non ha mai funzionato. Infatti le persone che erano costrette a vivere nell’ennesima (nuova ) tendopoli, da diversi giorni stavano facendo pressione sul sindaco di San Ferdinando perché venisse a far riparare la corrente, per avere almeno luce e l’acqua calda, soltanto ieri i tecnici si sono presentati e questa mattina avrebbero dovuto finire i lavori… Che il dolore si trasformi in rabbia, pagherete tutto! Continua a leggere

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Roma – Sul presidio del 16 marzo a Ponte Galeria

Riceviamo e pubblichiamo. Per scriverci e inviarci contributi hurriya[at]autistici.org

Sabato 16 marzo una ventina di persone si sono ritrovate di fronte al Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Ponte Galeria per portare solidarietà alle donne recluse e per urlare il loro disprezzo per le frontiere. Nonostante l’assenza di un impianto di amplificazione, i cori e le letture in più lingue delle solidali sono arrivate all’interno e le recluse hanno risposto con urla che sono giunte nitide. Anche se per poco gli sprazzi di dialoghi tra dentro e fuori hanno dato almeno la certezza che il numero telefonico usato per mantenere i contatti fosse stato percepito chiaramente.Le voci da dentro parlano di una 50ina di detenute e di condizioni come sempre difficili.
Da fuori si è raccontato delle lotte negli altri centri d’Europa e della solidarietà nelle strade, della rabbia per ciò che accade nei ghetti; oltre alla storia del ragazzo che ha resistito per 40 giorni in sciopero della fame nonostante il pestaggio ed il trasferimento dal cpr di Torino a quello di Bari.
Nel frattempo un ben attrezzato manipolo di sbirri ha pensato bene di passare il pomeriggio fotografando e riprendendo il presidio.

Da quello che si puo vedere dall’esterno Le barriere sopra il tetto della struttura, del cpr romano, in ristrutturazione dopo le rivolte nella sezione maschile sembrano completate dopo mesi di lavori. Purtroppo non si hanno notizie dello stato dei lavori all’interno; il momento della riapertura probabilmente si avvicina, ma non c’è nessuna certezza.

Nessun occhio digitale potrà immortalare ciò che abbiamo da dire né la rabbia che proviamo!
Solidali e complici con Tomi e con tuttx le reclusx che lottano.
No nation No border Fight law and order

nemiche e nemici delle frontiere

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