Claviere – Il rifugio autogestito Chez Jesus è sotto sgombero

fonte pagina fb Chez Jesus

Il Rifugio Autogestito Chez Jesus, il sottochiesa occupato di Claviere, è sotto sgombero.
C’è una denuncia pendente sul posto da più di due mesi e sembra che il Prefetto stia mettendo sempre più pressioni per sgomberare. Nel mentre stato e chiesa si stanno “impegnando” nel trovare “un’alternativa”. Un luogo dei salesiani affittato dalla fondazione Magnetto e gestito da due operatori della fondazione Talità Kum. Una sorta di spazio di transito che aprirà a Oulx, a 15 chilometri dalla frontiera. Un luogo che avrà 15 posti letto e una cucinina per chi è di passaggio.
“Un’alternativa” a Chez Jesus, come ci ripete il prete impegnato in questo progetto. Come se un luogo gestito da una fondazione privata a 15 chilometri dalla frontiera che svolgerà la sola funzione di dormitorio, con due operatori pagati per fare assistenza, possa essere “un’alternativa” a tutto quello che è Chez Jesus. Al rifugio è da mesi che passano centinaia di persone, si fermano, vivono questo spazio insieme condividendo la loro quotidianità con i solidali, scambiandosi esperienze e consigli preziosi. A Chez Jesus si trova sempre una porta aperta dopo ogni respingimento. Qui si può di condividere ogni esperienza di abuso da parte della polizia, oltre che, magari, costruire assieme un modo per non subirne più.
A Oulx il progetto dovrebbe partire per metà settembre. L’idea sembra quella di aprire un posto controllato e gestito, puramente “assistenziale”, e sgomberare così più tranquillamente il sottochiesa occupato di Claviere che invece vive di autogestione e ha sempre rifiutato l’idea di gestire e controllare le persone di passaggio. Continua a leggere

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Brescia – Migranti cacciati da un centro accoglienza per aver rifiutato il lavoro gratuito

A Zone, in provincia di Brescia, ieri 22 persone richiedenti asilo sono state cacciate dall’ostello Trentapassi , adibito a centro accoglienza, in cui vivevano. Tale provvedimento punitivo è stato preso su richiesta del sindaco di Zone, Marco Zatti, dopo che il gruppo di migranti si era rifiutato, lo scorso giugno, di lavorare gratuitamente per pulire il sentiero delle piramidi, attrazione turistica nei pressi del paese.

Secondo le informazioni circolate sui media mainstream, la scelta di sottrarsi a questo compito è da collegare a una forma di protesta attuata dai migranti in solidarietà con un loro compagno che non era riuscito a ottenere il permesso di soggiorno, cosa questa imputata dai ragazzi allo scarso impegno del sindaco Zatti. Oltre ovviamente alle disagevoli condizioni di vita cui sono costretti nell’ostello (mancanza di acqua calda, isolamento dovuto all’assenza della rete internet…).

Questo evento ha portato il sindaco a scrivere immediatamente al prefetto e alle cooperative che gestiscono l’ostello per comunicare la scarsa collaborazione dei richiedenti asilo e denunciare la presunta problematicità di alcuni di loro, indicati come leader e “aizzatori” della protesta. Come avvenuto in altri casi, anche questa volta non sono mancate le dichiarazioni dal sapore paternalista e colonialista del sindaco che ha chiesto alle cooperative di spiegare ai ragazzi che hanno non solo diritti ma anche dei doveri, tra cui quello di sdebitarsi per l’ospitalità ricevuta.

Retorica che il sindaco in questione ha utilizzato anche in precedenza, attivando un altro progetto – mai andato in porto –  di lavoro volontario gratuito per richiedenti asilo, che avrebbero dovuto essere sfruttati nella serra comunale.

Non è certamente la prima volta in cui le persone obbligate nei centri ci mostrano chiaramente come queste strutture siano soltanto luoghi di gestione e differenziazione, in cui si cerca di minimizzare le proteste attribuendole sempre a pochi “facinorosi”, acuendo dunque la distinzione tra migranti buoni e cattivi, fra meritevoli di essere accolti e chi invece è destinato all’espulsione.

In questa vicenda emerge lampante il carattere estremamente disciplinante del sistema d’accoglienza, accoglienza intesa come serie di obblighi cui bisogna sottostare e a cui è impossibile qualsiasi atto di insubordinazione pena la punizione, in questo caso il trasferimento in altri centri, ma più volte l’espulsione dal sistema d’accoglienza e le denunce penali.

Il trasferimento dei migranti è avvenuto nel pomeriggio, con un preavviso in mattinata, e non si conoscono ancora i centri tra cui verrano divisi e smistati.

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Lucca – La Croce Rossa costringe al TSO una ragazza che voleva lasciare la tendopoli

Le informazioni disponibili in rete sono poche ma sufficienti per mettere insieme gli elementi di una vicenda emblematica della serie stratificata di oppressioni che schiacciano i vissuti delle donne che decidono di migrare.

Stiamo parlando della storia di una ragazza diciannovenne proveniente dalla Nigeria, arrivata in Italia con la figlia di 18 mesi. Com’è evidente in un regime di frontiere serrate e sempre più fatte arretrare verso il Mediterraneo, prima, e verso i Paesi di origine e transito, poi, chi riesce ad arrivare in Europa presenta subito richiesta di asilo, anche solo per ottenere un pezzo di carta e organizzarsi la vita o la fuga altrove.
Non sappiamo e non ci interessa la motivazione dietro questa scelta, sta di fatto che questa ragazza decide di fare domanda di asilo e scattano subito le maglie del paternalismo di stato: viene trasferita in una struttura protetta per donne con figl* minori gestita dalla croce rossa italiana.

Anche qui si potrebbe scrivere un trattato sul ruolo infame della CRI nella gestione dei flussi migratori, limitiamoci a ricordare che sempre a gestione CRI è il campo per transitanti localizzato a Ventimiglia, vicino alla frontiera francese, più volte segnalato da chi lotta contro le frontiere e da ONG e associazioni che hanno recentemente indirizzato una lettera ai governi francese e italiano per segnalare la violazione dei diritti fondamentali delle persone in transito, anche dei minori.
Ma che importa, alla croce rossa viene data la gestione di una casa protetta per donne e minori nonostante la retorica buonista sulla “buona accoglienza”, in italia – come altrove – funziona che se fai domanda di asilo, vieni messo in un centro di accoglienza e devi attenerti al regolamento interno del centro.
Ti allontani? Diventi irrintracciabile e quindi per le autorità di polizia stai rinunciando di fatto alla domanda di asilo.
Vuoi andare a vivere da un’altra parte? Impossibile perché le questure sempre più (in particolar modo quelle di Milano, Roma e Bologna) non accettano la dichiarazione di domicilio, ma pretendono la residenza, una vera e non quella fittizia. Quindi se non puoi permetterti un regolare contratto di affitto o se nessuno dichiara di ospitarti, o ti compri una residenza finta oppure anche lì bye bye, irrintracciabile e niente procedura di asilo.
Ti lamenti di come ti viene imposto di vivere nel centro? Anche qui la repressione arriva fulminea: sono sempre più frequenti i casi di revoca dell’accoglienza, di procedimenti penali aperti per danneggiamento, violenza privata e lesioni, di trasferimenti forzati da un centro all’altro.

Così si articola un sistema infantilizzante e paternalista che impone alle persone in viaggio di vivere alle condizioni decise da chi detiene il potere, nell’attesa che sempre chi questo potere lo detiene si riunisca per valutare la veridicità delle storie che impone alle persone di raccontare di fronte a perfetti sconosciuti (i membri delle commissioni territoriali per il diritto d’asilo), persone bianche e privilegiate che sedute a un tavolo si passano le carte da cui dipenderà poi il rilascio di uno status di protezione.

Questa desolante panoramica c’entra ovviamente con la vicenda di cui stiamo parlando: la ragazza diciannovenne decide che al centro della CRI non ci vuole stare. Chiede di andarsene. Le fanno un TSO e la ricoverano coattamente nel reparto di psichiatria dell’ospedale “Versilia”. La figlia? affidata dal tribunale per i minori di Firenze ai servizi sociali. A quanto pare lei dal reparto sta protestando contro questa decisione, contro questo ricovero violento e – come sempre sono i TSO – autoritario, coercitivo e immotivato.

Tutto questo accade in un Paese che – al di là della rampante retorica razzista e nazionalista che infiamma gli animi dei più – si batte il petto per la famiglia, per la donna sposa e madre, contro la tratta, contro lo sfruttamento. Quando però la donna si ribella a questa spinta vittimizzante, viene dichiarata pazza, incapace di badare alla figlia. Subentrano le istituzioni che diventano immediatamente i soggetti più adeguati a decidere per lei, per la sua salute, per il benessere di sua figlia.

Niente di nuovo ovviamente, se pensiamo alla funzione di normalizzazione coercitiva che la psichiatria ha esercitato sui corpi delle donne e dei soggetti non binari e conformi alla norma sin dagli albori, a partire dalla diagnosi di isteria. Un brivido si aggiunge pensando all’entusiasmo di chi ha condiviso la dichiarazione della Società italiana di psichiatria in risposta a Salvini.

L’esito di questa vicenda è incerto, probabilmente non emergeranno pubblicamente ulteriori risvolti. La potenza della violenza delle istituzioni e delle frontiere però emerge con tutta la sua forza. Come sempre.

Puoi anche leggere un altro nostro contributo: “TSO (trattamenti sanitari obbligatori) – La repressione psichiatrica contro i migranti in protesta”

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Egitto – Il raccolto della “cospirazione” di gennaio 2011 e quello della “rivoluzione” di giugno 2013

Ultimamente sta girando molto su internet un articolo in arabo pubblicato nel 2015 da una compagna egiziana. 
Abbiamo deciso di tradurlo e diffonderlo non solo per le informazioni che dà sulle vicende egiziane dal 2011 al 2015. In un periodo in cui è diventata opinione condivisa e indiscussa che le rivoluzioni arabe del 2011 siano state solo un fallimento oppure il frutto di una o molteplici cospirazioni, questo articolo aiuta a rimettere al centro lo spirito, le ragioni e le lotte che hanno completamente sconvolto – e continuano a farlo – in forme diverse ma complementari non solo l’area che va dal Marocco, al Bahrain, allo Yemen, quanto l’intera Europa. Per non dimenticare il senso di quegli anni, che il(i) regime(i) vorrebbe cancellare torturando ingabbiando e sottoponendo le persone a sparizioni forzate. Noi non dimentichiamo dovessimo farlo fino all’ultimo respiro.

 

Il raccolto della “cospirazione” di gennaio 2011 e quello della “rivoluzione” di giugno 2013

In quanto “Yanargheya” (le persone che erano presenti durante la rivoluzione di gennaio che in arabo si dice yanair) propongo una rilettura di quanto avvenuto in Egitto dopo 4 difficili anni dal 25 gennaio 2011 e un anno e mezzo dal 30 giugno.
La prima parte è sulla rivoluzione. Quella che gli amici di Mubarak e le stelle dei media al soldo dei servizi di sicurezza han definito “cospirazione”.
La seconda parte si occuperà dell’ondata di rabbia che vide implicati militari e ex del regime, una sciagura (l’autrice usa il termine nakba in riferimento a quella palestinese del 1948 N.d.T) generale, che gli amici di Mubarak han chiamato “rivoluzione”.

Nonostante l’odio che nutrono per la parola “rivoluzione” gli ex del regime e i gruppi di opportunisti e approfittatori pro Sisi, così come le persone amanti della stabilità, quanto avvenuto a giugno del 2013 è stato definito fin da subito con questa parola, in aperto contrasto con gli avvenimenti di gennaio del 2011. Il fine era di screditare ad ogni costo la rivoluzione di gennaio per nascondere la realtà di tutto quello che hanno subito da parte dei Yanargeya (chi è sceso a gennaio) e delle masse immense di popolo.
Ora, il nostro disaccordo non è sulla terminologia o sui nomi o sugli aggettivi. Il nostro disaccordo è sul retaggio del “glorioso giugno” e dei suoi effetti in cui nuotiamo fino ora, esattamente come le persone di Alessandria nuotano nell’acqua di fogna.
Sì, navighiamo tutte e tutti nell’acqua di fogna dopo gli avvenimenti della vostra rivoluzione “benedetta” di giugno che noi, invece, consideriamo una nakba. Tuttavia non userò il termine colpo di Stato come fanno gli islamisti, dal momento che questi hanno condiviso con la giunta militare tutti i loro colpi di Stato: dal 1952 fino a quello del primo febbraio 2011, quando in maniera evidente i loro interessi convergevano.
Così se a giugno 2013 la giunta militare fosse stata coalizzata con la giunta dei Fratelli Musulmani e ci avessero uccise e uccisi tuttx al posto delle vittime di Rabaa (Rabaa è il nome della piazza dove più di 800 persone vicine al presidente Morsi furono assassinate in poche ore da esercito e polizia nel 2013 N.d.T), saremmo statx descrittx come baltagheya, teppistx e degni di essere uccisi.
Il raccolto della vostra rivoluzione di giugno non richiede alcuna prova, è invece una realtà che viviamo sulla nostra pelle quotidianamente. La vediamo tutti i giorni quando accendiamo gli schermi e troviamo fantocci come Riham Said e Mona Iraki (due celebri presentatrici della TV egiziana N.d.T), o le intercettazioni di Abdel Rahim, i complotti di Moussa, le allucinazioni di Issa (giornalista e conduttore televisivo N.d.T), mentre le persone affondano nella povertà. C’è chi muore di gioia quando riesce a comprare una bombola del gas e chi invece si suicida appeso su un cartello pubblicitario o davanti alla finestra di casa sua, l’ultimo suicidio è avvenuto a Mugamma‘ Tahrir.
Naturalmente queste persone non trovano spazio sullo schermo, nessuna voce può alzarsi sopra quella della guerra al terrorismo.

Il raccolto della vostra rivoluzione lo vediamo ogni volta che abbiamo a che fare con la vostra giustizia, con le sentenze che arrivano fino a 15 anni per aver bloccato una strada, mentre Mubarak viene assolto da tutte le accuse; quando un tribunale condanna 500 persone all’impiccagione per aver ucciso un poliziotto e allo stesso tempo un giudice viene assolto senza cauzione dopo l’assassinio di una donna sparata per strada; quando Hazem, Loay, Ahmed Douma e Maher passano tre anni di vita in carcere per una manifestazione non autorizzata e Zaher Hawas esce dal carcere dopo essere stato accusato di aver rubato dei reperti archeologici. Tutto questo mentre la polizia è ritornata ad affinare le sue pratiche di tortura. Non passa mese in cui un nuovo assassinio non venga commesso nei commissariati di polizia o che, come successo a Suez, vengano uccisi due fratelli (I due fratelli in moto furono sparati alle spalle da due poliziotti N.d.T).
Il raccolto di giugno lo vediamo quando l’Egitto si disfa della sua ricchezza di gas estratto nel Mediterraneo per darlo a Israele, oppure quando il governo di Mehleb si appresta a progettare l’importazione di carbone tornando così alle epoche buie, dal momento che Mubarak ha esportato il nostro gas a Israele a prezzi stracciati. Ovviamente Mubarak ne esce pulito grazie alle leggi fatte su misura dal suo sistema e alla corruzione
Il più eloquente raccolto di giugno lo vediamo con il ritorno dell’immagine di Hani Surur (un ex del regime di Mubarak N.d.T) – il più famoso processo prima della rivoluzione sui filtri d’acqua inquinata – esposta nelle strade del quartiere al-Daher tra i candidati alle elezioni. Oppure nel ritorno di Ezz (ex del regime di Mubarak N.d.T) nei giochi del mercato, nell’aumento di miliardi nelle tasche delle banche e nell’aumento dei prezzi al dettaglio, nell’aumento della benzina e dei biglietti dei mezzi pubblici.
Questo è quello che abbiamo raccolto dalla rivoluzione di giugno!!

Il raccolto di gennaio invece ci rende orgogliose/i per la partecipazione di persone sconosciute, non pagate dalla polizia o dal Dipartimento degli affari morali dell’esercito, che hanno preso le strade urlando slogan di libertà e giustizia sociale. La popolazione di gennaio non ha mai smesso di urlare slogan come “fai a pezzi Sisi”. La popolazione di gennaio non voleva la morte dei nemici come la popolazione di giugno e i pro Sisi. La popolazione di gennaio chiedeva dignità e non ha mai chiesto di uccidere per le strade. Non abbiamo chiesto le condanne a morte per gli assassini come Mubarak e al-Adly (ex ministro degli interni N.d.T), Tantawi (il capo della giunta militare nel 2011 N.d.T). Nella nostra ingenuità chiedevamo leggi, sanzioni e giustizia.
La popolazione di gennaio, ha costituito dei comitati popolari per ripristinare la sicurezza e non far accadere nel corso di 18 giorni (prima delle dimissioni di Mubarak N.d.T) gli abusi sessuali, i furti e tutti gli incidenti provocati dal sistema per disfarsi della rivoluzione.
La popolazione di gennaio ha dato la vita il venerdì della rabbia, quello dei cammelli e Mohamad Mahmoud, proteggendo la rivoluzione con il proprio sangue. Non aspettava i blindati dell’esercito o la protezione della polizia come è avvenuto nel “glorioso giugno” 2013. Con determinazione la popolazione di gennaio ha portato all’arresto di Mubarak e i suoi figli, al-Adly e tutti coloro che rappresentavano gli assassini e le intimidazioni del sistema. La popolazione di gennaio ha diffuso la speranza a milioni di persone su un piatto d’argento. C’è chi è tornato da fuori per partecipare a quei momenti infuocati, c’è chi è sceso da casa per rompere il silenzio.
La popolazione di gennaio ha fatto entrare tutti i topi nelle tane, uno come Mortada ( Mortada Mansour imprenditore e presidente della squadra del Zamalek N.d.T) che ora naviga con il suo yacht privato nell’acqua di fogna del 30 giugno, è rimasto nascosto per più di un anno per paura di quel gennaio. Lo stesso è successo a molti altri che non sono usciti con l’arretramento di gennaio e il prevalere dell’infezione di giugno.
Ricordatevi i giorni della vostra vittoria,
ricordatevi delle vostre strade e piazze
ricordatevi i compagni e le compagne di strada che ancora mantengono il patto, e ora sono in carcere o all’estero, persi tra il fumo dei lacrimogeni.
Ricordatevi di gennaio vittorioso, rabbioso e la porta di Mohamad Mahmoud, la moschea di Abbas al-Rahman, Omar Makram, lo striscione mensile appeso sul palazzo di via Talat harb 1, lo spazio della chiesa Qasr al-Dubara.

Questi sono stati i nostri giorni, che ci ricordiamo con orgoglio, in cui abbiamo scelto i nostri sogni e abbiamo fatto giustizia con le nostre stesse mani per qualche ora e la nostra lotta si è palesata.
Lasciateci ricordare,e che la speranza sia la nostra guida in questi giorni di agonia, mentre la codardia dilaga nel silenzio di una melodia che non viene più suonata.

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Bologna – 12/7 Sul lavoro gratuito nel sistema di accoglienza e benefit contro le frontiere

Riceviamo e pubblichiamo. Per scriverci e inviarci contributi: hurriya[at]autistici.org

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Aggressione razzista e sessista a Chez Jesus. Chiamata per una merenda sinoira domenica 8 luglio

Fonte: Chez Jesus – Rifugio Autogestito

A Chez Jesus ieri è stata issata una bandiera. Anzi, due bandiere, belle, alte più o meno 5 metri. Una bandiera No Tav e una con scritto No Borders.

Poche ore dopo, 6-7 persone residenti di Claviere, in modo evidentemente organizzato, si sono presentati al rifugio. Con toni minacciosi e violenti, hanno preteso di togliere le bandiere insultando sin da subito le persone presenti a Chez Jesus. Poco dopo, sono stati raggiunti da altri residenti attirati probabilmente dalla situazione o forse alcuni chiamati dagli stessi aggressori.

I presidianti si sono mossi in difesa del luogo cercando un dialogo, ma evidentemente l’intenzione degli interlocutori non era affatto quella di trovare una soluzione collettiva, imponendosi infatti sin da subito con la violenza verbale, offendendo i presenti con insulti razzisti e sessisti quali “negra di merda”, “a voi non darei neanche venti euro sulla strada”, “avete solo bisogno di un po’ di cazzo”, “pompinari e zecche di merda”. Gli stessi sono arrivati a prendere a calci una ragazza, scaraventare un altro ragazzo giù da un muretto per poi picchiarlo. Alcuni di questi aggressori si sono rivendicati di essere orgogliosamente fascisti, proclamando di essere a casa loro e di poter agire con qualsiasi mezzo necessario. Un’altra componente del gruppo di residenti presenti non aveva intenzioni esplicitamente violente, ma comunque attraverso il totale silenzio e l’osservazione della scena ha legittimato tali azioni rendendosi complice.

Poco dopo l’inizio dei fatti è giunto il sindaco di Claviere, che ha avvertito i carabinieri. Sono arrivate sul posto tre pattuglie con l’intenzione di identificare tutti i presenti. Mentre gli occupanti sono rientrati nel rifugio, due di noi, che stavano difendendo la porta di accesso, sono state scaraventate e immobilizzate a terra dalla polizia. Le minacce di denuncia di resistenza sono state numerose, come altre intimidazioni. Alla fine, molti dei presenti sono stati identificati.

Inoltre, non è la prima volta che tali personaggi attaccano il rifugio autogestito di Chez Jesus. La sera del 22 aprile scorso infatti, al termine della marcia solidale da Claviere a Briançon culminata con gli arresti di Eleonora, Théo e Bastien, alcuni di questi stessi personaggi di ieri, si erano presentati al rifugio insultando con frasi sessiste e razziste, evidentemente a loro tanto care, cercando di mettere le mani addosso e minacciando di tornare. Quella sera solo la calma e la tranquillità dei solidali (non propensi ad avere ulteriori complicazioni al termine di quella giornata) e l’intervento di un residente ha permesso di allontanare tali personaggi molesti e violenti, senza ulteriori complicazioni.

È evidente dunque che la presenza di Chez Jesus dà fastidio qui a Claviere. Dà fastidio ai fascisti che non vogliono neri a vista, bandiere No Tav e No Borders.

Dà fastidio all’economia del posto. Claviere resta un paesino di montagna, che vive del turismo sciistico d’inverno, di quello golfistico e naturalistico d’estate. Come ci ha ricordato il sindaco ieri, il commercio viene rovinato perché l’immagine della località turistica ricca e tranquilla viene soppiantata da una realtà più scomoda, fatta di respingimenti e botte da parte della polizia, di migranti bloccati a Claviere e di conseguenza ben visibili nel paese.

È abbastanza ironico come la sola presenza di persone dal colore della pelle per alcuni sbagliato, o di qualche scritta comparsa alla frontiera contro i respingimenti, bastino ad incrinare un apparente decoro urbano. La perturbazione dell’immagine di Claviere a quanto pare scalda gli animi. Le violenze e i respingimenti sono quotidiani, e accadono a meno di due chilometri dalle ultime case di Claviere, nell’indifferenza più totale dei residenti. Sembra quindi che alla gran parte del paese stia a cuore molto di più la tranquillità del proprio villaggio piuttosto che interessarsi e prendere posizione rispetto alle dinamiche che questa frontiera e il suo dispositivo porta. La mediatizzazione di questa realtà, ha come effetto immediato di allontanare i turisti, secondo le preoccupazioni di chi ha attività commerciali. E abbastanza chiaro che sono queste alcune delle ragioni dell’ostilità di vari residenti nei confronti del posto.

Non accettiamo nessun attacco né intimidazione. Non accettiamo minacce né insulti, che siano sessisti, machisti o razzisti. Né verso chi di passaggio né verso i solidali.

Che sia ben chiaro: noi da qui non ce ne andiamo. E non rimarremo in silenzio.

INVITIAMO TUTTE E TUTTI DOMENICA 8 LUGLIO, ORE 17, PER UNA MERENDA SINOIRA NELLA PIAZZA DELLA CHIESA DI CLAVIERE.

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Roma – Sul presidio al CPR di Ponte Galeria del 29 giugno

riceviamo e diffondiamo:

Venerdì 29 giugno, una ventina di compagnx si è ritrovata ancora una volta davanti le mura di Ponte Galeria per supportare le resistenze quotidiane delle donne immigrate recluse nel lager romano. 

In una fase storica in cui il fascismo, il razzismo e la xenofobia la fanno da padroni, che sia in parlamento o nel bar del quartiere; in un periodo in cui quasi quotidianamente muoiono migranti inghiottitx dal Mediterraneo a causa del regime delle frontiere o vengono ammazzatx biecamente sui luoghi di lavoro o nelle strade; in un momento in cui ogni giorno si assiste quasi inermi e indifferenti alla violenza delle retate e alla persecuzione, marginalizzazione, criminalizzazione e invisibilizzazione di migliaia di individui solo perché nati “nel paese sbagliato”, ancora una volta sappiamo da che parte stare. 

Ancora una volta abbiamo scelto, a dispetto dell’isolamento e della partecipazione esigua, di tornare di fronte al CPR per urlare il nostro odio contro un sistema che esclude, reprime, ingabbia e deporta migliaia di persone; contro uno Stato – e ogni stato – che porta avanti senza tregua la sua guerra colonialista, e quella sì non conosce frontiera alcuna. Nessun confine né limite quando si tratta di depredare, sfruttare, distruggere territori, stuprare e uccidere persone.

Abbiamo di nuovo scelto di essere lì davanti per comunicare con le donne recluse, raccontare le lotte che le persone immigrate portano avanti per affermare e rivendicare la propria esistenza; per far sapere alle detenute che non sono sole e che vogliamo continuare a essere lo strumento che permette alle loro voci di sfondare quelle infami mura.

Tra cori, musica e interventi in più lingue, per circa due ore il presidio è continuato mentre dall’interno arrivavano le prime telefonate che ci hanno permesso di riprendere alcuni contatti con le detenute, interrotti da un mese perché le donne con cui comunicavamo sono uscite.

Dalle telefonate abbiamo appreso che, come sempre, le donne erano state chiuse a chiave nelle celle dalla mattina, senza quindi la possibilità di uscire in cortile o andare in palestra. Il tutto arricchito dai soliti discorsi (delle guardie e degli operatori) che mirano a spezzare la solidarietà tra le recluse e i/le compagnx fuori, accusatx appunto di essere la causa di questa ulteriore restrizione a danno delle detenute. Restrizione che viene attuata anche quando, dopo un presidio o uno dei saluti solidali che vengono fatti ogni tanto, le guardie escono in ronda per cercare e sequestrare le palline da tennis che lanciamo con dentro messaggi e il numero di telefono per le detenute.

Da quello che sappiamo, al momento all’interno del CPR ci sono circa 30-35 donne di diversa provenienza, alcune detenute da più di 8 mesi e chiaramente stremate dalle condizioni di detenzione. Alcune informazioni rispetto il bando per la nuova gestione del CPR ( che al momento sembra passata nelle mani della cooperativa Albatros 1973, di cui si parla qui) ci rivelano che, durante i lavori di ristrutturazione del lager, la capienza massima sarà di 51 recluse. 

A tutta questa violenza vogliamo rispondere con la nostra solidarietà e il calore della nostra rabbia, finché la voglia di libertà non infiammi ogni gabbia.

Sempre a fianco di chi resiste e lotta in ogni prigione

nemiche e nemici delle frontiere

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Torino – Domenica 8 luglio – Presidio al CPR di Corso Brunelleschi

fonte: Macerie

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Bologna – Resoconto del presidio contro CEFA

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Il 20 giugno ci siamo riunite/i in presidio in via Marsala 12 di fronte a Palazzo Grassi, sede del circolo ufficiali dell’esercito, dove la nota ong bolognese CEFA avrebbe voluto festeggiare le sue ultime imprese con un aperitivo di beneficenza di gran gala. Ad attenderci, il solito deprimente gruppetto di polizia e digos che premurosamente ci avvisa che l’evento non c’è più. Chiaramente, se la digos invita ad allontanarsi la cosa migliore da fare è rimanere un altro po’ a dare volantini e informazioni sul CEFA e sulle sue attività.

Dopo esserci accertati sull’effettivo annullamento dell’evento, abbiamo deciso di partire in corteo per il centro della città spiegando, con una serie di interventi da megafono e microfono, le motivazioni principali della protesta: soprattutto la partecipazione del CEFA a ben due chiamate internazionali bandite dall’AICS (agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo) per effettuare “interventi umanitari” all’interno dei centri di detenzione nella provincia di Tripoli, in Libia.

Siamo felici dunque di essere riusciti ad incidere, al punto di spingerli ad annullare la serata pur di non rischiare di mostrare, a chi avrebbe sborsato ingenti quantità di soldi per le loro “lodevoli” iniziative, il loro vero volto di umili servitori del meccanismo securitario delle frontiere.

Precisiamo che il primo progetto approvato dal bando AICS, presentato dal CEFA insieme alla fondazione milanese “L’Albero della Vita” e al CIR (Consiglio Italiano Rifugiati), denominato “Sostegno ai migranti del centro di Tarek el Matar e alla comunità ospitante” e finanziato per circa 670 mila euro, si è svolto da dicembre dello scorso anno fino ad aprile 2018, con una durata, per ora, di quattro mesi.
Un secondo, invece, dal titolo “Sostegno ai migranti dei centri di Zwara e Janzour (e alle comunità ospitanti) in Libia”, (non più consultabile sul sito web dell’ong bolognese), con una durata prevista di 10 mesi e proposto da CEFA, HELPCODE e FSD, sarebbe stato bocciato per un cavillo amministrativo. Quindi, tecnicamente ad oggi CEFA non è più nei centri in Libia, ma questo poco importa. CEFA nelle prigioni libiche c’era e ci sarebbe tornato, se solo la burocrazia non si fosse messa in mezzo.

Entrambi i progetti presentati si basano sul concetto neocoloniale di fornire assistenza in contesti di “prima emergenza” con la pretesa di avere gli strumenti “giusti” per migliorare le condizioni alimentari e igieniche e il livello di protezione delle fasce più vulnerabili della popolazione migrante incarcerata in centri dove, come CEFA stesso dichiara, “gli standard umanitari non sono affatto rispettati” e dove i detenuti “sono vittime di abusi e i cui diritti umani vengono violati”.
Non è possibile rendere umana e dignitosa la vita in una prigione e, anzi, la subdola retorica umanitaria fornisce una funzionale copertura a veri e propri lager mentre l’operato delle ong rientra in questo sistema che si rivendica solidale con gli oppressi e gli sfruttati, ma che in realtà va strettamente a braccetto con gli interessi degli sfruttatori.

Abbiamo gridato per la città che non esiste un modo buono di stare in quei posti e che oltre ad aver supportato la questione demagogica dell'”emergenza flussi”, l’ong bolognese si è attivata per fungere da complemento necessario del progetto di esternalizzazione delle frontiere attuato dall’ex ministro degli interni, Marco Minniti, cogliendo al volo l’opportunità di cooperare con lo stato italiano nella gestione dei flussi migratori, in linea con gli interessi governativi, in particolar modo per quanto riguarda le politiche securitarie degli ultimi anni. Tale gestione ha previsto da un lato una costante e crescente militarizzazione dei confini, mentre dall’altro ha individuato proprio nelle ong il mezzo di normalizzazione di situazioni e realtà fortemente precarie e disastrose, come quelle riguardanti il contesto libico, dove sono in gioco altri grandi interessi, come ad esempio quelli di ENI.

Abbiamo ribadito che chi lavora e collabora con organizzazioni di questo tipo e partecipa alla visione umanitaria delle strategie di sviluppo e sicurezza imposte in giro per il mondo, altro non fa che essere complice del sistema autoritario di controllo e sfruttamento, che genera troppo spesso morte e distruzione, ideato dagli stati e dalle grandi organizzazioni finanziarie ed economiche. Le organizzazioni presenti in Libia stanno così contribuendo ad un cambiamento particolare: quello che si concretizza nella continua ridefinizione dei ruoli e delle modalità attraverso cui un tale assurdo sistema si abbatte sulla vita quotidiana delle persone.

Sappiamo bene che il territorio bolognese è costellato di cooperative, associazioni e organizzazioni che si assumono volentieri il compito di intervenire in contesti di questo genere. Ad oggi, oltre al CEFA, anche un’altra famosissima ong, GVC Italia, ha partecipato alla chiamata dell’AICS, aggiudicandosi l’approvazione ed un finanziamento di un milione di euro, con un progetto dal titolo “Supporto d’emergenza a migranti e comunità ospitanti nelle aree di Janzour e Gharyan”, insieme alle ong Emergenza Sorrisi e ICU (Istituto per la Cooperazione Universitaria. Sulla falsa riga del progetto di CEFA e company, anche questo è rivolto a migliorare le condizioni di vita delle persone detenute all’interno dei centri di prigionia della provincia tripolitana.
Invece che trovarci in piazza Nettuno con collettivi, associazioni e sindacati a braccetto con le istituzioni, abbiamo ritenuto opportuno manifestare contro tutti quei soggetti che, usando la data del 20 giugno come “giornata mondiale del rifugiato”, in realtà non fanno altro che perpetrare le dinamiche di controllo e sfruttamento contro le quali dichiarano di voler opporsi. La manifestazione di cui parliamo ha avuto come ospite d’eccezione la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Per l’ennesima volta è andata in scena la pantomima del buon militante cittadino che si ritrova in piazza con i rappresentanti delle istituzioni, fornendo un utile supporto a chi è responsabile delle politiche securitarie da sempre in atto. La vicenda della nave Aquarius e la sua momentanea risoluzione con l’intervento del governo spagnolo sono un altro refugeeswelcome-washing che nasconde politiche raccapriccianti come la gestione delle frontiere a Ceuta e Melilla, dove c’è una vera e propria caccia all’immigrato, muri di filo spinato e un supporto economico al governo marocchino che pesta gli immigrati e dà fuoco agli accampamenti di fortuna nei boschi nei pressi delle due enclaves spagnole.

Lottare contro le frontiere significa riconoscere come frontiere anche tutti quei soggetti responsabili dell’incremento del controllo, del colonialismo, della gestione delle persone.

Significa attaccarli invece che scendere in piazza insieme a loro.

CEFANCORASCHIFO!

Nemiche e Nemici delle frontiere

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Le stazioni sono frontiere

Riceviamo e diffondiamo. Per scriverci: hurriya [at] autistici.org

Nel 2015 con il “Progetto gate” è iniziata la militarizzazione di alcune grandi stazioni italiane: prima Milano Centrale in occasione di Expo, poi Roma Termini e Firenze Santa Maria Novella. Il Gruppo Ferrovie dello Stato ha schierato gli agenti della “protezione aziendale” (struttura che si occupa di antifrode e collabora strettamente con le fdo) lungo l’ennesima frontiera interna: i varchi di accesso ai binari da cui partono i treni. Nelle stazioni suddette è ormai invalsa la prassi di controllare i biglietti in una zona presidiata da militari e fdo e situata tra il centro commerciale della stazione e i binari. Il pretesto è quello di rendere più sicure le stazioni dal rischio di furti e attacchi terroristici, ma gli obiettivi effettivamente raggiunti sono altri: da un lato ripulire la stazione (e i treni) da quell’umanità in eccesso e non produttiva che sperimentava le più varie forme di sopravvivenza ai margini del viavai quotidiano (una bancarella ambulante, una panchina dove riposare, un luogo di passaggio dove elemosinare); dall’altro lato aumentare i profitti delle aziende di trasporto attraverso un controllo sempre più serrato nelle stazioni e sui treni. D’altronde il nesso tra i varchi e l’antiterrorismo è evidentemente sfuggente, considerando il fatto che con un biglietto in mano l’accesso ai binari è consentito a chiunque. Pur mancando ancora i gates di accesso, anche a Torino, Bologna, Venezia e Napoli i controlli in stazione da parte di protezione aziendale e militari sono sempre più frequenti.

Da circa un mese una novità esalta la polizia ferroviaria, una nuova tecnologia che si aggiunge alle centinaia di videocamere disseminate nelle stazioni e sui treni: il palmare CAT S60. Ha l’aspetto di un classico smartphone, al momento pare ce ne siano in giro 800 e la sua sperimentazione è stata affidata alla polfer in servizio nelle stazioni di Milano e Roma, proprio a ribadire la trasformazione delle stazioni in zone di confine alla stregua degli aeroporti e delle varie frontiere interne. Con questo dispositivo di controllo high-tech i controlli si susseguono più rapidi che mai: il poliziotto inserisce le generalità o passa la banda magnetica del documento elettronico sullo schermo del palmare. Questo è collegato alla banca dati delle forze dell’ordine: in caso di precedenti penali o pendenza di provvedimenti di polizia, un segnale acustico risuona istantaneamente nella sala operativa della polfer che si mette in contatto con la pattuglia per dare ordini sul da farsi ed eventualmente inviare rinforzi, ulteriormente facilitata in questo dal GPS attivo sul palmare.

L’accesso alla banca dati e il coordinamento con la sala operativa sono dunque istantanei e questo permette di controllare un numero sempre maggiore di persone. Questo nuovo dispositivo è dotato anche del software chiamato “face control”, con cui la polizia ha un riscontro sulla corrispondenza della fotografia presente nella banca dati con quella del documento esibito. Non solo: una termocamera permette di individuare le persone attraverso il calore prodotto dal corpo fino a 10 metri di distanza, il che renderà meno complici l’oscurità o un bagno guasto.

Oggi anche nella stazione di Roma Tiburtina sono cominciati i controlli con questa nuova tecnologia: un poliziotto con palmare in mano e due militari con fucile in spalla fermavano ragazzi con zaino in spalla e sopratutto persone con tratti somatici non tipicamente occidentali in una stazione che va assomigliando sempre più ad un centro commerciale di frontiera. Tanti negozi, bar e salotti riservati a chi viaggia in prima classe sull’alta velocità, nessun bagno ad uso pubblico né panchine, per scongiurare il bivacco di chi non ha una destinazione e non consuma, videocamere militari e poliziotti che con armi e nuove tecnologie controllano e selezionano chi ha diritto a muoversi.

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