fonte: Macerie
Quando nelle ultime settimane riportavamo di un’aria vivace nel Centro di identificazione ed espulsione torinese è perché tra le righe di ciò che i reclusi raccontavano da dentro si subodorava una tensione crescente. Da quando il Cie è tornato a funzionare a metà regime, circa 90 posti, dopo le ristrutturazioni dell’inverno passato, è ripreso più opprimente il tran tran della macchina delle espulsioni: polizia che dà la sveglia all’alba ai reclusi trascinando via qualcuno per il rimpatrio, deportazioni di massa, pestaggi a chi prova ad allestire piccole forme di protesta individuale.
È la normalità nell’amministrazione pratica della detenzione dei senza-documenti e per questo c’è poco da stupirsi, come fingono invece di fare i politici umanitari di turno quando il discorso dei Centri rientra strumentalmente nelle loro piccole querelle da salotto buono o da poltrona conferenziale. Sono i casi in cui la figura del recluso assume un’aura sacrificale, costruita sull’immagine della vittima di un sistema che non funziona adeguatamente, o perlomeno che non assicura la giusta dignità durante il periodo di reclusione. Una dignità piccola, quella di cui parlano lorsignori, se si pensa che dovrebbe essere iscritta dentro a mura dalle quali non si può uscire e che è del tutto funzionale al loro rafforzamento.
Capita, però, che i conti non tornino come vorrebbero e alla fin fine l’immagine del recluso vessato non può che andare di pari passo con la realtà di una rabbia crescente, che si alimenta dei piccoli o grandi soprusi quotidiani, come un substrato carsico smuove e macina, e si manifesta talvolta con qualche piccola favilla di ribellione circoscritta a pochi ragazzi. A volte, invece, emerge con più foga e diventa azione collettiva e alle strutture detentive viene appiccato il fuoco. Basta un pretesto come quello di qualche giorni fa: a un recluso viene negato un colloquio con la moglie, lui si taglia le vene. Ma ciò che ha fatto la differenza, stavolta come nell’estate del 2014, è che i reclusi in un clima di solidarietà generale si sono organizzati per palesare che della dignità che si ferma davanti alle sbarre se ne fanno davvero poco.
E così sabato sera prima dall’area rossa, poi subitaneamente da quella bianca e da quella gialla si sono sollevate le colonne di fumo che in Corso Brunelleschi sono andate a confondersi con la prima nebbia novembrina. Nel Centro sono arrivati celermente gli agenti in anti-sommossa e presto anche il prefetto, per constatare il danno subìto e presumibilmente per cercare di gestire al meglio le conseguenze al più grande smacco dopo le ristrutturazioni invernali contro il centro detentivo torinese. I ragazzi sono stati portati fuori, all’umidità del campetto, e tenuti là in attesa di capire come riorganizzare i pochi spazi rimasti illesi. Non è mancata un’altra presenza, sicuramente più vicina negli intenti ai reclusi seppur oltre le mura: una trentina di solidali accorsi per far sentir loro il sostegno caloroso attraverso voci, botti e luci dei fuochi artificiali, luminose nonostante la foschia.
Nella notte, con la temperatura oramai pungente, i ragazzi dell’area rossa tenuti all’addiaccio hanno deciso ancora di non star fermi a subire le decisioni delle forze dell’ordine e hanno sfondato la rete che li separava dall’area gialla per rifugiarcisi dentro. Quale sia l’entità effettiva dei danni alle strutture e cosa deciderà la polizia e il gestore Gepsa riguardo al Cie bruciacchiato cercheremo di capirlo a breve. Di certo c’è che ad ora le aree interessate dagli incendi sono state dichiarate inagibili – pare siano andati distrutti oltre che gli arredi anche gli impianti elettrici – e l’operatività del Centro è stata notevolmente ridimensionata. Altra cosa certa è che all’indomani della rivolta mancava un recluso all’appello; le veline della questura ovviamente stanno ben attente a non riportarlo ma i ragazzi dentro non hanno dubbi: nella confusione qualcuno è riuscito a svignarsela e da allora è uccel di bosco.
Domenica si è svolto il presidio solidale indetto da qualche giorno ma sicuramente corroborato dalla notizia del Centro andato a fuoco poche ore prima. Una cinquantina di persone si sono trovate in corso Brunelleschi e per qualche ora musica, saluti, slogan e interventi accorati hanno fatto compagnia ai reclusi, i quali hanno risposto con altrettanta calda energia; anche qualche momento per saluti personali da parte dei parenti dei due ragazzi rumeni portati giovedì al Cie dopo lo sgombero delle famiglie rom dall’ex caserma di via Asti. I due nonostante siano cittadini comunitari sono stati rinchiusi adducendo come motivazione la loro presunta “pericolosità sociale” e giusto sabato hanno incontrato il giudice che ha deciso per l’espulsione. Fuori dalle mura quella mattina un gruppetto di parenti, amici e solidali aveva atteso insieme notizie dall’avvocato e poi aveva dato vita a un saluto rumoroso prima di andarsene.
Non è sicuramente la prima volta che nel Cie ci finisce anche chi, con le carte in regola, viene definito “socialmente pericoloso”, né è la prima volta che occupanti di case trovati il giorno dello sgombero senza documenti vengano trasferiti al Cie e poi espulsi. Per i due ragazzi, dopo il via libera del giudice, i tempi stringono; non potrebbero, per legge, essere infatti trattenuti nel Cie e quindi, se nulla cambia, ci si aspetta l’espulsione a giorni.
Dopo gli incendi di sabato notte è arrivata la notizia degli arresti di due tunisini che hanno partecipato alla protesta. Le accuse sono di danneggiamento, resistenza, violenza e minacce a pubblico ufficiale. Proprio per questo, dismesso il presidio, i solidali hanno raggiunto il carcere delle Vallette per un altro sentito saluto a tutti i detenuti ma soprattutto a chi, colpevole di aver provato a distruggere una gabbia, è stato trasferito in un’altra.
Così, anche nell’estrema periferia che fa da cornice alla galera cittadina, all’imbrunire in molti hanno salutato i detenuti al grido di “libertà”.
Per aggiungere qualcosa in più a quello che vi abbiamo raccontato, vi proponiamo l’intervista fatta ieri ad una compagna durante la trasmissione di RadioBlackout “Bello come una prigione che brucia”.