Lunedì mattina 50/100 migranti sistemati nell’ex CIE di via Corelli a Milano, ora “riconvertito” in centro di accoglienza, hanno dato vita a una protesta bloccando i cancelli e occupando di fatto il centro al cui interno si trovavano alcuni operatori che sono rimasti chiusi dentro (alcuni giornali riferiscono invece che i 4 si sarebbero invece chiusi nel magazzino / in una stanza da soli perché “fuori infuriava la protesta”).
Secondo quanto viene riportato dai quotidiani, la protesta riguardava le condizioni di vita all’interno del centro, la qualità dei pasti, gli orari di apertura e chiusura dei cancelli ma soprattutto la lungaggine nei tempi per ottenere una risposta alla domanda di asilo che deve essere esaminata dalla commissione regionale prefettizia e che in Italia ha un tempo medio di risposta di un anno, più un altro anno per l’eventuale ricorso.
La protesta viene descritta così dal quotidiano Repubblica “I migranti non hanno fatto gesti violenti e non ci sono stati feriti né contusi, anche se la polizia ha cercato di riportare l’ordine e di convincere le persone a tornare nelle loro stanze, senza opporre resistenza. Il tutto si è svolto all’interno, senza che sia stato possibile dalla strada accedere alla struttura, che è considerata zona militare.”
Al termine della protesta, durata circa 4 ore, e che ha visto l’immediato intervento intimidatorio della polizia antisommossa, una ventina di persone – individuate come “coloro che hanno guidato la rivolta” – saranno divise e trasferite in altre strutture lombarde e denunciate per “sequestro di persona”, avendo chiuso gli operatori della GEPSA all’interno della struttura durante la protesta.
Ricordiamo che GEPSA, società francese facente parte della multinazione GDF Suez Engie e specializzata in “gestione dei servizi ausiliari negli stabilimenti penitenziari” e nella logistica della detenzione, in Italia, oltre all’ex CIE di Milano gestisce anche il CIE di Ponte Galeria a Roma e il CIE di Corso Brunelleschi a Torino, ed è in corsa per l’appalto dell’ex-CIE di Gradisca d’Isonzo.
Non è la prima volta che nei centri cosiddetti di accoglienza avvengono simili proteste, come abbiamo documentato qui ma va sottolineato come la stampa abbia affrontato la questione dando una versione molto diretta e senza tanti giri di parole rispetto ai reali motivi della repressione:
“Saranno tutti allontanati dai centri d’accoglienza milanesi e spostati in altre province lombarde, mentre si procederà alla denuncia per occupazione, resistenza a pubblico ufficiale e sequestro di persona. Reati molto gravi, per i quali è previsto il processo. E che certo non mancheranno di avere un peso nella valutazione della domanda di asilo presentata alla commissione prefettizia regionale”
“Le misure sono state decise anche a titolo di ammonimento per gli oltre 2.700 rifugiati che attualmente risiedono nelle varie strutture milanesi, sia quelle comunali, sia quelle statali, tutti richiedenti asilo.”
“L’idea delle istituzioni milanesi è comunque quella di dover “dare un segnale forte” ai profughi sul fatto che “comunque è necessario avere un atteggiamento collaborativo e non mettere a rischio la sicurezza di chi lavora nei centri…” (fonte Repubblica)
Al solito, a parte un misero elenco, nessuna riflessione sui motivi che hanno spinto queste persone a rivoltarsi contro un sistema volto solo alla gestione e al controllo delle persone private delle libertà più elementari.
Nell’ex Cie di Via Corelli, teatro di numerose rivolte sin dai tempi in cui questa struttura era un centro di identificazione ed espulsione (poi chiuso in seguito ai pesantissimi danneggiamenti alla fine del 2013 e riaperto ad ottobre 2014 come centro di accoglienza) sono ammassate da tempo 500 persone, la “metà dei rifugiati sono ospitati in tenda perché non c’è più posto nelle palazzine in muratura”, in attesa di un probabile diniego: nel 2015 le Commissioni di Milano hanno respinto 3098 delle 4716 domande d’asilo presentate, il 65,7%.
La situazione in questo limbo è intollerabile, e ogni giorno le persone bloccate in quella che ipocritamente viene chiamata “accoglienza” portano avanti azioni e proteste. Senza considerare che i sempre più frequenti dinieghi riportano le persone nella condizione di illegalità alla quale segue poi il provvedimento di espulsione.