Roma – Alla luce dei fatti: hub maior minor cessat

Sono passati pochi giorni dal corteo che ha attraversato il centro di Roma per chiedere al Comune “l’istituzione di un centro di primissima accoglienza”, ovvero un nuovo Hub, con il riconoscimento del progetto Baobab Experience attraverso “un tavolo permanente di confronto con le diverse realtà che si occupano di accoglienza nella Capitale”, e cioè la cogestione dell’accoglienza in città, con tanto di collaborazione con la Questura per la registrazione delle persone “ospitate”, come dichiarato già in passato.

Un corteo dalle rivendicazioni apparentemente larghe, raccolte in uno slogan (“Proteggiamo le persone, non i confini”, tra l’altro coniato dal Comitato 3 ottobre, onlus che dal 2014 si preoccupa di coprire le stragi in mare con il velo ipocrita delle commemorazioni istituzionali) che umanizzava il sistema di gestione e controllo delle persone migranti, chiamato sistema di accoglienza.

Tutti i media hanno documentato la manifestazione e sotto questi riflettori hanno scelto di esserci anche i movimenti di lotta per la casa, organizzazioni che mai avevano dimostrato prima l’accettazione di un nuovo modello di gestione delle migrazioni, in linea con un sistema di veloci e restrittive riforme che sta riguardando tutta l’Europa. Ricordiamo infatti che dietro le promesse di “ricollocazione” e “accoglienza degna” si sono nascosti i progetti di costruzione di numerosi nuovi Lager, chiamati Hotspot, che avrebbero dovuto favorire questo progetto di “divisione in quote”, fuori e dentro i confini nazionali, ma che in realtà sono dispositivi per favorire maggiormente le espulsioni e la differenziazione tra “migranti economici” (da criminalizzare) e “rifugiati” (da smistare, almeno in parte, e per un determinato periodo di tempo).

czvjfduxcaaxxt4Sotto un’altra luce, nell’esistente Hub di prima accoglienza di via Ramazzini a Roma, continua la lotta delle persone costrette a sopravvivere nelle tendopoli recintate e gestite dalla Croce Rossa.
Il 10 dicembre, con un blocco stradale su via Portuense, le persone che vivono nelle tendopoli hanno voluto protestare contro la mancata distribuzione del pocket money, le condizioni di vita tra tende e container, le mancate risposte istituzionali riguardo le richieste di protezione internazionale e di relocation che le costringono ad attendere a tempo indefinito tra la gestione paternalista e repressiva della CRI e i continui attacchi delle formazioni fasciste che da tempo hanno attivato una campagna contro la presenza di immigrati nel quartiere.
Siamo infatti a Portuense, a pochi chilometri da Magliana, un quartiere che ha visto una recente escalation di violenza fascista e una giornata di opposizione da parte di militanti antifascisti/e, una zona di Roma dove le destre partitiche sono quotidianamente impegnate in banchetti, volantinaggi e attacchinaggi chiaramente rivolti ad alimentare l’odio contro le persone immigrate, e dove i comitati di commercianti e cittadini s’impegnano a stilare dossier sulle “malefatte criminali” degli immigrati, succubi dell’ipocrita cultura razzista che sotterra una realtà sociale fatta di extralegalità diffusa e spesso organizzata, capaci addirittura di virare il linguaggio xenofobo sulla “difesa delle nostre donne” in una zona teatro di un femminicidio a opera di una guardia giurata.

All’ombra delle tendopoli di via Ramazzini vivono persone già passate attraverso le identificazioni forzate negli hotspot, i controlli nelle zone di sbarco e le proteste in altri centri di prima accoglienza: sembra infatti che alcune di loro siano state trasferite a Roma a scopo punitivo proprio per aver portato avanti numerose proteste in altri centri di gestione, smistamento e controllo chiamati Hub.
La gestione della Croce Rossa è riassumibile in questi aspetti: assenza di attività e informazioni legali, contrasto alle assemblee spontanee dei “loro ospiti”, gestione della turnazione degli “ospiti” riguardo la pulizia delle tendopoli, gestione delle persone su base numerica, protezione mediatica della tendopoli a seguito dei numerosi presidi fascisti che si sono susseguiti all’esterno del campo.

2d83r6x-jpgQuella di via Portuense non è la prima protesta di chi vive nei vari centri presenti a Roma: per citare le più recenti, lo scorso 15 dicembre altri richiedenti asilo hanno protestato organizzando un blocco stradale nei pressi del Policlinico di Tor Vergata. La protesta è stata contenuta dall’intervento della polizia, e nessuna agenzia di stampa ha riportato quanto accaduto.
A maggio una forte contestazione era avvenuta anche nello SPRAR di via Tiburtina, una delle strutture del sistema considerato “fiore all’occhiello” dell’accoglienza italica.

Durante questo lungo anno abbiamo sottolineato le ragioni e le modalità delle lotte portate avanti dalle persone costrette nel circuito dell’accoglienza, proteste quotidiane che spesso vengono raccontate in semplici trafiletti dalle cronache locali – prive di una contestualizzazione generale e delle conseguenti operazioni repressive – o totalmente ignorate da chi, come per creare una gerarchia tra le lotte, le considera ininfluenti a confronto delle rivolte che hanno distrutto i CIE negli ultimi anni. Le lotte costanti in questi centri accoglienza, oltre a essere strettamente connesse con quelle nei CIE, descrivono puntualmente l’utilità dei centri per la gestione e la messa a lavoro delle persone costrette nel limbo giuridico del “richiedente asilo”.

L’alta percentuale di dinieghi alle domande di protezione internazionale (a Roma, circa il 60% nel 2015, in altre città si arriva all’80%) sottolinea ancora di più quanto il circuito dell’accoglienza sia un eterno vaso comunicante con la macchina delle espulsioni, e quindi con i Centri di Identificazione ed Espulsione. Difatti, i/le richiedenti protezione internazionale vengono smistati arbitrariamente nei vari centri: nell’impossibilità di lavorare nei primi 60 giorni dalla richiesta,viene imposto loro di svolgere attività socialmente utili (ovvero lavoro gratuito) per ripagare i costi dell’accoglienza; dopo il diniego rischiano ogni giorno la reclusione nei CIE e una conseguente espulsione oppure vengono raggiunti da un foglio di espulsione a 7 giorni e costretti – data la militarizzazione delle frontiere – a rimanere in Italia irregolarmente alimentando le schiere della manodopera invisibile e sfruttata.
Non si tratta di semplici ipotesi ma di quello che è avvenuto a via Cupa, originaria sede del Baobab, e avviene normalmente a Roma come altrove: come nel novembre 2015 quando, dopo uno dei tanti rastrellamenti e identificazioni, 12 persone furono portate nel CIE di Ponte Galeria; o nel luglio di quest’anno, con 14 persone espulse dal territorio nazionale e 10 denunciate a piede libero per aver opposto resistenza al fotosegnalamento o ancora come lo scorso 11 agosto, quando a 20 persone fermate a via Cupa e portate in questura è stato consegnato un decreto di espulsione.

Proprio ieri 20 dicembre si è chiuso a Roma il bando per la gestione di un nuovo Hub da 1000 posti, che vede tra gli edifici adocchiati negli ultimi tempi anche la palazzina occupata da Progetto Degage e sgomberata 2 anni dopo dalle forze dell’ordine. In questo caso, l’utilità intravista dalle istituzioni sarebbe proprio la vicinanza con via Tiburtina, ormai diventata una vera e propria “tonnara” per i rastrellamenti della Questura contro le persone migranti.
E così a breve, secondo gli auspici di molti, anche a Roma potremmo non vedere più i/le migranti “per strada”, saranno tutti e tutte gestiti e controllati dallo stato in strutture apposite, come già successo a Idomeni, a Calais, a Ventimiglia, a Como. E questo non andrà certo incontro ai desideri e bisogni delle persone che continuano, nonostante tutto, a seguire un loro progetto di vita ma si tratterà di un ulteriore rafforzamento del regime delle frontiere.

I continui attacchi fascisti nei confronti dei centri d’accoglienza sparsi in tutta Italia dovrebbero costringerci a essere ulteriormente chiari, evitando di concepire come un’opportunità l’affiancarsi al pietismo borghese e colonialista.
Cosa potrebbe accadere a Roma se, con le frontiere blindate, la prospettiva di vita delle persone in transito fosse quella di occupare edifici abbandonati insieme a chi lotta da anni per una casa per tutti/e?

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