CIE e deportazioni – La libertà è il fuoco della rivolta: perché lottiamo contro Cie, frontiere e accoglienza

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A seguito delle dichiarazioni del ministro dell’Interno Minniti di voler aprire un CIE in ogni regione, puntando a una capienza complessiva di 1600 posti, i Centri di Identificazione ed Espulsione sono tornati al centro dei riflettori mediatici e della pubblica attenzione.

Le dichiarazioni del governo non ci stupiscono. A seguito degli attentati nel cuore d’Europa, dal Bataclan a Nizza sino al recentissimo attentato di Berlino, la paura di “attacchi terroristici” è divenuta parte del quotidiano. Basti pensare all’agghiacciante vicenda del cinema evacuato a Torino perché madre e figlia sordomute, di origine maghrebina, avevano destato sospetti e scatenato il panico solo perché comunicavano su Whatsapp. I governi d’Europa, artefici e complici dei massacri in medioriente, sfruttano il terrore di ritorno per rafforzare il paradigma dello stato di emergenza permanente e rispolverare le solite armi: contenimento degli stranieri irregolari e potenziamento della macchina delle espulsioni.

Ogni anno in Italia 5000 donne e uomini senza documenti vengono prima rinchiusx e poi condottx su un aereo destinato al rimpatrio nel pesantissimo silenzio generale. Non pago, il governo italiano vuole intensificare gli accordi bilaterali tra l’Italia e i Paesi di origine, per rendere più veloci ed efficienti le deportazioni. Ad oggi l’Italia mantiene tali accordi con Egitto, Tunisia, Nigeria e Marocco, Paesi che applicano leggi contro l’omosessualità, che ammettono la tortura di Stato e la condanna a morte e che perseguitano attivisti contrari al regime e giornalisti. Paesi, tra l’altro, che accettano tali accordi in cambio di afflussi di capitale destinati a ristrutturazioni in chiave neoliberista.

Le strategie politiche ed economiche dell’Europa e degli stati-nazione che la compongono ridefiniscono continuamente le caratteristiche e la provenienza delle persone che possono essere incluse, accolte, integrate, protette e quindi, necessariamente, di quelle che possono e devono essere escluse, respinte, imprigionate, uccise. Lo strumento con il quale viene attuata questa divisione è il diritto. I documenti ne sono il suggello. Uno stato di diritto, che sia una democrazia o un regime totalitario, ha bisogno, per esercitare il proprio potere politico, di inscrivere l’esistenza delle persone in un preciso statuto giuridico che valga all’interno dei propri confini. Chi è senza documenti è privo di questo statuto, non è un cittadino, un rifugiato politico, un turista cittadino straniero: non ha diritti, non occupa un luogo politico riconosciuto ma una soglia pericolosa, dove lo stato e la polizia esercitano tutto il proprio arbitrio e la propria violenza. Queste esistenze non possono essere tollerate in quanto sono al di fuori della sovrapposizione giuridico-politica di persona e cittadino che permette allo stato di funzionare; esse svelano così la violenza che fonda lo stato di diritto attirandola a sé.

Solo in Italia sono centinaia di migliaia le persone migranti che si trovano in questa situazione. È chiaro che tutto questo costituisce un problema per lo stato, ma è altrettanto chiaro che quest’ultimo, come anche privati interessi, sfruttino questo problema a proprio vantaggio. CIE, centri di accoglienza, SPRAR, ma anche i centri per migranti “gestiti dal basso” sono allo stesso modo strumenti della stessa  logica: quella dello stato di diritto. Così, a seconda di calcoli politici ed economici, queste persone dovranno essere o incluse in uno statuto giuridico o definitivamente escluse, e quindi respinte al di là delle frontiere.

È alla soglia di questa divisione tra inclusione e esclusione che si generano campi di detenzione, di identificazione, sfruttamento economico dei lavoratori senza documenti, speculazioni (il businness dell’accoglienza con annesse mafiette e malefatte). Ma è ancora qui che si generano lotte e complicità, le stesse lotte che hanno portato alla distruzione dei centri, agli scioperi, alle evasioni e alle innumerevoli proteste quotidiane portate avanti dai/dalle reclusx.

La realizzazione di nuovi centri di identificazione e il ripristino a pieno regime di quelli già esistenti dovranno dunque fare i conti con la resistenza dei e delle reclusx che, grazie a rivolte, incendi e parziali o totali danneggiamenti, ha portato negli anni al ridimensionamento dei centri detentivi dai 13 originari ai 4 attuali (Torino, Roma, Brindisi e Caltanissetta). Anche qui, nel CIE di Ponte Galeria, una rivolta del dicembre 2015 ha portato alla chiusura dell’intera sezione maschile, mentre rimane aperta la sezione femminile (unica in Italia). Siamo inoltre consapevoli che l’amore per la libertà, accanto alle rivolte all’interno dei CIE, non fermerà le azioni distruttive portate avanti dall’esterno – di cui è accusatx qualche compagnx ancora in carcere – che hanno contribuito a inceppare la macchina delle espulsioni.

Solidarietà a chi si oppone a questa crudeltà!

Il nostro continuo pensiero va a tuttx i/le compagnx rinchiusx nelle carceri e a chi resiste nei CIE. Per ribadire il nostro odio verso qualunque prigione, vecchia o nuova che sia, e oltrepassare con le nostre urla quelle mura che lo stato vorrebbe come luogo e simbolo di silenzio, oppressione e isolamento, ricordiamo l’appuntamento del presidio mensile a Ponte Galeria in solidarietà con le donne recluse, che si terrà sabato 21 gennaio, con appuntamento alle 15:00 a stazione Ostiense per andare tutte e tutti insieme.

Nemiche e nemici delle frontiere

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