Lo scorso 12 gennaio è stato aperto il CPR di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, in Basilicata. La struttura, che fu confiscata alla criminalità organizzata, era stata dal 1999 utilizzata prima come campo a porte aperte per i lavoratori immigrati stagionali delle campagne circostanti, poi come centro accoglienza per richiedenti asilo ed infine, nell’aprile 2011, trasformato in pochissimi giorni in un CIE, attivo per alcuni mesi prima della chiusura. Questa struttura dunque rappresenta un chiaro esempio di come i vari tipi di centri per migranti si integrino l’un l’altro, e possono cambiare utilizzo con un tratto di penna, trasformando un campo di lavoro in un centro di reclusione e deportazione. Come nel caso di Bari, anche questa riapertura è stata poco pubblicizzata da autorità e media. Dopo la chiusura del lager di Pian del Lago a Caltanissetta, in seguito alla rivolta dello scorso dicembre che aveva pesantemente danneggiato la struttura, all’inizio dell’anno risultavano solo 4 CPR aperti: Bari, Brindisi, Roma e Torino, con soli 390 posti effettivamente disponibili rispetto ai 604 teorici, viste le aree distrutte da precedenti rivolte nei centri di detenzione di Roma e Torino. Il governo ha accelerato dunque l’apertura del CPR a Palazzo San Gervasio, la cui capienza prevista è di 150 posti, attraverso una “procedura negoziata per l’affidamento urgente del servizio della gestione straordinaria”, in attesa della conclusione del bando europeo della durata di 3 anni, che prevede un appalto di 6.200.000 euro.
Nella procedura per l’affidamento della gestione straordinaria, dell’importo di 750.000 euro, si specifica infatti che l’urgenza di aprire il CPR è dovuta “al fine di rispondere all’esigenza rappresentata dal Ministero dell’Interno con nota prot. n. 17516 del 10 novembre 2017, di attivare, entro la fine del mese di dicembre 2017, il Centro di Permanenza per i Rimpatri di Palazzo San Gervasio (PZ) in considerazione del rilevante numero di cittadini stranieri provenienti dalla Tunisia che in questi giorni stanno raggiungendo le nostre coste e nei confronti dei quali occorre assicurare l’esecuzione del rimpatrio”. Fino a dicembre questo compito di recludere i tunisini fino alla deportazione, attraverso i voli organizzati due volte a settimana, era stato svolto dal CPR di Caltanissetta (da qui nel 2017 erano state deportate verso la Tunisia 1.565 persone), ora chiuso, oltre che dall’hotspot di Lampedusa.