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Oggi, 20 febbraio, e ieri a Roma si è tenuta la Prima Conferenza nazionale di operatori e operatrici degli sprar, dal titolo “L’accoglienza che verrà: i volti, le voci, le storie”, che ha visto pare 1500 persone ritrovarsi in una sala dell’Auditorium – Parco della Musica a confrontarsi e progettare l’evoluzione del sistema Sprar.
Il programma della due giorni ci lasciava già intuire che al centro del dibattito non ci sarebbero certo stati i volti, le voci e le storie delle persone costrette nel circuito dell’accoglienza e che ogni giorno a questo si ribellano.
Abbiamo deciso così di esserci anche noi là davanti, stamattina, a provare a raccontare con altre parole cosa si nasconde dietro l’ipocrita sistema Sprar, fiore all’occhiello del controllo delle persone migranti. Essendo impedito l’accesso alla sala dell’auditorium alle persone non accreditate, siamo rimastx lì davanti a distribuire un volantino intercettando chi si apprestava a partecipare alla conferenza. Intanto un nostro compagno è riuscito comunque a superare i controlli, entrando nella sala per esprimere il suo giusto odio, che è anche il nostro, per Minniti e le infami leggi di stato che stanno uccidendo e segregando nei campi in Libia migliaia di persone. Dopo il volantinaggio e alcuni scambi di idee con qualche strenuo difensore del suo lavoro, abbiamo deciso di andare via lasciando uno striscione affacciato su una strada che porta all’Auditorium.
Agli operatori che oggi ci hanno tenuto a dirci che c’è molta affinità tra noi e loro, vogliamo rispondere che da parte nostra non può esserci alcuna affinità con chi ha scelto con consapevolezza di essere complice di questo sistema di controllo, gestione, sfruttamento ed esclusione delle persone. E nessuna affinità con chi oggi sedeva tranquillamente nello stesso posto in cui sarebbe apparso Marco Minniti, e cioè lo stato in tutta la sua imponente violenza.
Alcune nemiche e nemici delle frontiere
testo del volantino distribuito oggi:
Dietro il volto umano: l’ipocrisia e la violenza del sistema S.P.R.A.R
Nascosto sotto la retorica umanitaria della “buona accoglienza”, il sistema S.P.R.A.R (ovvero i centri di seconda accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo), è parte integrante della logica di differenziazione, utilizzata dalla stato per categorizzare, separare e isolare determinate persone o gruppi. Tale sistema, in questo caso specifico, mira a definire chi tra i migranti è considerato accettabile dalla legge e chi invece sarà costretto a ingrossare le fila degli indesiderabili. In altre parole, decide chi sarà meritevole di ricevere accoglienza, protezione, documenti, e chi viceversa diventerà di conseguenza irregolare, destinato alla reclusione nei C.P.R. (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) e alla deportazione.
Negli SPRAR si può restare da un minimo di 6 mesi fino a 2 anni, in attesa che le lungaggini burocratiche diano esito alle richieste d’asilo. In questo periodo le persone rimangono in tali strutture, gestite da operatori e operatrici di cooperative, associazioni ed enti che ne dettano totalmente i tempi e le modalità di vita, limitandone di fatto la libertà e l’autogestione.
Questo sistema restrittivo e infantilizzante, che mira al controllo totale delle vite, affonda le sue radici in una cultura paternalista e colonialista che considera e desidera le persone immigrate totalmente incapaci di autodeterminarsi e scegliere per se stesse, che si tratti della vita quotidiana, sociale o lavorativa, vedendole piuttosto come vuoti contenitori da riempire col nostro sapere bianco.
Riteniamo importante sottolineare come l’ipocrita sistema SPRAR, dietro i suoi bei discorsi sulla “buona accoglienza” e sull’integrazione, sia solo un altro anello della catena di controllo, gestione e sfruttamento delle persone. Basti pensare alla repressione che subisce chi prova a ribellarsi alle restrizioni imposte dai gestori (numerosi sono i casi di chi è stato espulso dal circuito dell’accoglienza;di chi è stato denunciato da operatori o gestori, perdendo il diritto a richiedere asilo e diventando in automatico un irregolare; numerose inoltre sono le proteste individuali o collettive portate avanti dentro e fuori questi centri). La cosiddetta buona accoglienza di tali strutture, che non abbiamo remore a definire simili a prigioni, è dovuta al fatto che molti di questi centri “ospitano” un numero contenuto di persone, e questo per evitare le grandi proteste incontrollabili che hanno caratterizzato la vita ristretta dei e delle immigrate obbligate nei centri accoglienza di più grandi dimensioni.
Non di minore importanza è il discorso riguardante l’integrazione tramite lavoro volontario gratuito. Si tratta cioè di svolgere lavori socialmente utili non retribuiti, con l’intento di risarcire il paese che ti accoglie e dimostrare volontà di integrarsi perfettamente nel tessuto sociale, cosa che potrebbe favorire il giudizio della commissione che esaminerà la richiesta d’asilo. Questa forma di schiavitù legalizzata, oltre a riprodurre dinamiche razziste e sessiste (con una netta divisione di genere tra i lavori destinati agli uomini e alle donne), arricchisce aziende ed enti privati e pubblici con cui si fanno accordi per fornire manodopera a costo zero e ricattabile dal mancato ottenimento di un pezzo di carta. Pezzo di carta che non è nemmeno assicurato dopo anni costretti, gestiti, controllati, repressi e sfruttati in queste strutture, perché, nonostante i tanti proclami sull’Italia che salva e accoglie migranti, i dati stessi ci confermano che il 60% delle richieste di protezione viene rigettato. Il richiedente asilo torna così di nuovo clandestino, ad affrontare nelle strade la violenza razzista e della polizia, senza la possibilità di trovare un lavoro regolare e con la probabilità di finire in un centro di espulsione.
Tutto il nostro odio e la nostra rabbia vanno ai complici di questo sistema.
La nostra solidarietà a chi ogni giorno ci dimostra che il desiderio di libertà è più grande di ogni gabbia, umana o disumana che sia.
Né controllo né detenzione: libertà per tutte e tutti!
Alcune nemiche e nemici delle frontiere