Nuova Zelanda – Terrorismo nero nella terra della lunga nuvola bianca

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dalla Nuova Zelanda. Riteniamo che le informazioni e le considerazioni riportate possano aiutarci a comprendere la situazione nel paese oltre le poche notizie comparse (brevemente) sui media dopo la strage di Christchurch.
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Aotearoa, il nome in lingua Māori per la Nuova Zelanda che significa “Terra della Lunga Nuvola Bianca”, ha subìto il suo primo attentato di natura fascista. Sono passati 5 giorni dall’attentato alle due moschee che ha causato la strage nella città di Christchurch e la risposta del paese è stata di solidarietà, shock e amore.

La Prima Ministra Jacinda Ardern, nella prima conferenza stampa dopo l’attentato del 15 Marzo, ha dichiarato “Questo non siamo noi” riferendosi al manifesto del terrorista fascista e al livello di violenza raggiunto.

Da una parte ha ragione, in queste due isole in mezzo dell’oceano Pacifico di solito non si vive una violenza di tale livello. Parte del trauma collettivo deriva da una violenza inimmaginabile per questo paese.

Per quanto la Prima Ministra, Jacinda Ardern, parli del giorno più buio per la Nuova Zelanda, ricordiamoci i secoli di colonizzazione.

Contesto storico politico

La prima nave europea ad arrivare sulle sponde di Aotearoa nel 1642 era dell’olandese Abel Tasman. Ma solo agli inizi del 1800 i primi Europei cominciano a stabilirsi. Nel 1835 la Nuova Zelanda si dichiara protettorato dell’Impero Britannico. Nel 1840 viene firmato Te Tiriti o Waitangi, il Trattato di Waitangi, il documento legale più vicino ad una costituzione che ha questo paese.

Te Tiriti o Waitangi, scritto in lingua Māori e Inglese, venne firmato da rappresentanti della corona inglese, guidati dalla Regina Vittoria e 540 capi di Māori, tra cui 13 donne. Nella versione nella lingua indigena I Rangatira (capi) consentivano di mantenere la loro autonomia e autodeterminazione sulle loro Iwi (tribù) e hapu (clan) e la corona inglese manteneva piena autonomia sui propri sudditi. La versione inglese dice ben altro e riconosce la Nuova Zelanda come parte dell’Impero Britannico con a capo la Regina Vittoria. Dal 1860, dal periodo delle guerre sanguinose e violente per la conquista delle terre Māori e fino ai giorni nostri, il trattato in lingua Māori è stato continuamente violato. Il fatto che il governo neozelandese non si sia mai scusato per il massacro dimostra le radici, sia storiche che contemporanee, del razzismo insito nella società e il contesto in cui avviene questo attentato.

Contesto attuale

Anche la Nuova Zelanda negli anni ‘80, come molti altri paesi ricchi, si è immessa sulla traiettoria neo-liberista, nonostante la sua piccola popolazione e la sua distanza geografica dai grandi centri del potere capitalista. Ciò ha continuato ad aumentare le ineguaglianze sociali tra ricchi e poveri, tra indigeni e coloni bianchi. Sempre in quegli anni, iniziano il movimento di lotta per i diritti Māori, e il primo movimento anti-razzista dei Pākehā (bianchi neozelandesi).

Dopo la recessione del 2008 la Nuova Zelanda fu duramente colpita e 9 anni di politiche neo-liberiste del Governo del National Party, con a capo John Key che portò avanti una guerra mediatica contro i poveri, si traducono in una nuova guerra coloniale contro i Māori. Si osserva un innalzamento del tasso di disoccupazione, aumentano le persone senza casa e il numero delle famiglie che pur lavorando non riescono a dar da mangiare ai propri figli.

Le fasce più povere di questo paese sono i Māori e le persone dalle isole del Pacifico, “importate” come manodopera a basso costo in Nuova Zelanda tramite politiche di immigrazione dal dopoguerra a oggi. Altro capitolo buio della storia di questo paese sono le Dawn Raids (retate dell’alba) in cui ci furono deportazioni di massa di Samoani, Tongani, Cook Islanders.

In concreto le conseguenze di queste politiche per i Māori sono:
– Avere un’aspettativa di vita intorno ai 65 anni, vivendo 20 in meno dei Pākehā.
– Vivere in condizione di povertà.
– Morire di malattie curabili legate soprattutto alle condizioni disastrose in cui sono costretti dalla povertà.
– Le donne e le/i bambine/i (tamariki) Māori subiscono più violenza domestica e sessuale, ed è più probabile che i tamariki vengano tolti dalle famiglie creando un’altra “stolen generation” (generazioni di sottratti alla cultura indigena) in nome dell’assistenza sociale.

I maori rappresentano il 15% della popolazione, il 60% di loro vive in carcere. Innumerevoli ricercatori locali hanno dimostrato che Māori e persone dal Pacifico vengono arrestate più frequentemente e ricevono sentenze più lunghe.

Mentre ciò avviene a livello locale, a livello globale si osserva un avanzamento delle destre razziste e fasciste. Questi segnali dimostrano che il razzismo colonialista non è mai scomparso e un radicalismo di destra sta aumentando.

Il razzismo colonialista si è spesso presentato sotto forma di leggi, che legittimavano la supremazia dei bianchi e negavano l’esistenza della cultura e della lingua Māori. Nel 2018 il paese ha avuto un dibattito sulla necessità (o meno) dell’insegnamento della storia del colonialismo nelle scuole, e sull’obbligo dell’insegnamento della lingua Māori nelle scuole. Durante questo dibattito le parti politiche conservatrici hanno mostrato tutte le loro posizioni ignoranti e razziste.

Il rifiuto sistematico di insegnare la storia della colonizzazione di questo paese crea una vulnerabilità verso le politiche dell’odio. L’Australia, da questo punto di vista, è ancora peggiore e per questo il terrorista poteva credere che queste terre siano un’ “estensione” dell’Europa e non che lui sia un ospite, anche non gradito, su terre indigene e aborigene.

Nel 2017 Taika Waititi, regista Kiwi/Māori, lanciò una campagna contro il razzismo insieme alla Commissione per i Diritti Umani neozelandese. La sottile ironia riflette un razzismo subliminale e nascosto, come una tortura della goccia cinese per chi la subisce, composta di sguardi, battute e uso di un linguaggio esplicitamente razzista solo quando si è al sicuro solo tra bianchi. Insieme a questa campagna la Commissione per i Diritti Umani e il Consiglio Nazionale delle Donne Musulmane (qui in NZ) da 5 anni chiedono a polizia e intelligence di monitorare e agire contro l’aumento di minacce verso la comunità musulmana e altre comunità come migranti, rifugiati e LGBTQI+.

Nell’ agosto 2018 due rappresentanti della destra canadese si sono presentati su queste sponde, esprimendo ideologie di odio razziale, islamofobico, omo/transfobico e misoginia. Questi avevano affittato un locale del comune di Auckland e l’evento era tutto esaurito (più di 300 biglietti). Quando il comune di Auckland ha scoperto chi fossero questi soggetti li ha cacciati da tutti i locali di proprietà del comune, con il messaggio chiaro che la città più multiculturale del paese non può ospitare chi propaganda odio e intolleranza.

Riposta del paese

Per quanto eravamo coscienti dei problemi di questo paese nessun@ poteva immaginarsi un attentato di quella brutalità. A cinque giorni di distanza tutte le parti sociali e politiche parlamentari hanno condannato l’atto di terrorismo fascista. Ci sono state diverse manifestazioni e sit-in in memoria delle 50 vittime e in solidarietà alla comunità musulmana.

Mentre leggo un articolo di Moana Jackson, accademico e leader Māori, le sue parole chiariscono le sensazioni che sto provando. Rifletto che le parole di Martin Luther King riecheggiano nei tanti gesti di amore che avvengono in questi giorni successivi alla strage, ma ci ricorda che anche Martin Luther King parlava di azione politica per cambiamenti concreti e reali.

Per me è importante che Jacinda Ardern, senza esitazione e riferendosi al manifesto del terrorista, ha dichiarato “Questo non siamo noi” in un mondo dove odio, razzismo diventano sempre più accettati e normalizzati. Altrettanto è importante che i neozelandesi bianchi non lo usino come scudo dietro cui nascondersi per evitare che avvengano dei cambiamenti concreti, oltre la riforma delle armi da fuoco.

In un paese dove culturalmente si evita a tutti i costi il conflitto sociale attraverso la “Tyranny of Politeness”, la tirannia delle buone maniere, che di fatto proibisce di parlare di politica e espressioni di rabbia. Dalla mia esperienza politica e personale la rabbia di fronte alla politica dell’odio ha il suo posto nella lotta quanto l’amore e la solidarietà. Mentre riflettevo ieri mi chiedevo in che altro modo si esprimerà questa rabbia repressa, che qui di solito si manifesta negli alti numeri di violenza sessuale, domestica e suicidi.

La mia speranza, come sempre in questo paese, sono i leader e la cultura Māori che combattono la supremazia bianca da quando era chiaro che i colonizzatori inglesi avevano intenzioni ignobili. Spesso hanno scelto la via della non violenza, per assicurarsi la sopravvivenza del proprio popolo. I loro valori culturali come Tino Rangatirotanga (auto-determinazione), Aroha (amore), Manaakitanga (ospitalità e supporto), Turangawaewae (sapere la propria identità e posto nel mondo) e Whanaungatanga (legami umani sanguigni e oltre) sono valori che mi aiutano nel mio quotidiano ad agire in modo da riflettere il cambiamento che voglio vedere. Quindi mi unisco alla Ka whawhai tonu mātou – la lotta continua.

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