Nella notte di martedì 26 marzo la petroliera ElHiblu I soccorre un barcone con a bordo 108 persone fuggite dalla Libia. Obbedendo a quanto richiesto dalla guardia costiera libica, la nave si dirige verso Tripoli. Mercoledì mattina, a pochi chilometri dalla costa, accorgendosi della destinazione, le persone migranti hanno cominciato a protestare, non volendo essere di nuovo recluse nei lager libici. Di conseguenza, l’equipaggio, composto da 6 persone compreso il capitano, decide di far rotta verso nord, in direzione di Malta. “Non c’è stata violenza, assolutamente” hanno dichiarato i membri dell’equipaggio, ma politici e media europei e libici, artefici e complici dei campi di concentramento dove migliaia di persone vengono torturate, affamate, stuprate e uccise, hanno subito gridato scandalizzati al “dirottamento” e alla “pirateria”.
La scorsa notte, in prossimità dell’isola, sono intervenute le forze speciali maltesi, affiancate da motovedette e un elicottero, prendendo il controllo della nave e conducendola nel porto di La Valletta.
All’arrivo, 103 persone (comprese 19 donne e 12 bambini) sono state portate da bus della polizia nel centro di detenzione per migranti di Marsa, eufemisticamente chiamato “Initial Reception center”. Altre 5 persone, probabilmente accusate di essere a capo della protesta, sono state invece fatte scendere ammanettate con fascette di plastica e sono state recluse nel centro di detenzione di Hal Safi.
Nel campo di concentramento di Marsa sono ancora recluse le 47 persone sbarcate il 9 gennaio dalle due ONG Sea Watch e Sea Eye. Malgrado le promesse di ricollocamento nei vari paesi europei disposti ad accettarle, queste persone sono sequestrate da due mesi e mezzo dalle autorità maltesi. Per questo motivo dal 5 all’8 marzo avevano protestando ricorrendo ad uno sciopero della fame, rivendicando la fine della detenzione e l’avvio dei trasferimenti in Europa. La settimana successiva 13 persone erano riuscite a fuggire dal lager, e altre due durante un trasferimento in un ufficio. Solo 5 persone sono poi state riprese dalle forze di polizia maltesi, e riaccompagnate a Marsa.
Il campo di concentramento di Hal Safi è tristemente famigerato per le terribili condizioni di reclusione. È un’ex base militare, sotto la vigilanza dell’esercito, dove sono detenute le persone in attesa della deportazione. Nel gennaio dello scorso anno qui era avvenuta l’ultima rivolta delle persone recluse contro le condizioni di vita: 9 persone sono ancora sotto processo per questi fatti.
Quello della Elhiblu è solo l’ultimo caso che vede coivolte navi commerciali. Le navi in viaggio nella zona del Mediterraneo compresa tra la Libia e l’Italia, sono ormai da mesi complici nel respingimento dei/delle migranti. Violando l’articolo 33 della convenzione di Ginevra (che vieta i respingimenti verso paesi in cui la vita o la libertà dei/delle migranti sarebbero minacciate), quando intervengono nel soccorso di imbarcazioni in difficoltà, accettano di riportare le persone nei lager libici.
Ricordiamo la protesta che aveva visto protagoniste, nel novembre 2018, 95 persone a bordo del cargo Nivin giunto a Misurata: per più di 10 giorni si erano rifiutate di sbarcare, fino all’intervento delle forze di polizia libiche che le aveva riportate con la forza nei lager. Di loro si son perse le tracce.
Con questi precedenti, gli stati europei e la Libia cercano di ribadire un principio cardine della loro strategia per fermare i flussi migratori: quello di considerare la Libia un “paese sicuro” per legittimare così tutte le forme di respingimento in mare. Dall’altro lato, anche le compagnie di navigazione spingono per non ottemperare all’obbligo di soccorso e, quando costrette, cavarsi dagli impicci nel più breve tempo possibile, riportando le persone migranti nei lager, pur di non veder limitati i propri profitti.
Per questi motivi sarà importante non far cadere nel dimenticatoio la sorte delle persone sbarcate oggi a Malta: sulla loro pelle, condannandole e deportandole alla prima occasione, le autorità vogliono rafforzare politiche sempre più disumane.