Come Amazon: il modello logistico su chi immigra in Europa

Fonte: Macerie

Di seguito riportiamo un’interessante descrizione e analisi di un compagno che nei tempi di repressione ha studiato gli apparati che si occupano di gestire i flussi migratori, dove tratta della gestione “logistica” che si sta cercando di imprimire agli uomini e alle donne che intraprendono il viaggio della fortuna verso l’Europa. Sarà uno dei due contributi di sua penna che pubblicheremo nei prossimi giorni, scritti nati dall’esigenza di comprendere quali livelli burocratici e operativi si concretizzino in strutture come il Cpr e di come vengano da una governance internazionale che si avvale delle nuove tecnologie così come delle retoriche politiche, che siano queste palesemente repressive o con sfumature più umanitarie.

Come Amazon: il modello logistico su chi immigra in Europa

Ogni giorno le frontiere esterne dell’Unione Europea sono interessate da flussi e movimenti: i porti, gli aeroporti e i valichi terrestri sono i luoghi fisici del passaggio di merci e ogni anno di milioni e milioni di persone. Lo spazio Schengen, infatti, è un forte polo d’attrattiva per gli scambi e per il transito di numerose categorie di soggetti portatori ognuno di valori, investimenti e consumi differenti.

I turisti, i manager, gli studenti, i trasportatori, i lavoratori a termine rappresentano un’immagine dominante, quella del cuore di questo movimento e, nello stesso momento, una parte del carburante necessario al sostentamento del sistema economico nostrano. Per questo genere di persone le frontiere sono tutt’altro che chiuse e l’immagine della Fortezza Europa un problema assai remoto. Accompagnata a questa vi è poi un’altra immagine mendace, prodotta soprattutto dal discorso mediatico e politico, che vedrebbe nell’Europa un territorio assaltato da orde di barconi. In realtà la quasi totalità del flusso migratorio in entrata, composto da chi diventerà presto irregolare, è rappresentato da un attraversamento di persone provviste di un visto d’ingresso. Un panorama, quindi, assai più sereno, meno caotico e minaccioso per l’attrattività bulimica di televisioni e social. In modo speculare ai profili sopracitati, emerge, principalmente come target di una sovraesposizione mediatica in termini allarmistici, la massa degli escludibili, di chi preme alle frontiere e attraversa il mediterraneo rischiando la propria vita, di chi per status, spendibilità sul mercato o presunta pericolosità sociale, vede costruirsi attorno a sé l’abito dell’indesiderabile.
Di fronte a questo gruppo umano, prende consistenza il muro, la divisa, l’ostacolo insomma.
Approcciarsi alla questione migratoria, attraverso il netto e rigido schema interpretativo dell’aperto\chiuso, dal quale deriva la seducente, ma errata immagine della Fortezza, non aiuta a comprendere in pieno i meccanismi, le modalità e gli scopi attuali della frontiera europea. La Forteresse, insomma, non esiste in modo continuativo, più precisamente si palesa e opera a seconda del profilo economico e sociale della persona che sta tentando di eludere o varcare il confine.

Un tentativo descrittivo adeguato dovrebbe piuttosto esprimersi in termini di selettività, filtraggio e, in fin dei conti, di governance dei flussi. Attraverso questo frame emergono alcune nuove rappresentazioni come quella dello smart border e all’orizzonte, con un minimo di azzardo, la metafora della logistica. Questi concetti offrono un panorama molto diverso da ciò che si è spinti ad osservare, permettendo di cogliere dinamiche e meccanismi di selezione e management, messa a valore e sfruttamento della massa migrante, categorizzazione e concentramento fisico che non sono di immediata percezione. Si può delineare così una logica che lega tra loro i differenti luoghi del mondo migrante sparsi sul territorio europeo, siano essi gli snodi di transito del traffico, i centri d’accoglienza, i campi di lavoro, i centri per la detenzione amministrativa dei migranti o semplicemente le strade delle grandi città.

Lo smart border

Le frontiere, malgrado una sempre più crescente invasività di istituzioni e agenzie, presentano alti gradi di porosità, l’intero sistema di controllo dei transiti non è privo di criticità per gli addetti ai lavori. Vi sono, infatti, alcuni gravi difetti che minano alla base l’infallibilità del controllo e l’impermeabilità del confine stesso al flusso irregolare.
Le criticità fondamentali non si concentrano, come si vorrebbe credere, sui “viaggi della speranza” e sulla tragica situazione del Mediterraneo. Il fulcro della questione concerne, invece, gli snodi del traffico internazionale.
Il passaggio delle frontiere esterne attraverso procedure legali, in particolare permessi turistici di 90 giorni, è uno dei modi principali di entrata all’interno dello spazio Schengen da parte dei futuri irregolari. In rapporto a ciò, e quindi alla nodosa problematica dei cosiddetti overstayer, cioè dei migranti che permangono sul territorio irregolarmente allo scadere del loro visto, si è iniziata a sviluppare una metodologia di gestione particolare. Tale prassi è rivelatrice di un approccio che tende ad estendersi a tutta la questione migratoria, una cornice concettuale e operativa capace di intrecciare ragioni economiche e necessità repressive: da un lato permettere il passaggio di merci e persone, dall’altro tenere a bada o controllare i flussi irregolari. Il concetto di “Smart”, termine ormai di uso comune in vari settori del sociale, è venuto immediatamente in aiuto ai tecnici dell’Unione Europea. Esso indica l’intelligenza dei sistemi complessi nella selezione dei dati, la loro possibile autonomia decisionale, la loro articolazione e l’integrazione con l’ambiente umano. Nel caso delle frontiere, tale concetto assume una sua declinazione precisa, nata intorno alle problematiche dei valichi terrestri, ma forse, come già detto, generalizzabile a tutto l’approccio attuale di gestione del flusso migratorio.
L’idea dello “Smart Border” ha visto la luce nel 2008 all’interno di alcuni settori dell’Ue. Nel febbraio 2013 la Commissione europea presentò il primo gruppo di misure legislative volte a modificare la gestione delle frontiere esterne allo spazio Schengen. Successivamente sono stati apportati alcuni cambiamenti al testo iniziale, ma le varie discussioni tecniche, le analisi d’impatto e persino un progetto pilota hanno espresso, in ogni caso, parere positivo.
Il regolamento prodotto, chiamato anche “Smart Border Package”, troverà attuazione entro e non oltre il 20202. Il programma si compone di due pilastri fondamentali, ovvero due sistemi di registrazione e controllo complementari tra loro: l’RTP e l’EES. Entrambi saranno gestiti e supervisionati da un’agenzia dell’Ue chiamata Ue-LISA che si occupa della gestione dei tre principali sistemi IT su larga scala che trattano le richieste di visti, di asilo e lo scambio di informazioni nell’Unione, più precisamente: il sistema di informazione sui visti (VIS), il sistema di informazione Schengen (SISII) e Eurodac.

L’idea sottostante il concetto di “Smart Border” è quella di confine selettivo e intelligente, in quanto, attraverso la trattazione dei dati, opera una cernita rapida delle categorie di soggetti economicamente rilevanti a cui spetta il diritto di muoversi velocemente attraverso un corridoio preferenziale e al contempo amplifica la raccolta di informazioni e di controllo sui possibili irregolari. Gli elementi che strutturano lo “Smart Border” sono elementi fluidi di apertura e di chiusura, di sviluppo delle transazioni e rapidità degli scambi da un lato e amplificazione securitaria dall’altro; in due parole una “selettività interessata” che tenta di coniugare profitto e sicurezza. La chiusura di molti confini interni in Europa, allo scopo di bloccare il passaggio di centinaia di profughi provenienti dalle zone di guerra e non solo, è stata vista da pochi come un’aberrazione dal punto di vista etico e dai più come una scelta antieconomica. Un gesto, quello di riprendere i controlli doganali interni e di erigere muri e reticolati, che apporterebbe gravi danni al capitalismo nostrano ed estero e si spiegherebbe solo in una pura provocazione politica di alcuni stati. Quanto detto è senza dubbio vero e l’atteggiamento di alcuni governi contrasta nettamente con i diktat del mercato. Infatti, anche un solo secondo d’attesa al confine è monetizzabile, la merce e gli individui assumono valore nella loro rapidità di movimento; l’attesa ai varchi è così sempre e solo una perdita. Infatti, anche un solo secondo d’attesa al confine è monetizzabile.

Ma siamo proprio sicuri che i muri e le reti non possano coniugarsi bene con il profitto? La risposta a tale quesito si trova, probabilmente, proprio nel concetto di “frontiera intelligente” che nella selettività dei flussi, passino essi da porti, aeroporti o valichi terrestri, e nel loro controllo tecnologico, trova la sua ragion d’essere. I nuovi sistemi citati, l’RTP e l’EES, vanno indubbiamente in tale direzione. La prospettiva è quella di un “muro intelligente” che si apra solo davanti a qualcuno, gestendo a seconda dei momenti e delle necessità economiche, l’entrata e l’uscita di chi bussa alle frontiere ed evitando, idealmente senza intoppi, il rallentamento delle merci.
Questo scenario non si è ancora svelato del tutto, ma alcune sue forme iniziano a configurarsi.

I migranti in fuga

Selettività dunque, capacità di filtraggio. Questo è uno dei cardini su cui si sviluppa l’approccio nei confronti dei flussi migratori, una base metodologica adatta agli scopi della frontiera odierna. L’Europa, a supporto della produzione e del sistema pensionistico, necessita di migranti, ma evidentemente deve mettere in moto alcuni meccanismi che permettano di sviluppare un controllo sugli stessi; invero non può esimersi dal tentativo di razionalizzare il flusso e operare distinzioni che mirino ad una gestione più sicura dell’intera massa migrante. Deve strutturarsi, cioè, un management capace di compiere diverse azioni. Selezionare e arginare, come evidenziato, sono i presupposti, ma è anche necessario far convogliare il capitale umano a disposizione in determinati navigli allo scopo è un tentativo di messa a valore, in differenti modi, del flusso stesso. A ragion di ciò è necessario approdare a considerazioni di più ampio respiro, spostandosi idealmente su un piano più esteso, allontanandosi dai valichi e assumendo, cioè, una prospettiva “satellitare”, un’immedesimazione dello sguardo solo per necessità esplicative. Si cercherà per questo di “fotografare” il flusso dall’alto, di tracciare idealmente un organigramma che permetta di orientarsi in un insieme complesso.
Il percorso di molti migranti, specie della massa più povera, è duro e travagliato. Il passaggio per il deserto e attraverso il mare, per zone instabili e tormentate è per mesi il paesaggio che si prospetta davanti agli occhi di uomini e donne in cerca di un’altra vita.Come è oramai ovvio, intorno a questo percorso, sin dalle sue prime fasi, si è sviluppato un ingente gestione da parte di differenti attori che sovraintendono, con scopi differenti, le varie tappe di questa rotta. I trafficanti sono solo uno dei tanti elementi di una congerie eterogenea che mette mano alla questione. Chi sono gli amministratori istituzionali che operano sulla rotta dei migranti?
Il sistema di controllo interno ed esterno delle frontiere europee coinvolge di fatto molteplici attori eterogenei: agenzie, terzo settore, militari e polizie di stati UE e stati terzi. Questi soggetti sistematizzano relazioni di cooperazione reciproca, fissando per ognuno ruoli e funzioni particolari. Gli accordi bilaterali e multilaterali tra Paese e Paese o tra i diversi attori e istituzioni rappresentano lo scheletro di questo apparato. È un processo, come definito dai suoi teorici e propugnatori, che mira quindi alla “integrazione”, alla multilateralità, al coinvolgimento di diversi settori governativi e non, su un livello nazionale, sovranazionale ed extracomunitario. Ciò che questa pluralità d’intervento crea è, come detto, un management integrato che giustifica, d’altronde, la penetrazione militare degli Stati occidentali in altri continenti. Parallelamente, nel tentativo di esternalizzare una parte della gestione del flusso, come presupposto di tale sistema, prende forma l’inquietante rete dei campi di concentramento nelle zone extraeuropee, teatro di torture e violenze, sequestri e schiavismo. Rete detentiva che coinvolge nell’organizzazione trafficanti riciclati e Ong occidentali appositamente cooptate. Ed è proprio qui che inizia a posarsi idealmente il nostro sguardo.
Le carceri per migranti della Libia o del Sudan, gli enormi campi profughi del Nord Africa e del Medio Oriente sono i primi luoghi fisici, le prime strutture indicative di una messa a sistema più ampia. Un complesso che, man mano che si espande, conduce fino alle porte dell’Europa.

L’impatto con l’Europa

Quando i migranti in fuga entrano in contatto con il contesto europeo, molti concetti sopracitati diventano ulteriormente concreti e palpabili. Il metodo dello “Smart Border”, in uso come visto nei confronti del flusso dei valichi, si sposta idealmente altrove e si proietta, inesorabilmente, sulla massa di chi viene intercettato e recuperato nelle acque del Mediterraneo o preme con forza alla frontiera greca o spagnola. Un ingente apparato, composto a vario titolo da istituzioni e associazioni, nasce e si sviluppa allo scopo di circoscrivere e, in fin dei conti, dominare questo insieme di uomini e donne. Le diverse istituzioni che entrano in contatto con il migrante sin dal momento dello sbarco, nella pratica utilizzata, nelle interviste, nelle dichiarazioni richieste, nei fogli consegnati e fatti firmare, nelle analisi effettuate perseguono uno scopo ben preciso. Il fine è l’identificazione e la categorizzazione delle singole persone per il raggiungimento di un controllo più efficace sulla vita delle stesse.
Il risultato è una produzione di etichette e comparti, lo sviluppo, dal nulla o quasi, di categorie, percorsi e profili attraverso una prassi di vero e proprio contrassegno e marchiatura. Le forze di polizia operanti nei porti o nelle questure, le agenzie UE come Frontex o Easo, una volta reperite le informazioni individuali di ogni singola persona sbarcata, iniziano un’attività di ricerca e di confronto dei dati, di risk analysis e profiling sulla base di indicatori dei più disparati: il racconto personale, il paese d’origine, l’età, i rapporti familiari, i precedenti penali e di polizia, lo scopo della migrazione, la volontà o meno di lavorare. Attraverso queste coordinate, con decisioni che in più occasioni hanno rasentato la pura arbitrarietà, e attraverso l’utilizzo di trabocchetti, vengono costruite le categorie a cui ogni migrante dovrà far riferimento e da cui difficilmente riuscirà a staccarsi. La condensazione di tali operazioni ha prodotto, nella sua forma più istituzionale, i nuovi Hotspot in Italia e Grecia, strutture che svolgono anche funzioni detentive e che non hanno precedenti nella storia giuridica europea. Gli Hotspot sono i luoghi della cernita e dell’etichettamento, i siti dello smistamento delle categorie prodotte, le fucine delle nuove identità del migrante: richiedente asilo o migrante economico. La categoria del richiedente asilo, con le sue varie accezioni (ricollocabile, vittima di tratta, MSNA …), è il contraltare di quella del migrante economico, concetto privo di ogni tipo di giuridicità, inutile alla produzione e facilmente scartabile, espellibile. Gli Hotspot, similmente ad un centro Amazon, confezionano i migranti impacchettandoli e dotandoli dell’adeguata etichetta, pronti per il proseguo del proprio iter. Da queste strutture, una volta conclusa la prassi utilizzata e compresa la destinazione della persona, si apre una doppia strada che porterà verso due differenti mondi: il Cpr o l’espulsione per il migrante economico e l’arcipelago della Seconda accoglienza per il passibile di richiesta d’asilo.
La selezione e la differenziazione sono, dunque, servite.

La logistica

Precedentemente, in riferimento agli Hotspot, si alludeva ad un sistema di smistamento-pacchi caratteristico di un centro Amazon. Il rimando alla metodologia logistica, pur se a forti tinte retoriche, non è forse solo una fascinosa metafora priva di fondamento. Un sistema di logistica è considerabile come un modello organizzativo, un processo applicabile, su scala globale e locale, alla gestione delle merci in movimento. Nella definizione dell’Associazione italiana di logistica (AILOG) esso prevede la pianificazione, l’organizzazione e la gestione del flusso e dello stoccaggio delle merci, siano esse prodotti finiti, semilavorati o materie prime. La merce appena prodotta o estratta, nel momento in cui viene trasferita, accede ad un sistema di trasporto, d’infrastrutture e di strutture che caratterizzano lo scheletro del sistema stesso. Le similitudini che accomunano questo modello a quello del management del flusso migrante si spingono oltre l’ambito puramente descrittivo e risultano utili a chiarire concetti e funzioni che l’intero sistema migratorio europeo sviluppa. L’utilizzo di termini quali Hub, Hotspot, lo stesso concetto di esternalizzazione (outsourcing) o la pretesa di costruire i nuovi Cpr negli snodi periferici urbani, tradiscono di fatto gli intenti gestionali della controparte, andando a pescare le parole appropriate direttamente nel vocabolario aziendale ed economico. Non è certamente però il lessico utilizzato a esaurire una possibile pretesa descrittiva.
Risulta evidente, passando ai raggi-x la logistica, che la forma che assume è quella di una rete.
Il Network che si crea è composto da differenti nodi, diversi gangli che cambiano, certamente, a seconda del tipo di merce trattata, ma che hanno in comune, comunque, una serie di raccordi speciali o snodi, quali ad esempio gli inter che si crea porti, le strutture di stoccaggio e di smistamento, luoghi fondamentali nella gestione di un movimento di elementi. Il disegno del “Network” è ciò che vincola il passaggio e, nel caso dei migranti, prende le forme di un vero e proprio arcipelago di strutture, punti d’approdo e smistamento. Si delinea così un circuito che nasce con le strutture dell’Africa settentrionale e inerpicandosi nel Mediterraneo, prosegue negli Hotspot del sud Europa proiettandosi inesorabilmente nei Centri d’accoglienza e in quelli detentivi di tutti gli Stati europei. In Italia questa rete procede nell’entroterra attraverso la cosiddetta Prima e Seconda accoglienza, dando forma all’ambiguo mondo dei Cas e dei Cda\ Cpsa, degli ex-Sprar (ora chiamati Siproimi) e dei pachidermici Cara. Un’ulteriore sviluppo del Network è ravvisabile attraverso i cosiddetti centri della “Terza accoglienza”, quelle strutture adibite al contenimento della massa di lavoratori stranieri operanti soprattutto nel settore agroalimentare.
La selettività, metodo che trova negli Hotspot e nei valichi i suoi luoghi privilegiati, non è atto privo di conseguenze, bensì rappresenta un’azione che carica di semanticità e contenuto l’oggetto cernito. Selezionare, infatti, significa certamente distinguere, raffinare da un una massa grossolana, ma anche, principalmente, “dare un nome” ai prodotti del triage secondo dei presupposti e un’ideologia che sono propri ed esclusivi del selezionatore. In questo caso chi seleziona è un’istituzione, un’agenzia europea e le ragioni che fondano tale azione vanno ricercate nel tentativo di estrarre un qualche profitto dal discernimento, cercare, cioè, un utile che sia vantaggioso per l’esistenza dell’apparato stesso nel suo complesso e parallelamente, a protezione di quest’ultimo, arginare possibili rischi e problematiche.
Nel caso dei migranti le etichette prodotte, oltre ad avere un chiaro peso esistenziale sul futuro degli individui, caratterizzeranno anche la loro spendibilità sul mercato, ponendo loro limiti e condizionamenti, costruendo intorno alla persona un’identità non solo burocratica, ma anche specificatamente economica. È per questo che, restando nel quadro nella nostra metafora, è necessario parlare di valorizzazione, epicentro concettuale della gestione del flusso migratorio.

La messa a valore

Nella rete della logistica quando la merce si mette in movimento, a seconda delle sue qualità, delle sue caratteristiche, della sua velocità e del suo ulteriore trattamento, a seconda dei luoghi, delle strutture, degli internodi a cui accede, produce un valore; un valore duplice. Da un lato mette banalmente in moto tutta un’economia che è l’economia della logistica tout court. Dall’altro cambia il proprio valore, accumula qualità intrinseca e sviluppa un’ulteriore spendibilità sul mercato. Nella gestione del flusso migratorio accade qualcosa di molto simile e le ripercussioni sul mondo del lavoro non possono essere poste in secondo piano, alla luce dei modelli di nuovo Welfare nati in paesi come Inghilterra e Germania e estendibili anche all’Italia. La penetrazione del migrante-merce attraverso i diversi snodi di gestione del flusso produce come visto diversi profili, diverse categorie, la cui “lavorazione” porterà, in modi diversi, ad una produzione di valore. Ogni categoria costruita sulla persona migrante porta con sé un processo di valorizzazione, sia essa da intendersi come valorizzazione dell’inclusione o dell’esclusione. Le strutture citate poc’anzi entrano in scena, questa volta, come luoghi economicamente rilevanti. Non solo; infatti il processo di messa a valore riguarda inevitabilmente tutta la popolazione migrante, sia essa regolare o irregolare, proprio perché è sul possesso di un documento e sulle caratteristiche di quest’ultimo che ruota l’intera faccenda. Richiedente asilo, diniegato, ricollocato, irregolare con foglio di via, minore non accompagnato, persona dotata di un permesso di soggiorno di due, tre, cinque anni sono solo alcuni dei possibili profili a cui corrisponde una differente messa a valore e una diversa spendibilità sul mercato.
Per questo motivo i piani su cui è necessario ragionare sono molteplici, proviamo solo a considerarne alcuni.

La rete produce profitto

Il giro d’affari che il contenimento dei migranti mette in moto è stato negli anni uno degli elementi più visibili e più discussi nel contesto italiano. Le critiche, lungi dall’essere collegate ad una qualche reale eticità, si sono concentrate su aspetti banali della questione, esplodendo successivamente con lo scandalo della famosa inchiesta “Mafia capitale”. Sia essa completamente legale e limpida oppure viziata da infiltrazioni e malaffare, la gestione dei migranti è attualmente uno degli affari più fiorenti a disposizione. Associazioni, cooperative bianche e rosse, multinazionali come Gepsa si sono lanciate da tempo in questo mercato,accumulando ingenti capitali e riuscendo difficilmente a nascondersi dietro velleità umanitarie. I 35 euro al giorno forniti dallo Stato per ogni migrante, sia esso un recluso dei Cpr5 o un “abitante” della Seconda accoglienza, rappresentano l’essenza di questa gestione.
Lo sviluppo di affari non si ferma all’azione di contenimento di persone e, come avviene per tutte le strutture concentrazionarie, produce una serie di affari collaterali, legati alla manutenzione e alle forniture di cui questi luoghi necessitano; diverse e numerose aziende raccolgono a larghe mani i proventi di questa macchina. La rete logistica delle strutture, insomma, crea valore e profitto in quanto tale, sviluppando un economia che coinvolge a vario titolo attori grandi e piccoli, locali e stranieri, costruendo un business senza precedenti.

Intorno ai Centri

Un rapido passaggio nelle zone limitrofe dei grandi Cara italiani offre un’immagine assai esplicativa del ruolo che queste strutture hanno assunto per l’economia locale. Come è evidente, moltissimi Centri sono stati posizionati lontano dagli occhi indiscreti della popolazione urbana e trovano proprio nelle campagne il loro sito di riferimento. L’ora d’apertura mattutina del Centro di Mineo, di quello di Bari o di Brindisi, giusto per fare qualche esempio, è il momento del loro parziale svuotamento, il tempo del riversarsi nei campi, a seconda delle stagioni, di una parte della manodopera necessaria al settore agroalimentare locale. Da questo punto di vista i Centri, non solo i grandi campi sovrappopolati, ma anche i piccoli luoghi della Seconda accoglienza, rappresentano, in tutto e per tutto, un vero e proprio bacino di manodopera a basso costo, molto spesso si tratta di lavoro in nero per i produttori locali.

I tirocini e le borse lavoro

Il 30 giugno del 2016 l’ex Ministro Alfano e il presidente di Confindustria Boccia hanno firmato un protocollo d’intesa6 senza precedenti. Esso prevede che Confindustria, per mezzo delle sue aziende associate, s’impegnerà a offrire ai richiedenti asilo e titolari di protezione dei centri Sprar\Siproimi un’opportunità lavorativa attraverso la promozione di tirocini formativi e borse lavoro. In Italia i tirocini formativi non sono una novità, ma anzi, introdotti nel 1997, hanno coinvolto migliaia di persone, in particolare i giovani, in un baratro di flessibilità e assenze di tutela. Solo da pochi anni, invece, hanno iniziato a farsi largo anche nell’ambito della Seconda accoglienza. La maggior parte dei tirocini attivati nei centri Sprar, in questi ultimi anni, hanno riguardato tre settori particolari dell’economia: il turismo-ristorazione, l’agricoltura-pesca e l’artigianato, nonché con percentuali più basse commercio, edilizia e industria. Poiché i richiedenti asilo vengono considerati “persone svantaggiate”, la durata dell’esperienza lavorativa va da un minimo di 3 mesi ad un massimo di 12, momento in cui dovrebbe subentrare obbligatoriamente un dispositivo contrattuale o cessare la mansione. Il pagamento della prestazione, mai associabile ad una retribuzione, viene chiamato indennizzo e viene garantito per 3\4 dalla Regione e per 1\4 dall’azienda, in totale assenza di contributi e coperture, salvo l’Inail e l’RC.

Il lavoro gratuito

Nel dicembre 2014, il Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione emise una circolare molto significativa. Il documento è un invito a Prefetture ed Enti locali a “favorire lo svolgimento di attività volontarie di pubblica utilità da parte degli immigrati in attesa della protezione internazionale”, il cosiddetto lavoro gratis. Gli ospiti della Seconda accoglienza si impegnano volontariamente nei lavori più disparati, dalla manutenzione cittadina alla pulizia delle spiagge, dalla cura di strade e spazi verdi alla partecipazione ai grandi eventi, dai turni sulle ambulanze alle mansioni di assistenza, il tutto ovviamente a titolo completamente gratuito. Lo scopo dichiarato è quello di rendere utile una popolazione altrimenti inattiva e favorire così lungimiranti percorsi integrativi. Nel corso degli ultimi anni, molteplici progetti di questo tipo sono stati messi in campo in numerosissime città e paesi sparsi per lo stivale. Dalle grandi metropoli ai più microscopici borghi italiani, un esercito di profughi e richiedenti protezione si sono messi a lavorare volontariamente. È evidente quanto questa proclamata volontarietà assuma un volto paradossale poiché inserita in quel contesto di dipendenza psicologica, fisica e burocratica che caratterizza l’essenza di tutto il mondo della Seconda accoglienza. Detto ciò, il fenomeno, benché molto diffuso, non è ancora di facile quantificazione.

Modelli sperimentali di controllo e sfruttamento

Questi fatti sociali sono espressione del metodo logistico di organizzazione del flusso e rappresentano il prodotto finito di tutta una lavorazione che nelle strutture di contenimento, i Centri, trova una sorta di atelier di riferimento. Davanti a ciò è necessaria, evidentemente, una piccola riflessione attraverso una comprensione reale della portata di alcuni aspetti del fenomeno.
Il sistema di sfruttamento lavorativo messo in piedi dai progetti istituzionali e associativi, che sia esso il sistema dei tirocini o del lavoro gratis, benché manchino alcuni dati riferiti al mondo Sprar o in generale sulla Seconda accoglienza, per il momento, riguarda una porzione molto esigua di individui. È difficile pensare perciò che il fenomeno abbia un qualche peso rilevante nella gestione della popolazione totale di rifugiati e richiedenti e, ancor meno, rispetto alla massa migrante che ha attraversato frontiere marittime e terrestri. Pensare ad una macchinazione tattica su larga scala da parte dei Governi europei a salvaguardia dell’equilibrio demografico e della produttività sembra quanto meno esagerato. Tenendo alla larga le teorie complottiste di alcune fazioni politiche, è necessario, però, comprendere la natura di tali strumenti e cercare di scorgere in essi delle formule, degli esempi applicativi, dei modelli. La popolazione dei richiedenti asilo ha delle caratteristiche peculiari e specifiche rispetto alla popolazione più ampia degli stranieri presenti sul territorio, Essi si trovano in un limbo caratterizzato dall’estenuante attesa della risposta delle Commissioni, da una quotidianità di subordinazione totalizzante alle attività dei gestori dei Centri e da una dipendenza burocratica dalle carte del Ministero che ha come effetto una soggezione psicologica all’universo concentrazionario che “accoglie”.
L’elemento che più di tutti, però, caratterizza questa massa d’individui è la temporaneità. Ogni anno in Europa un numero enorme di richiedenti asilo, dopo anni di attesa, riceve una risposta di diniego alla propria domanda di protezione.
Nel corso del tempo migliaia di persone si sono ritrovate a fare i conti con la propria disillusione e, in seguito, con una nuova posizione d’irregolarità sul territorio. Anche se i dati sono differenti da paese a paese, così come anche i numeri dei richiedenti presenti, non è azzardato parlare dei luoghi della Seconda accoglienza come una fabbrica d’irregolarità. Tale concetto, già utilizzato per i Cpr e per gli Hotspot, sembra essere l’essenza della gestione degli immigrati in Europa, qualsiasi categoria venga loro cucita addosso.
Che rilevanza ha l’applicazione dei modelli lavorativi sopracitati su questo gruppo-campione con tali caratteristiche?
La novità nel contesto europeo, non risiede tanto nei tipi di modelli d’ottimizzazione strutturati, ma nella loro applicazione su un gruppo sociale per certi versi nuovo e sperimentabile. Un vero e proprio laboratorio, quello dei richiedenti asilo, che presenta caratteri ottimali, quali la temporaneità e la ricattabilità, su cui è più efficace e efficiente l’applicazione di modelli di valorizzazione e sfruttamento. In Italia è il caso del sistema dei tirocini e delle borse lavoro; un sistema trainante la retorica integrativa dei centri ex-Sprar e che trova a disposizione centinaia di persone malleabili, fragili a livello sindacale e perfette per le mansioni “usa e getta” proposte. Una possibile futura obbligatorietà di tali percorsi, come accade in altri contesti e come viene attualmente paventato, non può non destare delle necessarie riflessioni.

Con altre modalità, ma orientato verso una stessa direzione, il fenomeno della “mansione volontaria” risulta essere ancora più significativo. Il gruppo dei richiedenti assume, in tal caso, il ruolo di vero e proprio banco di prova su cui applicare determinate misure, introducendole per poi estenderle a tutta la cosiddetta popolazione inattiva. Il concetto secondo cui gli inattivi debbano produrre profitto a costo zero ha già trovato modo di essere sperimentato in altri contesti europei, dove da decenni il lavoro gratuito, definito non a caso “slave labor”, partendo dalla popolazione dipendente appigliata allo Stato sociale, si è esteso ulteriormente ai richiedenti asilo. La Gran Bretagna storicamente ha fatto da apripista in Europa. L’Italia, a modo suo, comincia a muovere i primi passi in questa direzione; partendo cioè dai richiedenti, ma estendono il dispositivo ad una parte più ampia della popolazione. Non a caso nel febbraio del 2015 Ministero del lavoro, Anci e Forum del Terzo settore firmavano un protocollo d’intesa dedicato ai cassaintegrati e ai lavoratori in mobilità con l’obbiettivo di creare “uno scambio tra il sostegno in forma di ammortizzatore sociale e un servizio utile alla collettività, con il fine di coinvolgere i lavoratori in difficoltà in attività di volontariato”.

La normalizzazione e l’estensione di tali dispositivi, prima sperimentati su un gruppo ristretto, insomma, si avvicina sempre di più.

Oltre i valichi, oltre i campi

Smart Border, selettività, metodo logistico, contenimento, messa a valore; questi sono i concetti che hanno attraversato questo capitolo e che, tra gli altri, stanno caratterizzando l’organizzazione della frontiera e l’intera gestione della massa migrante in Italia.

È necessario a livello europeo un metodo; un insieme di prassi e di tecniche utili a razionalizzare il movimento dei migranti, riguardi esso i valichi di frontiera o una massa disordinata in fuga attraverso il Mediterraneo. Lo scopo da raggiungere non riguarda prettamente pratiche di respingimento o di chiusura, ma piuttosto l’applicazione di un approccio gestionale che le contenga, garantendo però il proseguo dei movimenti: né aprire e né chiudere le frontiere, insomma, ma governarle. Trovandosi di fronte ad un flusso le tecniche a disposizione per il suo management sono saltate fuori direttamente dalla scienza economica, aziendale e militare: la logistica, come base metodologica, e la “frontiera intelligente”, suo intimo presupposto, sono i fondamenti di tale sistema organizzato. Le vere funzioni dei muri vanno ben al di là del loro banale effetto contenitivo. Com’è evidente il risultato di tali operazioni non si esaurisce certo nella strutturazione di un Network, nel dare cioè una forma e una direzione al flusso; ciò che viene a crearsi è anzitutto un effetto dirompente sull’intera vita della persona migrante, un processo che ha conseguenze evidenti su diversi settori del sociale e sul mondo del lavoro.

I richiedenti asilo, nello specifico, presentano una situazione emblematica. Accolti in strutture differenti e cucito loro addosso un particolare profilo, essendo essi, come visto, portatori di una condizione di precarietà esistenziale che permette una loro amministrazione più agevole, vengono concentrati, controllati e gestiti in Centri grandi e piccoli. Essi diventano nella pratica un laboratorio sperimentale su cui provare e riprovare in vitro modelli di controllo, governo e sfruttamento.
La logistica del flusso migratorio si spinge oltre e ciò che produce, come visto, si proietta al di là dell’arcipelago concentrazionario. L’intero sistema di gestione del flusso in Italia è definibile, infatti, come una fabbrica d’irregolarità; un’enorme fetta delle persone che transitano dal sistema detentivo per migranti, i Cpr e gli Hotspot, così come dalla Seconda accoglienza, ne fuoriescono con un foglio di via obbligatorio o come diniegati; vengono invitati di fatto a lasciare entro qualche giorno il territorio europeo, cosa evidentemente impossibile.
Dove vanno a finire tutte queste persone?
Molti di loro, i meno fortunati, periodicamente rientreranno nei Cpr poiché irregolari, in un ciclo che non avrà mai termine fino a quando non avverrà una vera e propria deportazione, gli altri vivranno costantemente nascosti cercando in ogni modo di non apparire e finire nelle mani delle forze dell’ordine. Negli irregolari e nei diniegati si compie la massima espressione della precarietà esistenziale e per questo una perfetta sfruttabilità sul mercato del lavoro in nero, come è, dovunque, evidente sul territorio italiano.
Ricattabilità e silenzio sono le qualità a disposizione di tanti datori di lavoro in cerca di manodopera illegale a basso costo.
Ma se facessimo una riflessione sull’intera massa immigrata, se portassimo i nostri ragionamenti al di fuori delle categorie fino ad ora osservate e andassimo a guardare alla stragrande maggioranza degli stranieri presenti sul territorio, approcciandoci cioè al mondo dei regolari, cosa troveremo?
L’ultimo step del nostro organigramma logistico ci porta direttamente nelle strade, nei mercati, nelle fabbriche, nei cantieri, nella quotidianità di migliaia e migliaia di individui e famiglie regolari. È su questi soggetti, uomini e donne in possesso di un documento, di un lavoro, di un affitto che il processo di valorizzazione si compie con maggiore efficacia. L’esistenza di questi individui è strettamente legata ad un permesso di soggiorno il cui rinnovo dipende da regole ben precise, standard di vita da rispettare, precise norme comportamentali da cui il migrante non può sottrarsi a costo di ripiombare nel pantano della clandestinità, dell’irregolarità. Questa condizione funambolica di precarietà, d’instabilità, nonostante il possesso dei documenti, fanno del migrante regolare un attore particolare e per questo basilare del nostro sistema economico.
Per una grossa fetta dei lavoratori stranieri la paura del licenziamento, della perdita del permesso che ad esso è intimamente legato, crea ricattabilità, timore di rivendicazioni e, quindi, l’accettazione di condizioni lavorative al di sotto degli standard; questi sono i presupposti della loro peculiarità e ciò che caratterizza la loro spendibilità in termini economici.
Su di loro, una volta perse banalmente le proprie garanzie giuridiche, aleggia il pericolo di essere rinchiusi in un Cpr, lo spauracchio della deportazione, la possibilità di incappare in una retata per le strade delle città, sui campi, nelle stazioni. Elementi che hanno un profondo effetto sulla vita politica, lavorativa e relazionale, della persona migrante. Elementi che fondano la gestione, il controllo e la messa a valore dell’intera massa migratoria, perlomeno della sua componente maggioritaria e, cioè, la massa povera.

Su questo, e non solo, si sta giocando l’intera partita.

macerie @ Dicembre 29, 2019

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