Massacri in Libia e nel Mediterraneo, nel nome dell’Europa

In Libia il 27 maggio 30 persone sono state massacrate in un magazzino adibito a lager, da parte del clan di trafficanti che gestisce il campo di concentramento per persone migranti nella cittadina di Mezdah, a 180 km a sudovest della capitale Tripoli. Tra le 30 vittime, 26 erano originarie del Bangladesh e 4 di paesi dell’Africa subsahariana come Ciad e Nigeria. Altre 11 persone risultano ferite, di cui tre in modo grave, e sono attualmente ricoverate nell’ospedale di Zintan. La strage a quanto riferiscono i media è avvenuta come vendetta per la morte di un trafficante per mano di alcune delle persone recluse e torturate. Secondo un articolo del quotidiano bengalese Dainik Jugantor, un sopravvissuto all’incidente ha affermato che la banda di trafficanti di esseri umani li stava torturando per estorcere ulteriori soldi quando i prigionieri si sono ribellati. Mohammed Abdul-Rahman, il trentenne trafficante di migranti, è stato ucciso in un “ammutinamento” da parte di coloro che teneva prigionieri, come riporta anche il sito web di notizie libico al-Wasat. Successivamente, la famiglia del trafficante ha circondato l’edificio, recuperato il corpo dell’uomo e convinto i 100 migranti ad arrendersi. Dopo la resa è cominciato il massacro.
La notizia dell’eccidio è emersa solo dopo che un prigioniero è riuscito a fuggire dal lager, rifugiandosi da una famiglia libica, da dove è riuscito a telefonare all’ambasciata del Bangladesh.
Fonti dal Bangladesh riferiscono che i bengalesi coinvolti avevano lasciato il proprio paese 5 mesi fa per raggiungere l’Italia attraverso la Libia. Qui erano stati però tenuti in ostaggio e torturati per mesi dai rapitori.
Non si conosce il destino delle altre persone tenute prigioniere nel lager di Mezdah.

Nell’ultima settimana circa 400 persone che tentavano di attraversare il Mediterraneo sono state riportate in Libia, e durante le operazioni due persone sono morte annegate. Le altre sono state recluse nel centro di detenzione governativo di Al Nasser a Zawya.
Dall’inizio dell’anno sulla rotta del Mediterraneo centrale sono 4.838 le persone giunte in Italia mentre circa 4.000 sono state catturate dalla Guardia Costiera libica o riportate indietro da altre navi commerciali, veri e propri respingimenti attuati dai governi europei. Almeno 268 persone sono morte durante il viaggio nei primi 5 mesi dell’anno, senza contare i naufragi non registrati.

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Egitto: ennesimo assassinio di stato in carcere e situazione repressiva

Non esiste periodo di tregua per chi vive in Egitto, neppure durante il mese di Ramadan. Il regime continua a reprimere senza limiti mentre nel paese si diffonde l’epidemia di coronavirus. Da settimane vige il conprifuoco notturno. Il paese è allo stremo ormai da anni, stretto tra la violenza e la corruzione del regime dei militari e i prestiti della comunità internazionale. Eppure l’Europa continua a fare affari con la giunta al potere a cui vende armi o – come nel caso dell’Italia – ricevendo in pompa magna carichi di aiuti sanitari sottratti alla popolazione in cambio di silenzi e complicità.

La prigione non uccide, la solitudine sì. Ho bisogno del vostro sostegno per non morire. Negli ultimi 2 anni, ho cercato da solo di “resistere” a tutto quello che mi sta succedendo per poter uscire fuori la stessa persona che hai sempre conosciuto, ma non posso andare avanti. Ho bisogno del vostro sostegno e ho bisogno che ricordiate loro che sono ancora in prigione e che mi hanno dimenticato e che muoio lentamente ogni giorno perché so di essere solo di fronte a tutto e so di avere molti amici che mi vogliono bene e che hanno paura di scrivere di me o che pensano che uscirò comunque senza il loro sostegno. Ho bisogno di voi e ho bisogno del tuo sostegno più che mai“. Continua a leggere

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Proteste e repressione nella tendopoli di San Ferdinando in tempi di pandemia

Nell’Italia chiusa dal lockdown in seguito alla pandemia causata dal covid-19, è particolarmente difficile la situazione di chi è costretto a vivere nei ghetti e nei campi di stato, come la tendopoli di San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria.
Il 1° aprile un gruppo di abitanti della tendopoli ha protestato contro l’intenzione di Regione Calabria,Caritas e Protezione Civile di allestire presso la tendopoli una cucina da campo per la somministrazione di pasti.
La protesta come al solito è stata pesantemente criminalizzata da politici locali, sindacati e media, come ogni volta che gli e le sfruttatx hanno provato a far sentire la propria voce e lottare per i propri bisogni.

Per il Sindaco “Si è assistito, infatti, da parte di un gruppo di facinorosi, a un incomprensibile e inatteso rifiuto del servizio di mensa, accompagnato da atteggiamenti minacciosi e provocatori che invece di essere circoscritti e neutralizzati, venivano tollerati da una maggioranza silenziosa e passiva.
Sarà necessario avviare una riflessione su quanto è accaduto, senza negare la gravità di comportamenti a cui è doveroso reagire con fermezza ma determinati a evitare qualunque demonizzazione sommaria”
Per Rosi Perrone – Segretario generale Cisl Reggio Calabria “I fatti di San Ferdinando non vanno derubricati con leggerezza e con filosofia. Vanno condannati perché ogni protesta dai connotati violenti non può trovare alcuna giustificazione.”
Il vicepresidente della Regione Calabria, Nino Spirlì aveva dichiarato “Sono sconcertato, addolorato e intristito. È inaccettabile che i migranti rifiutino il cibo con la violenza, mentre migliaia di calabresi, che noi stiamo comunque aiutando, non hanno nemmeno un euro per entrare nei supermercati.”

15 giorni dopo, il Sindaco di San Ferdinando Andrea Tripodi ha disposto ben 25 daspo urbani e l’allontanamento dalla tendopoli delle persone che avevano protestato, segnalate dalla cooperativa Exodus che gestisce la tendopoli e dalla polizia, per violazione del regolamento e “comportamenti gravi e non compatibili con la permanenza nel campo”. Nell’ultimo anno sono stati 40 i Daspo emessi dal Comune di San Ferdinando.

Solo attraverso il Comitato lavoratori delle campagneRadio Onda Rossa e Radio Blackout, si sono potute ascoltare le parole di chi vive nella tendopoli che spiegavano le vere ragioni della protesta.

“Adesso il loro obiettivo è che nessuno della tendopoli possa uscire per andare a Rosarno per comprare la spesa. Attualmente ci sono carabinieri e polizia sulla strada per Rosarno. La Caritas è venuta a portare i pasti cucinati da loro, ma da anni i ragazzi della tendopoli stanno dicendo che vogliono che nessuno cucini al posto loro. Già la polizia sta impedendo alle persone di uscire dalla tendopoli. Perché queste provocazioni? Volevamo andare al Comune di San Ferdinando a dire al Sindaco “Basta con questa vergogna” perché da anni le persone dicono che non vogliono questo, che vogliono essere trattate come le persone normali, perché dall’inizio di questa emergenza nessuno è venuto per chiedere come va la situazione, come state. I Carabinieri hanno detto che se andavamo al Comune di San Ferdinando ci facevano una multa di 5/600 €. È dal 2018 che la nuova tendopoli è militarizzata, il controllo aumenta ogni anno. Attualmente ci sono due furgoni dei carabinieri, 4 macchine della polizia e due della guardia di finanza, nessuno può uscire o entrare nella tendopoli senza essere stato controllato. Il problema è che loro non danno nessuna informazione, non ci dicono cosa possiamo o non possiamo fare, in questo modo le persone potrebbero capire, e invece non spiegano niente e se qualcuno esce gli fanno un verbale e una multa. Ci sono altri ghetti qui, e tutti chiamano per capire la situazione.”

e ancora…

“Lo sapete tutti, in questo momento la situazione in Italia è difficile, sia per immigrati o per italiani è difficile.
Parliamo della tendopoli perché sui giornali e su facebook abbiamo visto che il sindaco di San Ferdinando ha detto che tutto il dispositivo [sanitario] è a posto. Nella Piana di Gioia Tauro gli immigrati sono stati abbandonati durante questa emergenza perché non c’è nessun servizio sanitario, mancano le informazioni e ci sono tantissime difficoltà.
Chi dalla tendopoli vuole andare a fare la spesa a Rosarno non può farlo, possiamo andare a San Ferdinando ma tutti qui sappiamo che lì non possiamo comprare quello che ci serve. Hanno già fatto il verbale a alcune persone per non farle andare a Rosarno. Attualmente la difficoltà è anche delle persone che vivono [nei ghetti] a Russo e a Rizziconi, che devono spostarsi per fare le spese e andare a lavorare in campagna. La maggior parte non sta lavorando e quindi ci sono molte difficoltà. Non ci sono informazioni. Continua a leggere

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Un appello dei Gilets Noirs. Autodifesa immigrata: solo la lotta ci darà i documenti

Tradotto da qui.

Noi, i Gilets Noirs, siamo immigrati che lavorano in nero o coi documenti di qualcun altro. Solitamente, lo stato francese razzista, mano nella mano con i padroni, ci fa sgobbare sui cantieri, nelle mense, pulendo tutto il paese. Senza documenti, siamo in balia dell’ipersfruttamento. In quarantena, ci siamo ritrovati senza nulla. Nessuna disoccupazione, quindi niente soldi per l’affitto, per la famiglia o per il cibo. Siamo immigrati che continuano a essere minacciati dalla polizia che ci accerchia e ci estorce soldi davanti le nostre case. Non hanno smesso con gli OQTF (Obbligo di lasciare il territorio francese) che la polizia francese continua a distribuire nonostante la quarantena, i centri di detenzione sono ancora aperti e i nostri compagni reclusi continuano a soffrirci dentro.

Siamo immigrati che vivono negli alloggi per lavoratori immigrati gestite da Adoma, Coallia o Adef come fossero delle prigioni. All’inizio dell’isolamento, i gestori hanno chiuso i loro uffici e sono scappati dalle loro responsabilità: nessuna istruzione, nessuna pulizia, nessun supporto. Incollano sui muri delle residenze degli avvisi in francese e chiudono le sale di preghiera e riunione. Non puliscono perché “la candeggina è troppo costosa”. La presenza dei gestori si ha solo quando devono venire a prendere i soldi dell’affitto. Dopo qualche settimana, sotto la pressione delle prefetture e di chi dice che le residenze sono “delle bombe sanitarie”, i gestori sono tornati in qualche casa. Minacciano di tagliare l’acqua e l’elettricità, fanno finte valutazioni, liste di “sub-occupanti” come ci chiamano. Da diversi anni, i gestori vogliono distruggere l’organizzazione della nostra vita collettiva di immigrati sfruttati. Se tornano oggi, non è per proteggerci dalla malattia, ma per minacciarci di sfratto e fare la caccia ai senza documenti.
Ma non abbiamo aspettato la repressione sanitaria per organizzarci e difenderci dallo Stato, dai gestori e dai padroni. Noi, i gilets noirs, ci sosteniamo da molto tempo. Le residenze sono i nostri luoghi di organizzazione politica. Abbiamo creato una cassa comune e organizzato una rete di rifornimento delle case per proteggersi dalla malattia. Con l’aiuto dei nostri compagni delle brigate di solidarietà popolare che sostengono questa autorganizzazione, attraversiamo le case per distribuire il materiale. I gestori se ne fregano di noi: allora siamo noi stessi a proteggerci da soli! Nelle residenza, esiste una cultura della solidarietà. Gestiamo noi stessi la pulizia e la disinfezione. I fratelli piccoli si organizzano in modo che i fratelli più anziani non debbano più fare la spesa. Questa missione dobbiamo portarla avanti per i nostri compagni, i nostri fratelli, le nostre sorelle, i bambini e i nostri vecchi, perché nessun altro lo farà per noi.

All’interno, organizziamo in diverse case una lotta corpo a corpo contro i gestori: rifiuto di pagare l’affitto in queste condizioni di gestione, poste collettive, operazioni “porte aperte” per cacciare il gestore. Noi non pagheremo, per preparare la risposta contro la distruzione della vita collettiva nelle residenze e continuare la nostra lotta per documenti e una vita degna.

Lottare per strappare i documenti e per la nostra dignità

Noi vogliamo i documenti. Ma non vogliamo una regolarizzazione come in Portogallo, per qualche mese, solo per i pochi che hanno il loro dossier in prefettura o per chi non ha dei precedenti penali o non è minacciato di deportazione. Non vogliamo una regolarizzazione come in Italia, offrendo i nostri corpi affinché i paesi europei sussistano sulle nostre schiene. Lavoro in cambio di documenti, è un ricatto da schiavi. Non vogliamo nemmeno documenti per motivi “di salute pubblica” o ancora “di efficacia economica”. I documenti, fino a nuovo ordine, sono la chiave per una vita sociale degna: vivere in famiglia, circolare liberamente, lavorare, studiare, prendersi cura di sé, trovare un alloggio. Abbiamo chiesto troppo ai parlamentari, ai gestori, ai padroni, ai sindacati, alle associazioni di aiutarci per “regolarizzarci”. Ci sono state troppe petizioni, troppe tribune che dicevano allo stato di “proteggere i senza documenti”, troppi deputati che volevano “regolarizzare” per inviarci a fare gli sporchi lavori che nessuno vuole fare. Noi non vogliamo i documenti perché facciamo il lavoro che “i francesi non vogliono fare”, ma per vivere degnamente.
Andremo a cercare i documenti da soli, perché non vogliamo la selezione: non vogliamo aver bisogno di meritare i documenti o di mendicarli. Noi abbiamo bisogno di combattere. Nella lotta abbiamo già trovato la nostra libertà, perché non abbiamo più paura.
Da novembre 2018, noi Gilets Noirs, immigrati con o senza documenti, figlie e figli di immigrati e persone solidali, abitanti delle residenze e inquilini della via, ci organizziamo contro lo stato e i suoi complici.
Noi esigiamo i documenti per tutti e tutte, senza condizioni. Che siamo qui da un giorno o dieci anni, che lavoriamo o no. Non vogliamo solo i documenti ma distruggere il sistema che ha creato i senza documenti. Abbiamo manifestato davanti il museo dell’immigrazione, davanti il centro di detenzione di Mesnil-Amelot, abbiamo occupato la Comédie Française, bloccato la prefettura di Parigi, occupato l’aeroporto di Roissy dove Air France deporta gli immigrati. Abbiamo attaccato la sede dell’azienda Elior che fa soldi sulla pelle dei senza documenti, e ci siamo invitati in 600 al Panthéon. Per esigere i documenti e un incontro con il Primo Ministro, per interpellare “i grandi uomini” e per onorare i nostri morti nel Mediterraneo e nel deserto che non hanno avuto una sepoltura.

Dopo la quarantena, noi chiediamo a tutti e gli immigrati senza documenti e alle persone che condividono le nostre idee e modi di agire di sostenere la nostra lotta, di contattarci, di entrare nella lotta. Bisogna organizzare delle azioni, delle occupazioni, delle manifestazioni, degli scioperi, dei blocchi. Noi ci guadagneremo i documenti, la fine delle residenze-prigione, delle case dignitose per tutti e la distruzione dei centri di detenzione con la forza.
Contro il razzismo e lo sfruttamento. Per la nostra dignità e la nostra libertà.
Né strada, né prigione. Documenti e libertà!
La paura ha cambiato di campo, i Gilets Noirs sono qui!

Con ACTA, le Brigate di Solidarietà popolare, il Collettivo Place des Fêtes, Genepi, Act-Up Paris, NPSP (Nagkakaisang Pilipino So Pransya; CREA (Campagna di Richiesta di Mutuo Soccorso e Autogestione), Azione Antifascista Paris-Banlieu, CNT-SO, Osservatorio dello stato d’emergenza sanitaria, Coordinamento militante Dijon, Ipeh Antifascista che appoggiano questo testo, noi condividiamo già la lotta.

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Egitto – Sciopero della fame del prigioniero Alaa e aggiornamenti sulla situazione repressiva

Il 15 aprile scorso la famiglia di Alaa Abdel Fattah ha saputo tramite gli avvocati che Alaa era entrato in sciopero della fame almeno dal 13 aprile. Tuttavia, ma non gli era stato concesso di leggere gli atti e le motivazioni che lo hanno portato a iniziare lo sciopero.

La famiglia di Alaa dice che probabilmente il motivo dello sciopero è il divieto di fare i colloqui che dura da più di un mese.

Alaa ha già scontato una pena di 5 anni per manifestazione non autorizzata. Quando è stato arrestato a settembre, al seguito di una serie di proteste scoppiate nel paese, stava scontando altri 5 anni di semilibertà che prevedevano di passare 12 ore notturne in commissariato. 

Al momento Alaa si trova nel carcere di massima sicurezza di Tora al Cairo, in isolamento, senza ora d’aria, senza la possibilità di leggere, né scrivere.

Come lui anche uno degli avvocati che lo difendeva, Mohamed Baker.

In questi ultimi due giorni Laila Soueif, la madre di Alaa si è recata davanti al carcere per avere notizie, ma il risultato è stato ore di attesa interminabili e niente di fatto. I secondini non hanno preso neppure il detergente, una soluzione contro la disidratazione e una lettera per il figlio. Qualche settimana fa la dottoressa era stata arrestata con sua figlia, sua sorella e una loro compagna per aver fatto un presidio di fronte al Parlamento. Chiedevano l’amnistia per tuttx i/le detenutx. Continua a leggere

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Francia – Aggiornamenti sulle condizioni nei CRA

traduzione da abaslecra

Dopo più di un mese di stato di emergenza sanitaria, di confino e di chiusura delle frontiere, lo Stato continua a rinchiudere nei CRA e nelle prigioni, per imprigionare (con o senza virus) quelli/e che non hanno i « buoni documenti ». 

Condizioni sempre di merda

 

-Alcune liberazioni, dei nuovi arrivi e dei CRA che riaprono

Nella settimana del 13 aprile, lo Stato si è rimesso a rinchiudere in massa nei CRA : tra le 15 e le 20 nuove persone sono state recluse a Nîmes (sud), 17 a Mesnil Amelot (Parigi) nel corso della settimana, poi 22 nella notte tra sabato 18 e domenica 19. Per quanto riguarda le prigioniere, a Mesnil Amelot, a seguito di alcune liberazioni, una persona si è ritrovata da sola come era stato il caso due settimane fa a Oissel (Rouen, nord-ovest). Queste donne si ritrovano sole e isolate di fronte al razzismo e al sessismo delle guardie, in delle condizioni ancora più dure di quelle degli uomini. Le prefetture dell’Ile-de-France non sono nell’ottica di chiudere i centri di detenzione com’è stato annunciato su alcuni giornali, in particolare dopo la decisione del Tribunale Amministrativo di Parigi riguardo al CRA di Vincennes. Al CRA di Lille-Lesquin, alcune persone rinchiuse continuano ad essere liberate ma spesso nel mezzo della notte, e le persone si ritrovano sole in strada alle due del mattino nelle vie di Lesquin senza alcun modo di raggiungere Lille. Per quanto riguarda i prigionieri di Mesnil Amelot trasferiti a Lille dopo la rivolta di domenica 12, questa volta nessuno è stato liberato. 

Alcune prefetture avevano annunciato la chiusura dei centri di detenzione che di fatto non sono mai stati chiusi, bisogna continuare a restare attenti/e. (…) È quello che è successo al CRA di Lione, che era stato dichiarato chiuso ma dove 30 persone erano rinchiuse la settimana scorsa, ci sono ancora molte persone rinchiuse ogni giorno, e anche qualche liberazione. Lo stesso è successo per il CRA di Lille, dove non restava che una sola zona aperta in tutto il centro due settimane fa, mentre ad oggi le quattro zone vengono usate per rinchiudere. O a Nîmes, dove il 16 aprile venivano rinchiuse 15 persone. Il CRA di Bordeaux serve ancora a infliggere una doppia pena per le persone che sono appena uscite di prigione, prelevate dalla polizia direttamente all’uscita e rinchiuse in centro di detenzione.  Continua a leggere

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Francia – Proteste e rivolte nei CRA dopo i contagi da Covid-19

I prigionieri dei CRA gridano libertà, facciamo lo stesso!

Traduzione da: A bas les Cra

Da ieri sera, i prigionieri del centro di detenzione di Mesnil-Amelot hanno occupato il cortile della prigione per persone senza documenti, sono rimasti insieme per chiedere il loro rilascio, fino a questa mattina quando le guardie li hanno caricati. Sette persone sono state prese in custodia dalla polizia.

Anche nel CRA di Vincennes, dove almeno due prigionieri sono stati sicuramente contagiati dal virus, le persone sono in agitazione e vengono represse. Questa mattina, dopo che un incendio è iniziato in una cella, una persona è stata messa in isolamento e tutti sono stati perquisiti. I migranti privi di documenti rinchiusi nel CRA chiedono il rilascio immediato di tutti. Mentre lo stato prevede di lasciarli morire in queste carceri, ora stanno lottando spalla a spalla per la loro libertà.

Per quelli come noi, che sono fuori ma confinati, cosa possiamo fare per sostenerli? 

DA ADESSO: 

Stasera e nei prossimi giorni alle 20:00. Cerchiamo di gridare alle nostre finestre per il rilascio di tutte i/le prigionierx privx di documenti! Appendi striscioni o scrivi ovunque che i CRA devono essere chiusi ora!

Chiamiamo i numeri dell’amministrazione dei Cra in massa, per far loro sapere che non li vogliamo e che sappiamo cosa sta succedendo nei centri. Numero Mesnil-Amelot: 01 60 54 40 60 Vincennes: 01 43 53 79 00

Cerchiamo di saturare le mail delle prefetture, lasciamo che non facciano il loro sporco lavoro impunemente! -> Chiama per saturare le prefetture con e-mail in questi tempi di confino! 

Solidarietà con le persone senza documenti in lotta contro i CRA!

Libertà per tuttx i/le prigionierx e fine dei CRA!

Rivolta al centro di detenzione di Vincennes, quarto caso di Covid-19.

Traduzione da: Le paria

Stasera proprio ora, i migranti privi di documenti rinchiusi nel centro di detenzione di Vincennes ci informano della presenza di un quarto caso di Covid-19. In questo momento i prigionieri fronteggiano la polizia per richiedere l’ospitalizzazione del loro compagno.

Quest’ultimo è prostrato e non riesce più a respirare correttamente. La polizia rifiuta di chiamare un’ambulanza, osando dire loro che sarà testato martedì. Non ha visto alcun dottore e sta soffrendo. Chiedono di essere deportati o rilasciati, ma rifiutano categoricamente di essere infettati uno dopo l’altro rinchiusi in questa prigione lontano dai loro parenti. 

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Francia – I reclusi nel CRA di Mesnil Amelot in lotta per la liberazione immediata di tutti/e

Come in Italia, anche in Francia continuano le proteste delle persone recluse nei centri di detenzione ed espulsione amministrativa, per esigere il rilascio. Giovedì 9 aprile è stato confermato il primo caso di un detenuto positivo al coronavirus nel CRA di Parigi-Vincennes. La persona, reclusa dal 7 marzo ( e che quindi è stata contagiata all’interno del lager) è stata messa in isolamento in una cella singola. Gli altri 53 reclusi non possono osservare le norme di distanziamento, essendo costretti a convivere ammassati nelle celle e negli altri luoghi comuni come il refettorio e la sala tv. Le autorità stanno provocando un pericolosissimo focolaio nel lager.
Anche nel CRA di Mesnil-Amelot i circa 50 reclusi sono preoccupati perché, come raccontano, qualche giorno fa un loro compagno è stato fatto uscire per un presunto caso di coronavirus.

Blocco in corso del CRA di Mesnil-Amelot, i prigionieri chiedono la liberazione di tutti!

Traduzione da: A bas les CRA

Questa sera, 11 aprile, dalle 20:00, i prigionieri del CRA 2 di Mesnil-Amelot hanno occupato il cortile dell’edificio e bloccato la passeggiata con grida di “libertà!”. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, i reclusi hanno chiesto di essere liberati, considerata la chiusura delle frontiere, ma lo stato sta continuando la sua politica di confinamento. Inoltre non vengono prese misure sanitarie per prevenire la diffusione del virus all’interno del centro. Mentre i poliziotti della PAF entrano ed escono dalla prigione per migranti privi di documenti a rischio di portare lì il virus, i detenuti rimangono rinchiusi. Non lasciamo da soli i prigionieri in lotta, diffondiamo le loro parole e sosteniamoli in ogni modo possibile!

Per chiamare i prigionieri al centro ecco i numeri della cabina telefonica.

21.50: i reclusi hanno deciso di passare la notte in cortile.

“Ci hanno portato il direttore del centro, ha detto che non hanno soluzione per noi. Allora abbiamo risposto che se è così noi dormiremo fuori. Perché ci tengono qui quando non ci sono più voli [di deportazione] e il coronavirus è nel centro? Non siamo animali. Ecco la doppia condanna! Ci sono alcuni che indossano solo t-shirt e perció siamo andati alla ricerca di coperte all’interno, dormiamo fuori e restiamo tutta la notte! E domani nessuno mangia!”

21:20: i reclusi in questo momento stanno negoziando con il comandante delle guardie.

“Non rispettano per niente i diritti delle persone, non c’è nessuna misura sanitaria decente e quando dici qualcosa la polizia ti picchia, non è umana! Sul serio, ci hanno detto che gli aerei non decolleranno prima di settembre, cosa significa? Non resteremo qui fino a settembre!”.
“Abbiamo bloccato, ci siamo messi tutti in un cortile, cioé dai 4 edifici che erano aperti ci siamo messi tutti in un cortile. Finché non troveranno una soluzione, non ci sposteremo da qui! Prima ci hanno gasato, manganellato, hanno scudi, dopo abbiamo subito delle violenze per niente! Sono lì all’uscita del cortile, davanti al cancello, con manganello alla mano mano, caschi e tutto il resto! Che i giornalisti ci chiamino ma ora! Adesso!” Liberazione immediata di tutti i/le prigionieri/e!

Qui le testimonianze audio dall’interno, registrate ieri sera e stamattina.

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Grecia – Scioperi della fame e repressione nei lager di Moria e Paranesti

“Siamo qui per morire o per ottenere la libertà”: sciopero della fame nel centro di detenzione ed espulsione di Moria

Traduzione da: Aegean border monitoring

Le persone recluse nel centro di detenzione pre-espulsione di Moria (PRO.KE.KA) a Lesbo sono in sciopero della fame dal 5 aprile 2020. Gli scioperanti della fame chiedono il loro rilascio immediato per evitare le conseguenze disastrose di un focolaio di virus nella prigione. Secondo gli scioperanti, “Tutte le carceri del mondo hanno liberato i prigionieri… abbiamo deciso per libertà o morte”. La polizia responsabile del centro di detenzione ha risposto con derisioni, intimidazioni e violenze. Un’unità delle forze speciali di polizia è stata di stanza nel centro di espulsione per almeno 24 ore, molestando e minacciando i detenuti. Secondo un detenuto, “Hanno portato fuori dei prigionieri per interrogarli, uno di loro ha ricevuto un pestaggio… Vogliono sapere perché lo facciamo.” Quattro detenuti si sono cucite le labbra in segno di protesta, dopo alcune ore è stato chiamato un medico per venire a rimuovere il filo con la forza. Lo stato greco insiste sul fatto che nessun detenuto migrante verrà rilasciato. Ciò nonostante gli annunci di un rilascio di prigionieri con brevi condanne rimanenti e di un rilascio globale di detenuti durante la pandemia di Coronavirus. Un tribunale ha stabilito che le persone detenute in un campo di detenzione nella Grecia settentrionale dovrebbero rimanere recluse perché “a rischio di fuga”. Al contrario, il governo greco ha aumentato la detenzione di persone migranti, trasformando i campi profughi in prigioni in cui l’accesso a cure mediche adeguate, igiene, acqua e la capacità di mantenere le distanze sociali sono tragicamente impossibili.
[…] Il 6 gennaio 2020 un uomo di 31 anni è stato trovato impiccato nella sua cella dopo essere stato posto in isolamento. Da allora, ci sono stati diversi tentativi di suicidio. In un caso, un uomo ha tentato il suicidio ed è stato espulso il giorno seguente. In più di un caso, i tentativi di suicidio sono stati preceduti e seguiti da violenze e molestie della polizia.

Nuclei antisommossa e selvaggia repressione contro gli immigrati in sciopero della fame a Paranesti, nella provincia di Drama.

Traduzione da: Athens Indymedia

Massacrati di botte in un’operazione repressiva centinaia di prigionieri migranti, in sciopero della fame nel campo di concentramento di Paranesti (Drama), i quali si erano ribellati contro le loro misere condizioni di detenzione.

Da contatto telefonico con diversi immigrati detenuti nel centro di detenzione di Paranesti siamo stati informati dei seguenti fatto verificatisi venerdì 3 aprile.

Il campo ha 6 sezioni in cui sono posizionati da 7 a 8 container, e in ciascuno di essi vivono stipate 15 persone. Le condizioni di vita sono miserabili e le persone sono private persino degli oggetti di prima necessità. Continua a leggere

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Di virus, contenimento e deportazioni. Un punto sui Cpr

da macerie

Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.

Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.

Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.

La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza  rispetto persino al contesto europeo. Continua a leggere

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