Torino – Presidio sotto alle mura del CPR – domenica 14 ottobre

fonte: Macerie

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Udine – Di accoglienza si muore

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Da qualche giorno è circolata la terribile notizia di alcuni fatti accaduti a Udine negli ultimi otto mesi: da febbraio a oggi, con un picco nel mese di agosto, sarebbero morte in circostanze poco chiare tra le cinque e le sedici persone richiedenti asilo, tutte residenti in alcuni Cas situati a Udine, tra cui l’ex caserma Cavarzerani, una struttura gestita dalla Croce Rossa e quotidianamente controllata da ingenti presidi di forze di polizia che, secondo gli ultimi numeri di cui si ha notizia, avrebbe ospitato nei mesi estivi circa 700 persone, a fronte di una capienza di 300. Le morti sarebbero avvenute tra i Cas stessi, il carcere e l’ospedale di Udine.

I media ufficiali riportano soltanto due di questi episodi, liquidandoli in poche righe: uno riguardante il presunto suicidio da parte di una persona di origine afghana che sarebbe avvenuto proprio nei locali dell’ex caserma Cavarzerani il 12 agosto; l’altro relativo al suicidio, anche in questo caso presunto, di una persona di origine pakistana, avvenuto il 19 agosto in una cella singola della sezione protetta del carcere di Udine, sotto la stretta sorveglianza delle guardie penitenziarie. Le autorità carcerarie hanno dichiarato che la persona deceduta sarebbe stata trasferita lì su decisione del medico dell’infermeria, dove era stata condotta per medicare delle lievi lesioni procurate, secondo la versione ufficiale, in seguito a un diverbio avvenuto con altri detenuti il giorno precedente alla morte, cioè quello del suo ingresso in carcere.

Due notizie gravissime, soltanto accennate da alcuni quotidiani locali, che riportano le versioni ufficiali date dalle autorità. Con buona pace di (quasi) tutti, il caso è chiuso e risolto. Insomma, l’importante è non porsi domande, non farle, non vedere. Tacere.
E invece di interrogativi ce ne sono proprio tanti. Sappiamo che storie così accadono quotidianamente nei luoghi del controllo e della repressione. La versione ufficiale dei suicidi non è nuova e mai crederemo alle versioni ufficiali del braccio armato del potere e dell’autorità.

Certo, sappiamo che forse non potremo mai conoscere la verità, dal momento che chi avrebbe potuto dircela non c’è più, ma non per questo restiamo indifferenti. E non lo resteremmo nemmeno se si trattasse veramente di suicidi, tantomeno se avvenuti all’interno di luoghi di confinamento e detenzione, sotto il controllo repressivo di guardie e sbirri, dopo mesi, spesso anni, di attesa di commissioni e documenti che non arrivano mai, privati della libertà di gestire e organizzare la propria esistenza e di vivere in autonomia, in condizioni materiali e psicologiche spesso devastanti. Proprio quando, insomma, il suicidio resta l’ultimo atto possibile di libertà.
Ma il segnale ancora più allarmante su ciò che sta accadendo dentro questi luoghi è la coltre di silenzio che ha circondato tutte queste morti, che fa sorgere ulteriori dubbi su chi, o che cosa, le abbia provocate.

Tutto questo accade a Nord-Est dell’Italia dove i migranti, per la maggior parte in arrivo dalla rotta balcanica, si scontrano nella ricostituita frontiera tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia. Salvini e Fedriga hanno annunciato con fierezza l’istituzione di un presidio permanente delle forze dell’ordine su quella frontiera per il pattugliamento continuo della fascia confinaria di Trieste e provincia, soprattutto sul Carso. Per l’occasione, sono stati radunati gli agenti della mobile di Padova, gli equipaggi del Reparto prevenzione crimine sempre di Padova, fino al corpo regionale Fvg della forestale. Una vera e propria caccia ai migranti istituzionalizzata tra i boschi di confine, dove non sembrano mancare casi in cui i respingimenti avvengono direttamente tramite la riconsegna di mano in mano alle polizie dei vari paesi, in un percorso a ritroso che li riporta di nuovo in Bosnia e in Serbia. Questi ennesimi respingimenti di polizia non sono altro che la versione alternativa, senz’altro più efficiente ed economica, del ping pong legalizzato dei migranti previsto dal sistema di trasferimenti Dublino e delle espulsioni, previsti dalle leggi europee e nazionali.
Mentre le istituzioni leghiste annunciano gli sgomberi di tutti i migranti che dormono sulle Rive a Trieste, il vicesindaco della città Polidori gira di notte registrando video di se stesso intento a cacciare ai migranti che dormono sulle rive e sui sagrati delle chiese, minacciando di chiamare gli sbirri per ripristinare la sua idea di ordine pubblico. Intanto, Forza Nuova continua a chiamare ronde per presidiare il centro città e la val Rosandra, nella zona di confine.

La regione leghista dichiara, inoltre, la volontà di riaprire il CPR di Gradisca d’Isonzo, fatto chiudere nel 2013 dai migranti reclusi a colpi di rivolte. In più, si dice favorevole ad aprire un CPR per ogni capoluogo di provincia: strutture più piccole, più capillari ed efficienti per effettuare i rimpatri o anche soltanto per il confinamento dei migranti. I campi dovrebbero essere più piccoli di quelli del passato in modo da essere più controllabili e per poter reprimere qualsiasi rivolta con facilità. Inoltre, l’approvazione dei tagli ai fondi per l’integrazione, che fino a poco fa finanziavano vari servizi destinati ai migranti fuori accoglienza e alcuni progetti di accoglienza diffusa nella regione, ha suscitato la reazione non soltanto delle cooperative dell’accoglienza, chiaramente interessate a mantenere il proprio posto di lavoro, ma anche dei quattro prefetti della regione, che ne hanno fatto una questione di pubblica sicurezza, dal momento che i servizi del territorio finanziati con questi fondi garantivano il controllo e la gestione capillare dei migranti.

Di carcere si muore, così come di “accoglienza”. Sulle frontiere geografiche e in quelle dei grandi centri di confinamento dei migranti sparsi sul territorio. La notizia di così tante, troppe morti avvenute in così poco tempo, non può passare sotto silenzio, né essere dimenticata. Il clima di terrore e l’omertà imposta dai protettori di questo sistema non basterà a far calare l’attenzione su ciò che accade quotidianamente sui nostri territori e nei centri di confinamento, qualsiasi sia il nome attribuitogli. Non basterà a sedare le lotte contro ogni frontiera.

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Roma – Domenica 7 ottobre – Presidio al CPR di Ponte Galeria

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L’estate appena trascorsa ha visto media e opinione pubblica concentrarsi in modo particolare sul tema immigrazione. La presenza di Matteo Salvini al Ministero dell’Interno, e la forte propaganda mediatica razzista degli ultimi mesi, hanno senza dubbio dato man forte agli innumerevoli atti di violenza contro persone di altre etnie e Paesi di provenienza che si sono susseguiti da nord a sud, causando spesso gravi ferimenti e uccisioni. Grande spazio hanno avuto poi i testa a testa del governo italiano con i rappresentanti degli altri Paesi europei sulla questione degli sbarchi, con i noti slogan che ritraggono la situazione italiana in perenne emergenza immigrazione.

In realtà i dati riportati dal Viminale nel dossier sulla sicurezza ci dicono che durante il periodo 1 agosto 2017-31 luglio 2018 sono sbarcate in Italia 42.700 persone, il 76,6% in meno dell’anno precedente, quando le coste italiane erano state raggiunte da quasi 183.000 migranti. Sappiamo bene che fine hanno fatto le persone che non sono mai arrivate, lasciate morire in mare o respinte in Libia, rinchiuse nei lager nati in seguito all’accordo con l’Italia dell’estate 2017 avente l’intento di frenare e controllare l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia. Continua a leggere

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Roma – Giovedì 4 ottobre – Presentazione e discussione opuscolo “Migrazione e detenzione delle donne nel Cpr di Ponte Galeria” @BAM

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Qui il link per leggere e stampare l’opuscolo.

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Belgio – Quando la polizia spara, lo Stato mente e i media rilanciano

Il 23 settembre si è tenuto un presidio sotto le mura di recinzione del lager per migranti (CIE) di Bruxelles. Centinaia di persone hanno così commemorato i vent’anni dell’assassinio di Semira Adamu, una migrante soffocata dalla polizia durante il suo sesto tentativo di espulsione. Le persone recluse hanno risposto come potevano dalle grate delle loro celle alle grida, musica e battiture dei/delle solidali. La manifestazione sotto al lager fa parte di una serie di azioni organizzate in queste settimane e che proseguiranno anche la prossima settimana con un sit-in a Jumet (Charleroi) dove sarà costruita un’altra prigione per migranti.

Nei giorni scorsi, tuttavia, nel quartiere in cui si trova anche il parc Maximilien la polizia ha sparato a un uomo belga di origini egiziane che dormiva per strada. In molti, anche in Italia, hanno rilanciato la notizia diffusa dalla polizia che l’uomo avrebbe attaccato le guardie con un coltello. Le cose, tuttavia, non stanno affatto così. Qui di seguito la traduzione di un comunicato scritto da compagni e compagne e diffuso per le strade di Bruxelles:
“Lunedì 17 settembre alle 9, nella via chaussée d’Anvers, vicino alla torre WTC (non lontano dalla stazione del Nord N.d.T). Un uomo che dormiva sul marciapiede, cade sotto i colpi da fuoco della polizia. 3 pallottole. Il “perimetro di sicurezza” circondato da teloni istallato in tutta fretta dopo il fatto rappresenta bene la non trasparenza del caso. Dal momento in cui il fatto è reso pubblico, la procura diffonde delle informazioni che mettono l’uomo, senza fissa dimora, nella posizione dell’ “aggressore” colpevole. La stampa rilancia il comunicato ufficiale, e titola già in prima pagina “un uomo pugnala un poliziotto al parc Maximilien”.

Due giorni dopo, un vicino che aveva filmato la scena dopo i tre colpi da fuoco della polizia spiega ai giornalisti di BX1 che “l’aggressore” era già immobilizzato quando i poliziotti gli hanno sparato: “Abbiamo visto tutta la scena e l’uomo era già immobilizzato quando i poliziotti gli hanno sparato addosso. Questi hanno prima usato lo spray lacrimogeno, poi gli hanno sparato. Erano dodici poliziotti attorno a lui, non due. L’uomo è stato ancora percosso dopo. Un altro uomo in borghese è arrivato dopo e gli ha fatto i primi soccorsi, ma non so se era un poliziotto”.
A.E., 43 anni si trova tra la vita e la morte da lunedì, vittima delle leggi belghe, sempre più repressive contro migranti ma anche, contro tuttx i/le belgx quando hanno a che fare con il controllo sociale, il diritto al lavoro, l’accesso ai servizi, etc. Quanto accaduto è il frutto delle politiche razziste, di sfruttamento e d’oppressione condotte dallo Stato. La giustizia protegge la sua polizia. E le/i policitx, continuano ancora e sempre i loro discorsi di odio e di esclusione.

La situazione ricorda tristemente il dramma del 17 maggio passato, quando una guardia ha aperto il fuoco sul conducente di una camionetta che trasportava delle famiglie di migranti e la pallottola si conficcò nella testa di una bambina di 2 anni, Mawda. Anche su questo episodio la giustizia si tiene in un’opacità inquietante.
Noi rifiutiamo la propaganda di Stato che criminalizza la vittima e riaffermiamo che svegliando brutalmente un uomo che dorme per strada e sparandogli addosso per ucciderlo, la polizia si è ancora una volta resa colpevole di una violenza di cui ha illegittimamente il monopolio. La violenza non viene affatto da un uomo che dorme per strada, ma da un governo che persevera nella sua impresa di criminalizzazione e di invisibilizzazione delle persone già marginalizzate, e il cui braccio armato può permettersi tutto senza preoccuparsi affatto”.

Fuoco alle galere!

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Palmi (RC) – A processo due solidali che sostengono le lotte di chi vive nelle tendopoli di San Ferdinando

Lunedì 1 ottobre, avrà inizio a Palmi uno dei processi contro chi supporta le lotte autorganizzate dalle persone immigrate che vivono nei ghetti e sono sfruttate nelle campagne.
In questo caso, l’accusa rivolta a due nostre compagne è di aver aiutato una persona a sfuggire all’identificazione e, per una di loro, di averlo fatto con l’uso della forza contro un carabiniere, durante la giornata di lotta del 22 marzo 2017 a San Ferdinando.

Questo processo, così come alcune segnalazioni e i verbali di perquisizione che attestano il ritrovamento di volantini e striscioni, è alla base del foglio di via impartito la scorsa estate a 3 compagnx, conseguentemente alla giornata di resistenza che ha visto gli abitanti della tendopoli puntare i piedi davanti all’ennesimo tentativo di sgombero. Operazione umanitaria-militare che ha solo prodotto il moltiplicarsi di ghetti, tra cui il campo di lavoro inaugurato il giorno stesso dallo stato: un insieme di tende ministeriali perimetrato da recinzioni, telecamere, con accesso e orari gestiti dal controllo tecnologico e dall’assedio delle forze dell’ordine e numerose altre limitazioni.

Il teorema che la questura continua a ricamare sui nostri compagni e compagne è che farebbero parte di una regia occulta che incita e pilota le persone immigrate a ribellarsi. Con gli stessi presupposti altri solidali sono stati denuncianti in seguito ad un’altra giornata di lotta, tenutasi sempre nelle strade di San Ferdinando. Così come a Foggia, dove alcuni compagni e compagne, per le stesse lotte, subiranno un processo nelle prossime settimane. Infatti, anche nella provincia pugliese, le persone costrette a vivere nei ghetti da anni si sono autorganizzate per cambiare le proprie condizioni di vita e di lavoro.
Qui, come in Calabria, le risposte sono stati sgomberi, campi di lavoro e denunce.

In questi casi allo stato serve raffigurare gli immigrati e le immigrate come incapaci di intendere e di volere, manovrate da cattivi consiglieri. Non sarebbero dunque gli abusi delle guardie, l’assenza di documenti, la sopravvivenza in baracche e tende senza luce e acqua, il passaggio obbligatorio nei campi di stato, lo sfruttamento nelle campagne, l’impossibilità di scegliere dove e come vivere, a spingere le persone a lottare, a fuggire davanti un controllo, a rifiutare deportazioni e compromessi.

Per accompagnare militarmente anche l’introduzione della Zona Economica Speciale (ZES) nell’area industriale del porto di Gioia Tauro, lo stato ha scelto di regolamentare i campi di concentramento per lavoratori immigrati e, cosciente che le rivendicazioni delle dure lotte portate avanti vanno ben oltre la sopravvivenza nei ghetti, ha deciso di isolarle totalmente da una presenza solidale, da occhi indiscreti.
Fino a oggi il lavoro della questura sembra piuttosto semplice perché ben pochi/e compagni e compagne hanno risposto agli appelli di chi lotta nelle campagne.

Mentre le forze dell’ordine s’impegnano ad attaccare qualsiasi presenza solidale con denunce, minacce e umiliazioni, lo stato ha scelto un suo referente, un soggetto che deve rappresentare, con una sola voce, tutte le persone costrette nei ghetti.
All’USB (Unione Sindacale di Base) vengono quindi date le sale del comune di San Ferdinando per inscenare i monologhi dei propri dirigenti, davanti ad una silenziosa platea di lavoratori; così come gli è stata affidata la gestione di uno sportello per agevolare le pratiche dell’ufficio anagrafe, e concesso l’ingresso nel campo di stato inaugurato solo un anno fa.
Di fronte alla quotidiana repressione che riguarda le persone che vivono nelle tendopoli, compare la mano rassicurante di un sindacato, che parla con lo stato e “ottiene qualcosa”.

In forma episodica sono state raccontate le numerose occasioni in cui l’USB ha affiancato gli interessi dello stato, dimenticando le rivendicazioni delle persone direttamente coinvolte. Forse, la più eclatante, fu proprio nel tentativo di sgombero della vecchia tendopoli accompagnato dalla mediazione e l’invito a lasciare le tende per
cercare, in futuro, di cambiare le cose.
Un invito perpetuo alla calma, anche davanti a vere e proprie tragedie, che descrive “il consentito” fuori dal quale resta solo la repressione frontale. Lo raccontano bene le testimonianze e i comunicati scritti in più lingue da chi vive e lotta nella piana di Gioia Tauro.

Noi crediamo a quelle voci e a quelle persone non smetteremo di dimostrare che siamo al loro fianco nonostante i tentativi di questure e tribunali.

Settembre 2018

Rete Evasioni
Rete Campagne in lotta
Le compagne e i compagni di Hurriya

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Egitto – Aggiornamenti dal carcere e lettera di un detenuto

hurriya

Il 9 settembre scorso Gamal Abdel Fattah di 72 anni e Hassan Hussein di 62 anni sono stati scarcerati. Nonostante le loro condizioni di salute fossero pessime, lo Stato criminale non ha perso occasione di torturare i due oppositori politici fino all’ultimo momento. In effetti, l’ordine di scarcerazione è stato rilasciato il 4 dello stesso mese. I restanti 5 giorni Gamal e Hassan li hanno passati in commissariato, in misere celle, super affollate, senza cibo, né acqua, né sonno. L’unica cosa positiva è che i due compagni sono finalmente liberi.

Si aspetta anche l’ordine di scarcerazione per Yassin che ha finito di scontare la pena di due anni per manifestazione non autorizzata. Come tanti altri detenuti anche lui è costretto a vagare da un luogo di detenzione all’altro prima di essere libero.

Il regime comunque non dà alcun segno di tregua. Sempre il 9 settembre la Corte Criminale del Cairo ha emesso le sentenze per 739 persone (di cui 5 morte durante il processo) detenute a seguito dell’eccidio di Rabaa nel 2013: 75 condanne a morte, 47 al carcere a vita, 374 a 15 anni, 23 a 10 anni, 5 anni ai restanti.

Qui di seguito pubblichiamo la traduzione di una lettera scritta in carcere da Abdel Rahman al-Gendy, uno studente di 22 anni, arrestato a piazza Ramsis (Il Cairo) nell’ottobre del 2013. Quattro mesi dopo l’estromissione del presidente Morsi, tre mesi dopo il massacro di Rabaa.

Insieme ad altre 60 persone, è accusato di tentato omicidio, vandalismo e detenzione di armi e disturbo della quieta pubblica.
La sentenza è di 15 anni di carcere e 5 anni di libertà condizionata e una cauzione di 20.000 L.e., emessa dalla corte del Cairo il 30/09/2014.
Nel marzo del 2016 l’ultimo appello è stato rigettato dalla cassazione.
Abdel Rahman aveva vinto una borsa di studio per studiare ingegneria all’università tedesca del Cairo, non aveva ancora 18 anni quando è stato arrestato.

In quanto detenuto ha perso il suo posto all’università, ora è iscritto all’università di Ein Shams e studia dal carcere di Tora. Continua a leggere

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Solarino (Siracusa) – Le donne migranti si barricano nel centro di accoglienza e resistono all’intervento dei carabinieri: 5 arresti

Un mese fa avevamo riportato la notizia della protesta delle donne migranti nel centro di accoglienza di Castiglione della Garfagnana. Stamattina, 12 settembre, altre donne migranti si sono barricate nel centro di accoglienza del Cenacolo Dominicano a Solarino, un paese in provincia di Siracusa. “Nel cortile delle strutture d’accoglienza del Cenacolo Domenicano, donne, ragazzine e bambini richiedenti asilo hanno dato vita ad una dura protesta, lamentando scarsità di cibo, locali invivibili a causa del caldo, insieme ad altre rivendicazioni”. Secondo gli articoli dei media locali, che riportano l’identica velina dei carabinieri, le donne hanno resistito alla repressione delle forze dell’ordine e 5 di loro, accusate di aver diretto la rivolta, sono state arrestate e condotte nel carcere femminile catanese di Piazza Lanza. Di seguito riportiamo il testo della notizia.

Questa mattina, alle prime luci dell’alba, si è appreso di una rivolta degli ospiti del centro di accoglienza per migranti del Cenacolo domenicano, che ospita solo persone di sesso femminile.
Secondo quanto ricostruito dai carabinieri intervenuti, le ospiti della struttura, tutte donne di giovane età, in attesa di riconoscimento dello status di rifugiato, alcune delle quali in stato di gravidanza, avevano eretto delle vere e proprie barricate in segno di protesta, lamentando il fatto che da mesi non ricevevano il pocket money, impedendo agli operatori della struttura di entrare ed uscire dalla stessa.
I carabinieri di Solarino, immediatamente giunti sul posto, non sono potuti entrare dall’ingresso principale della struttura, in quanto effettivamente bloccato da barricate e presidiato da almeno venti donne, che alla vista dei militari avrebbero iniziato a minacciarli impugnando bastoni. Alcune di loro, inoltre, indicavano alle donne in gravidanza di sdraiarsi davanti alle barricate per evitare che i carabinieri le spostassero.
I carabinieri hanno deciso di entrare lo stesso all’interno scavalcando il muro di cinta, ma proprio in quel momento alcune migranti in rivolta, su ordine di cinque di esse, li avrebbero aggrediti con bastoni, morsi, calci e graffi.
Di queste cinque presunte responsabili di disordini e aggressioni, individuate dai carabinieri, due sono state subito fermate e accompagnate in caserma, mentre altre tre sono fuggite a piedi per le vie circostanti al centro di accoglienza, tentando di nascondersi all’interno di alcuni fienili presenti in zona, prima di essere rintracciate dai militari e anche loro accompagnate in caserma.
Sono state quindi identificate e arrestate O.O., E.C., K.R., I.L. e S.S., tutte giovanissime, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, incensurate, originarie della Costa d’Avorio e della Nigeria, con le accuse di “lesioni e resistenza a pubblico ufficiale”. Infine sono state tradotte nel carcere femminile catanese di Piazza Lanza, così come disposto dalla competente autorità giudiziaria.

 

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Appello a 10 giorni di mobilitazione contro frontiere e razzismo di Stato in occasione del processo per i fatti del Brennero

Fonte: Abbattere le frontiere al Brennero e ovunque

Il 12 ottobre, presso il tribunale di Bolzano, comincerà il processo contro 63 imputati e imputate per la manifestazione Abbattere le frontiere tenutasi al Brennero il 7 maggio 2016. Si tratta del primo troncone giudiziario, a cui ne seguirà un altro con altrettanti imputati. Nel frattempo, gli arrestati durante il corteo del 2016 a cui è stato fatto il processo d’appello si sono visti confermare la condanna a un anno e due mesi.
Si può dire che il motivo per cui siamo andati al Brennero quel giorno è decisamente, tragicamente attuale. Allo stesso tempo, visto quello che sta succedendo attorno a noi, l’importanza di questa scadenza repressiva impallidisce alquanto. Se ciò che ci rivendichiamo è lo spirito con cui in centinaia siamo andati al Brennero, vorremmo fare anche del processo un’occasione di lotta contro le frontiere sempre più assassine e contro un razzismo di Stato che non ha mai incontrato, se non negli anni Trenta, un simile consenso sociale.
Non servono molte parole per sottolineare quanto sia necessario e urgente agire contro questa ondata reazionaria. Ai campi di concentramento, alla segregazione istituzionale e allo sfruttamento spinto fino alla semi-schiavitù, si accompagna uno stillicidio di aggressioni contro gli immigrati. Siamo ormai al tiro al bersaglio fomentato, legittimato, normalizzato. Difficilmente si potrebbe immaginare una più ignobile (quanto funzionale a padroni e governanti) parodia dello scontro di classe. È come se la rassegnazione e la sottomissione con cui un’ampia parte della società ha accettato tre decenni di attacchi capitalistici si raggrumasse nel rancore verso l’immigrato, delegando al ducetto di turno la maniera forte. Se nazionalismo e razzismo, vecchi ami avvelenati a cui sempre più sfruttati abboccano, non trovano in fretta decisi sbarramenti, infetteranno a lungo le anime morte prodotte da questa meravigliosa democrazia. Educati a pane e tolleranza verso l’intollerabile (tanto tutto è opinione, no?), eccoci qua.
E noi?
L’epoca che richiede alle minoranze ribelli quelle drastiche opzioni di cui parlava uno storico partigiano non è dietro, ma davanti a noi. È qui. Sta salendo giorno dopo giorno.
Nel periodo che va dal 10 al 20 ottobre, l’iniziativa, l’azione e la rabbia contro ciò e chi fomenta tutto questo potrebbe convergere nel tempo e diffondersi nello spazio. C’è bisogno di dare dei segnali, di darsi spunti e coraggio (nonché esprimere solidarietà ai processati per gli scontri del Brennero).

abbattere le frontiere

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Opuscolo – Migrazione e detenzione delle donne nel CPR di Ponte Galeria

riceviamo e diffondiamo:

Migrazione e detenzione delle donne nel CPR di Ponte Galeria – Alcuni spunti di riflessione

Quanto scritto è frutto di una stesura collettiva, il tentativo di rendere fruibili su carta alcuni dei ragionamenti che hanno costruito il percorso di lotta contro le frontiere che portiamo avanti in città, e che hanno contribuito a decostruire alcuni dei pregiudizi e costrutti sessisti e suprematisti che ognuna di noi ha dentro. Ci auguriamo che apra a ragionamenti più approfonditi e condivisi sulle oppressioni multiple di genere, razza e classe.
Lungi dal voler essere esaustivo, ci auguriamo che quanto qui riportato possa aver fornito qualche strumento di riflessione in più sui meccanismi che operano all’interno dei centri di detenzione per migranti e sugli svariati dispositivi di controllo che vi ruotano intorno; che gli spunti per la discussione proposti siano una parte di una riflessione più ampia che ragioni sulle molteplici facce di un’oppressione che sistematicamente garantisce e nega privilegi per nascita.
Speriamo con ciò di veder allargarsi le fila di quelle solidali che si ritrovano fuori da un CPR o che lottano contro una frontiera, sia essa fatta di filo spinato o di idee stigmatizzanti.

Nemiche e nemici delle frontiere

Stampa e diffondi l’opuscolo migrazione e detenzione PG

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