“Che succede a Bardonecchia ed alla frontiera italo francese?” – 3 giugno @ Casale Alba2 (Roma)

fonte: Casale Alba 2

DOMENICA 3 GIUGNO @ Casale Alba Due
H13 pranzo benefit per contribuire alle spese legali di Eleonora, Thèo e Bastien, tre ragazzi arrestati durante una manifestazione al confine italo-francese

H16 incontro-dibattito: avremo modo di confrontarci con un compagno di Briser les Frontières, rete di solidarietà italo-francese che ormai da un anno è impegnata sulla frontiera tra i due Paesi, e con l’avvocato Cosimo Alvaro, che ci farà un focus sulla situazione legale italiana e francese in tema di migrazione.

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Olanda – Nuova occupazione abitativa delle donne del collettivo “Noi siamo qui” ad Amsterdam

L’11 aprile 2018 ad Amsterdam alcune donne migranti, facenti parte del collettivo “Noi siamo qui” (Wij Zijn Hier – We Are Here), sono state sgomberate da un edificio occupato dove vivevano dal settembre 2016. Lo stesso giorno, hanno tenuto un presidio davanti al Municipio della città. Le autorità olandesi propongono da tempo, come unica soluzione, l’ospitalità esclusivamente dalle 21 alle 9 del mattino nei dormitori notturni BBB (Bread, bed, bath). Rifiutando questa soluzione, perché “siamo di nuovo in strada tutti i giorni alle 9.00, il che ci rende dipendenti e vulnerabili agli abusi”, hanno deciso di occupare, il 22 aprile, una nuova struttura, dei locali commerciali abbandonati. Il 27 maggio 2018, le 25 donne di “We Are Here” si sono trasferite collettivamente nell’edificio che hanno occupato in via Albinonistraat 5 , vuoto da molti anni.

Di seguito traduciamo dal sito di “Noi siamo qui” alcuni comunicati e analisi sulla loro storia e percorso di lotta.

Comunicato Le donne di “We Are here” manifestano contro lo sgombero.

Un gruppo di donne di WE ARE HERE manifesterà al Municipio di Amsterdam dalle 12.00 di mercoledì 11 aprile. Hanno vissuto in un edificio occupato nella Burgemeester Roëllstraat per un anno e mezzo, ma devono andarsene mercoledì. Perché non sanno dove passare la notte, vanno direttamente al municipio. Richiedono un’assistenza di 24 ore. Il BBB (letto, bagno e pane) che Amsterdam ora offre non è un’opzione perché è solo un’accoglienza notturna. Le donne sono poi per strada tutti i giorni alle 9 in punto. Questo rende le donne dipendenti e vulnerabili agli abusi. Non ricevono denaro dal comune di Amsterdam, nemmeno per le cure personali.

Non sono al sicuro per strada. Hanno bisogno di un tetto sopra le loro teste. Un tetto che altre città offrono sotto forma di BBB con supporto legale / sociale, vita e indipendenza in cui un piano per il futuro viene elaborato insieme.

Le donne provengono da paesi come l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia. Non hanno documenti; non hanno mai avuto documenti, gli sono stati sottratti o sono andati persi durante il viaggio. La ricezione 24 ore su 24 non è necessaria solo per la sicurezza. Se non hai documenti come rifugiato, devi in un modo o nell’altro dimostrare che sei quello che sei. Questo è impossibile sulla strada. Durante il soggiorno nell’occupazione a Roëllstraat le donne avevano iniziato a trovare le prove per ottenere i documenti. Tredici (!) di loro hanno ottenuto un permesso di soggiorno nel frattempo! Nell’occupazione a Roëllstraat hanno iniziato a seguire lezioni olandesi. È difficile seguirle se si è in strada.

Comunicato – Le donne di We are here occupano per la loro libertà

Domenica 27 maggio 2018, le donne del collettivo dei/delle migranti ‘We Are Here’ hanno preso possesso dell’edificio in via Tommaso Albinonistraat 5. Questo edificio era rimasto vuoto per molti anni. Dopo lo sgombero ad aprile dal precedente alloggio al Burgermeester Roëllstraat, era molto sentita la necessità di trovare nuovi spazi abitativi dopo 7 settimane senza casa. Il gruppo ha colto l’occasione per sottolineare l’urgenza di un alloggio aperto 24 ore su 24 e anche per chiarire cosa è necessario per realizzare una vera ospitalità.

Da ormai quasi 6 anni, “Noi siamo qui” lotta collettivamente per una diversa politica di asilo e una vita normale con i diritti umani fondamentali. ‘La situazione negli ultimi anni è costata molto a noi e tanti altri. Chiediamo quindi al futuro consiglio comunale di realizzare un’ospitalità di 24 ore su 24 al più presto possibile. Un rifugio di 24 ore in cui possiamo trovare la pace e la sicurezza necessarie e possiamo lavorare sul nostro futuro nella società olandese “, dice Raaho dalla Somalia.

Le donne di “Noi siamo qui” (dalla Somalia, dall’Eritrea e dall’Etiopia) vogliono sottolineare che vogliono contribuire a dare forma al rifugio di 24 ore. ‘È importante parlare con noi invece di noi’. C’è bisogno di input da parte delle persone a cui è destinato il rifugio, altrimenti non avrà mai successo. Sia per le persone senza documenti di residenza che sono state costrette a vagare ad Amsterdam per molti anni, che per la politica municipale, c’è molto in gioco per rendere questa nuova reception di 24 ore un successo. Per il gruppo, la ricezione su 24 ore significa un passo importante verso uno stile di vita più normale. Le donne chiedono al comune e alle autorità esecutive di avviare un sincero dialogo con loro. “Insieme possiamo risolvere la situazione che dura da troppo tempo”, dice Maria dall’Etiopia.

Una ricezione che porta a una tregua e a delle soluzioni, significa quanto segue:

• una buona assistenza legale nella procedura per ottenere il diritto di soggiorno.

• uno spazio abitativo indipendente con privacy e possibilità di cucinare da sole.

• una durata della ricezione volta a risolvere le situazioni individuali.

• nessuna telecamera e monitoraggio minimo del luogo.

• orientamento personalizzato, informazioni adeguate e chiarimenti.

• nessuna deportazione forzata.

• accesso all’assistenza sanitaria.

• accesso al mercato del lavoro.

• cittadinanza ad Amsterdam.

• le cosa che possiamo fare noi stesse, ci piace farle noi stesse; nessuna ospedalizzazione

Non è ancora chiaro quando si aprirà la ricezione sulle 24 ore. Il gruppo spera di poter vivere nel nuovo luogo per il momento e contatterà il proprietario per discuterne.

“Noi siamo qui” per rimanere. Le lotte e le occupazioni dei/delle migranti senza documenti.

“In Olanda, la nostra esistenza è strutturalmente negata. Ma questo non significa che non esistiamo. Siamo qui. Viviamo per strada o in rifugi temporanei. Viviamo in un vuoto politico e giuridico, un vuoto che può essere colmato solo dal riconoscimento della nostra situazione e dei nostri bisogni. Le nostre vite sono state sospese perché non abbiamo documenti, ma ci rifiutiamo di negare la nostra esistenza. Ci rifiutiamo di rimanere invisibili. Ci rifiutiamo di rimanere vittime. Chiediamo una soluzione strutturale per chiunque sia nella nostra situazione e per tutti gli altri che potrebbero trovarsi intrappolati nello stesso vuoto politico e giuridico. Chiediamo il riconoscimento della nostra esistenza. Chiediamo che la nostra esistenza sia riconosciuta nelle politiche e nelle leggi ufficiali. Siamo qui e resteremo qui (We Are Here Manifesto).”

Nei Paesi Bassi, il movimento “We Are Here” è stato uno dei primi tentativi di mobilitazione collettiva di un gruppo di migranti privi di documenti. Le persone coinvolte in questo movimento provengono da una varietà di paesi e vivono in un limbo giuridico e politico. Le loro richieste di asilo sono state respinte, ma non possono, non vogliono o non gli è permesso di tornare nei loro paesi di origine. Ciò è dovuto a una serie di motivi, che vanno da procedure burocratiche che non consentono loro di accedere allo status di rifugiato, o alle leggi internazionali che vietano ai Paesi Bassi di deportare persone in paesi specifici in cui la loro vita sarebbe in pericolo, o perché proprio i paesi di origine rifiutano di accettare il loro ritorno. In un sistema politico in cui il possesso di documenti di identificazione legittimi è una condizione fondamentale per l’esercizio della libertà, ogni aspetto della vita di un migrante senza documenti è considerato illegale. Continua a leggere

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Alta Valsusa e Brianzonese – Campeggio itinerante passamontagna. Dall’ 8 al 10 giugno: tre giorni di lotta contro le frontiere

Fonte: Chez Jesus – Rifugio Autogestito

CAMPEGGIO ITINERANTE PASSAMONTAGNA

Dall’ 8 al 10 giugno: tre giorni di lotta contro le frontiere

www.passamontagna.info

PROGRAMMA

VENERDì 8 GIUGNO:

ore 15 MELEZET allestimento accampamento e pulizia dei sentieri

ore 18 MELEZET dibattito ” le frontiere all’interno e all’esterno della fortezza Europa, dall’inferno libico alle frontiere metropolitane”

a seguire cena e spettacolo teatrale: Guerra alle frontiere, una battaglia coloniale. A cura del collettivo Confrontière

SABATO 9 GIUGNO:
ore 10 CAMMINATA da MELEZET a PLAMPINET

ore 17 PLAMPINET dibattito ” accoglienza e sfruttamento. un viaggio dagli hub ai ghetti, passando per cas, sprar e cpr”

a seguire cena e musica dal vivo con: I dieci piccoli indiani

DOMENICA 10 GIUGNO:
ore 10 CAMMINATA da PLAMPINET a BRIANCON

ore 16.30 BRIANCON dibattito ” sulla fascistizzazione della società e confronto tra le esperienze di lotta contro le frontiere”

A seguire ritorno a MELEZET in macchina

ULTERIORI INFO

– La 3 giorni è totalmente autogestita: non ci sono organizzator* o fruitor*, ma solo partecipanti!
– Le colazioni, i pranzi al sacco e le cene verranno distribuite a offerta libera.
– è necessario fornirsi da abbigliamento da montagna, tenda, sacco a pelo e stoviglie.
– ci sarà un mezzo adibito a trasportare i bagagli alla tappa successiva

INFO in ITALIANO: +393491055376
INFO in FRANCESE: +33758196838

Tre giorni in cammino verso un mondo senza frontiere ne fascismi. Tre giorni da passare insieme, condividendo idee ed esperienze tra persone libere dal giogo delle identità imposte. Tre giorni di lotta contro le frontiere, progettate dai governanti ed imposte da donne e uomini in divisa, che continuano a reprimere ed uccidere.

Passamontagna Continua a leggere

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Giovedì 31 maggio presidio al tribunale di Gap. La solidarietà non si arresta!

Fonte: Chez Jesus – Rifugio Autogestito

GIOVEDI 31 MAGGIO PRESIDIO SOTTO AL TRIBUNALE DI GAP

La solidarietà non si arresta!

Théo, Bastien, Eleonora, tutt* liber*!

RITROVO ORE 6,30 A CHEZ JESUS (sottochiesa occupato di Claviere) per partire insieme per Gap

ORE 8,30 fuori dal Tribunale di Gap (Place Saint-Arnoux)

Giovedì 31 maggio si terrà a Gap il processo per Théo, Bastien ed Eleonora, tre compagnx arrestatx in seguito alla marcia che il 22 aprile ha visto più di duecento persone, con e senza documenti, attraversare il confine italo-francese a piedi ed arrivare a Briançon.

Una marcia spontanea contro la frontiera, e contro le divise che la difendono. Una marcia anche contro i neo-fascisti di Génération Idéntitaire, che chiedono la chiusura totale del confine, un aumento dei controlli polizieschi e l’aumento dei rimpatri dei “sans papier”.

Il 22 la polizia di Briançon al termine della marcia ha arrestato tre persone. Théo, Bastien e Eleonora hanno fatto 10 giorni di carcere tra Gap e Marsiglia ed ora sono sottoposti a misure cautelari (obbligo di dimora in Francia, obbligo di firma e l’interdizione dal esprimersi “in pubblico”).

Giovedì 31 alle 8,30 inizia il processo; l’accusa è di favoreggiamento all’immigrazione clandestina in banda organizzata, reato la cui pena massima sono 10 anni di carcere.

Andiamo a farci sentire.

Questo è un processo politico: sotto accusa sono la lotta e la solidarietà che si sono sviluppate nella zona di frontiera negli ultimi mesi. Anche l’accusa di “Banda organizzata” ne è un esempio: l’attacco dello stato è verso le reti di solidarietà che si sono create tra le valli italiane e il briançonnese.

La militarizzazione ha ucciso. Nelle ultime due settimane due corpi sono stati ritrovati appena al di là della frontiera. Blessing, giovane 21enne nigeriana che tentava di raggiungere la Francia è morta in seguito a un inseguimento della polizia francese che l’ha fatta cadere nel fiume. Mamadou invece è morto di sfinimento, nei boschi di Briançon, dopo giorni di cammino dove cercava di evitare i controlli polizieschi sempre più forti.

La frontiera uccide, e la militarizzazione è la sua arma. Lottiamola con ogni mezzo necessario.

Théo, Bastien Eleonora, liber* subito.

Su quei sentieri c’eravamo tutt*.

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Resistenze, evasioni e morti nei lager libici

Da quando si sono riaccesi i riflettori sui lager libici – in particolare con gli accordi presi dall’Italia con la Libia affinché la guardia costiera del paese africano fermi le barche in partenza verso l’Europa – la narrazione che ci viene proposta di questi (non) luoghi rafforza ogni giorno di più l’idea che le persone rinchiuse (per volontà espressa dei governi europei) in questi centri siano vittime, persone “in condizione di fragilità” che come unica possibilità di “salvezza” devono aspettare la mano gentile e misericordiosa delle agenzie internazionali – UNCHR – OIM – delle ONG, delle associazioni antirazziste ecc., che come andiamo dicendo da tempo propongono come soluzione alle condizioni di vita disumane di questi lager “corridoi umanitari” (ne abbiamo scritto qui), i rimpatri assistiti nei paesi di provenienza dai quali le persone sono fuggite, le ispezioni periodiche per garantire standard di vita accettabili (come se in un lager potessero esistere queste condizioni).

Manca quasi completamente il racconto delle proteste, delle fughe e delle rivolte che le persone che vivono in questi lager pongono in atto con determinazione a rischio della loro stessa vita. In generale il discorso politico e pubblico è incentrato esclusivamente sul modo migliore per gestire, da parte dei paesi europei, il movimento delle persone, senza che queste ultime abbiano voce in capitolo.

A partire dai recenti fatti di cronaca, proviamo a raccontare brevemente quello che è successo in alcuni campi di concentramento libici dall’inizio dell’anno, sottolineando come queste proteste trapelate attraverso i media non rappresentano di certo tutte le resistenze praticate dalle persone recluse in Libia.

Lo scorso 23 maggio almeno 25 migranti di nazionalità africana sono stati feriti a colpi di arma da fuoco durante il tentativo di evasione dal luogo in cui erano reclusi nella città di Bani Walid, 170 km a sud-ovest di Tripoli, un importante punto di transito per i/le migranti provenienti dal sud del deserto libico verso la costa occidentale.
“Decine di migranti hanno tentato di fuggire dal luogo in cui erano detenuti alla periferia della città: mentre stavano scappando, i trafficanti di esseri umani hanno aperto il fuoco, ferendone 25” ha dichiarato Salim Bin Dalla, funzionario del dipartimento di polizia di Bani Walid, “circa 50 migranti sono riusciti a scappare e sono venuti da noi; li abbiamo ospitati e abbiamo fornito loro del cibo”. I migranti feriti sono stati portati all’ospedale di Bani Walid. Un medico ha dichiarato che alcuni dei feriti sono gravi, mentre le persone fuggite hanno raccontato che ci sarebbero anche dei morti. Aggiornamento: i sopravvissuti hanno detto a MSF che almeno 15 persone sono morte, e almeno 40, in maggioranza donne, sono rimaste indietro, e di essere stati trasferiti, il 24 maggio, in centri di detenzioni governativi a Tripoli.

Solo pochi giorni prima, il 15 maggio a Gharyan, 94 chilometri a sud est di Tripoli, 8 migranti erano stati uccisi e 20 feriti durante il tentativo di fuga dalla prigione controllata dal Governo libico. Di seguito il racconto dell’accaduto (fonte). Continua a leggere

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Brevi note sul corteo del 5 maggio a Milano contro l’ENI e prossimo appuntamento

Fonte: Round Robin

Si ricorderà che, nelle prime assemblee per confrontarsi sulla solidarietà in vista dei futuri processi per la manifestazione al Brennero del 7 maggio 2016, si era proposto di declinare l’iniziativa contro le frontiere affrontando la questione degli accordi Italia-Libia e il ruolo dell’Eni. Dopo la giornata comune del 12 dicembre scorso, in cui in varie città ci sono state delle iniziative che collegavano la memoria della strage di piazza Fontana con le attuali stragi che lo Stato italiano compie in Libia e nel Mediterraneo, si era cominciato a ragionare su due giornate di mobilitazione a Milano, città dell’Eni. Arrivarci ha richiesto tempo e confronti. Dopo l’assemblea-convegno internazionalista del 21 aprile, a Milano, in cui si è spaziato dalla Libia alla Somalia, dalla Nigeria alle metropoli italiane, dalla logistica al TAP, al rapporto università-guerra, analizzando sia le politiche neo-coloniali (con i loro arsenali militari e giuridici) sia le pratiche di resistenza che incontrano, il 5 maggio si è svolto il corteo. Un corteo su chiare basi anticapitaliste e antistituzionali, un’iniziativa autonoma su temi su cui grava un complice silenzio generale. Lo scopo dichiarato era quello di una manifestazione «comunicativa». Spesso questo aggettivo è inteso per lo più in negativo, per sottrazione, come sinonimo di «tranquillo», cioè «senza scontri». Vedendola in prospettiva, come primo passaggio e non certo come punto di arrivo, volevamo invece dedicare molta attenzione a ciò che avremmo detto, come, e a chi. Per questo l’idea di partire dalla stazione centrale (“vetrina” della città, zona di grande passaggio, ma anche teatro di continue retate contro gli immigrati) per arrivare in un quartiere a forte presenza proletaria e immigrata come Imbonati. Un corteo senza musica, con interventi continui e in più lingue che riportassero in piazza i temi affrontati il 21 aprile. Usando un termine volutamente «antiquato», una serie di comizi itineranti. Per la città e il tema scelti, la Questura ha predisposto uno schieramento ingente di forze, con un elicottero che ha sorvolato su tutto il percorso del corteo. Per via del clima mediatico preparato nei giorni precedenti, un corteo di modeste proporzioni (circa 400 persone) ha avuto una singolare ripercussione su giornali e telegiornali nazionali. Digos e giornalisti di varie città erano presenti a grappoli, il che ha reso impegnativo tenerli lontani e ha imposto alle prime battute della manifestazione un clima da assedio. Quando, lungo il percorso, abbiamo incontrato i primi esseri umani, invece, l’assedio si è spezzato, e abbiamo trovato attorno a noi interesse e persino complicità (molta gente era decisamente più incazzata con la polizia ‒ la quale aveva chiuso intere vie ‒ che con i manifestanti). La curiosità delle persone ai lati si è trasformata in partecipazione attiva quando siamo arrivati in via Imbonati. Qui, in particolare dopo un intervento in arabo contro gli Stati, le guerre e le devastazioni che costringono centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le terre in cui sono nate e cresciute, il corteo si è ingrossato quantitativamente, ma soprattutto è diventato molto più contagioso. Sia per i contenuti (dalle guerre democratiche all’operazione “strade sicure”, le donne sono spesso le prime a subire le conseguenze dell’ordine militare e patriarcale e ad organizzarsi per resistere e contrattaccare) sia per la preparazione collettiva di interventi, manifesti, slogan e scritte in più lingue, particolarmente significativo lo spezzone femminista, che ha dato una bella idea di come corteo «comunicativo» non voglia affatto dire «smorto». Continua a leggere

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Roma – Domenica 10 giugno – Incontro @ L38 Squat “Lager e gestione dei flussi migratori: le responsabilità italiane in Libia”

Durante la Tattoo Circus che si svolgerà a L38 Squat, in via Domenico Giuliotti 8x, parteciperemo all’incontro previsto per domenica 10 giugno, alle ore 16:00, dal titolo “Lager e gestione dei flussi migratori: le responsabilità italiane in Libia”.

Partendo dagli accordi bilaterali tra i due paesi, approfondiremo la situazione dei lager in Libia e come la copertura mediatica su stupri, torture, compravendita di persone da sfruttare abbia creato consenso per militarizzare ancor di più la gestione delle migrazioni e incrementare, attraverso il coinvolgimento “umanitario” delle agenzie ONU e delle ONG, il meccanismo delle deportazioni interne ai paesi africani e dei respingimenti.
Discuteremo di come i corridoi umanitari, richiesti a gran voce dal mondo dell’antirazzismo democratico, siano un ulteriore tassello del processo di selezione delle persone migranti. Infine, evidenzieremo i responsabili italiani della detenzione e della gestione dei flussi migratori.

Qui potete consultare il programma completo della tre giorni benefit per chi è in carcere, attraverso la cassa di solidarietà “La Lima”.

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Algeria – Il governo, in accordo con l’UE, deporta e uccide. In Mali esplode la rabbia dei deportati

Da mesi ormai, il sistema educativo e sanitario dell’Algeria è stato paralizzato da un’ondata di scioperi. L’alto tasso di disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, la svalutazione del dinaro algerino, stanno ora presentando grossi problemi alla popolazione. Un numero sempre maggiore di giovani algerini si vede costretto a tentare l’emigrazione verso l’Europa, malgrado gli accordi bilaterali prevedano l’immediato respingimento o la reclusione nei centri di detenzione per la successiva deportazione, per chi proviene da questo paese.

Per due anni i sindacati indipendenti si sono mobilitati contro le politiche sociali e del lavoro del governo, ma da novembre 2017, innumerevoli sindacati indipendenti nel servizio pubblico stanno portando avanti mobilitazioni sempre più conflittuali contro il governo. Oltre alla compagnia aerea pubblica Air Algerie, gli operatori dei trasporti locali e il servizio postale, le società statali di elettricità e gas hanno proclamato scioperi e proteste.

Ahmed Ouyahia, primo ministro e leader del partito di governo “Rassemblement National Democratique” (RND), mentre reprime violentemente queste proteste e perseguita sindacalisti indipendenti e militanti dei movimenti sociali, ricorre alla propaganda populista contro gli immigrati africani per distogliere l’attenzione, creare un capro espiatorio e garantire gli accordi con l’Unione europea sul controllo dei flussi migratori. 

Continuano infatti i rastrellamenti e le espulsioni di massa di persone migranti provenienti dalla regione subsahariana. Nelle ultime settimane sono più di 1500 le persone che sono state arrestate e deportate alla frontiera sud per essere poi abbandonate nel deserto tra Mali e Niger. Secondo delle testimonianze, una volta catturati “les black” vengono detenutx in campi di fortuna per qualche tempo e successivamente sotto minaccia vengono caricate su camion e abbandonate nel deserto, senza acqua né viveri, non prima di essere spogliati di tutti i loro averi (soldi, cellulari e altro). In queste condizioni sono costretti a marciare decine di chilometri verso la frontiera più vicina, che nella maggior parte dei casi non corrisponde a quella del paese di provenienza.

Alcune cifre ufficiali parlano di 28.000 espulsioni dal 2014. Le autorità algerine continuano a ripetere che queste espulsioni avvengono “in concertazione con i governi dei paesi coinvolti”, ma si tratta di una pura menzogna. A parte il programma “di rimpatrio volontario” firmato con l’OIM, organismo che si rende complice di tutte quelle violenze che le autorità algerine mettono in atto per spingere le persone a firmare la richiesta di rimpatrio, la Lega dei diritti umani algerina sottolinea che ad ora esiste solo un accordo “opaco” con il Niger concernente prima di tutto donne e bambini. Del resto la stampa locale accenna ad accordi sotterranei con i paesi europei ma nessuno ne parla in maniera ufficiale.

Così dal 2014, e specialmente nei primi mesi di quest’anno, continue retate vengono compiute a più riprese ad Algeri, Orano e in tutte le altre città del paese in un crescendo di discriminazione e di persecuzione razziale. In effetti, già nel 2017 diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani affermavano che gli arresti delle persone “sono basate sul profilo etnico, poiché poliziotti e gendarmi non cercano di sapere se i migranti soggiornano legalmente in Algeria, non verificano i loro passaporti, né altri documenti”. Il governo dal canto suo non fa altro che ripetere i consueti discorsi sui migranti in quanto causa maggiore della disoccupazione nel paese, nonché di essere i principali fautori di ogni sorta di crimine e delle spaccio di droga.

Proprio in questi giorni e per la prima volta in questi anni diverse organizzazioni non governative algerine, militanti dei diritti umani e attori della società civile hanno reso pubblico un appello per la protezione dei diritti umani in Algeria chiedendo apertamente la “fine delle deportazioni di massa”. Nel testo dell’appello si denunciano “le operazioni arbitrarie che prendono di mira migliaia di migranti subsahariani, tra cui anche persone altamente vulnerabili”. I firmatari, inoltre, chiedono al governo di provvedere in tutta urgenza alla creazione di “un quadro nazionale in rispetto dei diritti dei lavoratori migranti e di una legge sull’asilo che permetta l’accesso anche allo statuto di rifugiato”.

Cresce intanto la rabbia tra le persone deportate che hanno subito maltrattamenti, torture, detenzione in Algeria e hanno rischiato la morte per disidratazione dopo essere state abbandonate nel deserto. “Per protestare contro questi trattamenti disumani”, come raccontano i giornali locali, lo scorso 12 marzo diverse centinaia di persone, tra le quali molte che recentemente avevano subito la deportazione dall’Algeria, hanno manifestato davanti all’ambasciata algerina a Bamako in Mali. Con pneumatici, pietre, tronchi d’albero, hanno barricato la strada bloccando il traffico. La polizia presente sulla scena, in minoranza numerica e intimorita dalla determinazione dei manifestanti, in un primo momento è fuggita per cercare rinforzi. Prima del loro ritorno, i manifestanti hanno dato fuoco al giardino che si affaccia sull’ambasciata. Le barriere di ferro sono state distrutte, così come i vetri delle finestre, le lampadine e le telecamere di sorveglianza. Solo il successivo intervento in forze dei plotoni antisommossa che hanno attaccato i dimostranti con gas lacrimogeni, effettuando circa 12 arresti, ha impedito che la rabbia delle persone deportate irrompesse nei locali dell’ambasciata.
“Sono venuti in gran numero. Il loro obiettivo era chiaramente attaccare l’ambasciata e il suo staff. Sono persone espulse dalla Libia e dall’Algeria. Loro vogliono, attraverso questo evento, far pagare all’Algeria ciò che hanno vissuto quando erano in questo paese “, ha affermato un commissario di polizia. Secondo le testimonianze raccolte sul posto, i manifestanti hanno detto di aver voluto inviare un forte segnale alle autorità algerine che impone loro condizioni di vita disumane sul suo territorio e persino al momento del loro rimpatrio.

In diverse occasioni il Consiglio superiore della diaspora maliana (CSDM) ha denunciato le condizioni in base alle quali i maliani sono trattati sul suolo algerino e il modo in cui vengono espulsi: cioè “gettati” nel deserto.

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Bologna – Giovedì 24 maggio – Una cena contro le frontiere

Attorno all’hub di via Mattei si è alzata una certa attenzione negli ultimi tempi.
Le persone che ci vivono e alcuni solidali sono scesi più volte in strada per opporsi tanto all’esistenza stessa della struttura, che infantilizza e toglie dignità a chi vi è costretto, quanto al trattamento offensivo e discrezionale degli operatori che la gestiscono.
La cena sarà a supporto dei percorsi di lotta che si stanno sviluppando attorno a quella struttura. Con chi non mendica accoglienza, ma rivendica libertà!

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Bologna – Riflessioni in seguito a 7 espulsioni dall’HUB di via Mattei

Riceviamo e diffondiamo.

..POTREMMO CREDERE CHE

Giovedì 17 maggio, ore 10: in via Mattei arriva una volante dalla questura a notificare l’espulsione dall’hub a sette persone, due delle quali non erano presenti al momento dell’incursione, una per via di una vecchia denuncia, le altre 6 in seguito al rifiuto di un trasferimento.

Da lunedì alla mattina dell’espulsione a coloro i quali sono stati espulsi non è stato corrisposto il pocket money, che spesso viene erogato con ritardi arbitrari giustificati altrettanto arbitrariamente.

Potremmo credere che sia un caso che dopo gli ultimi due mesi, in cui chi vive in quel posto infame ha fatto sentire la propria voce al di fuori, proprio ora si decidano trasferimenti e si espellano persone per storie ben precedenti all’ingresso nella struttura.

Potremmo credere che sia un’altra sfortunata coincidenza che a notificare queste espulsioni per la prima volta a memoria di chi ci vive, arrivino le guardie in divisa, proprio dopo che la minaccia della polizia si era fatta sempre più incombente ad ogni minimo conflitto tra operatori e “ospiti”.

Potremmo credere che quando parliamo di Hub non intendiamo un’istituzione totale in cui si dispone della vita delle persone, usando la paura e il ricatto per assoggettare qualsiasi istanza di libertà.

Potremmo, se gli stessi ragazzi che abbiamo incontrato in questi mesi, nel testo diffuso sabato in occasione della marcia nel quartiere non ci avessero parlato di “esclavage pacifique”, ovvero un uso arbitrario e fumoso delle regole per intimidire dividere ed annichilire trasformando la vita in un attesa senza senso,in cui si è obbligati ad elemosinare le cose fondamentali, in cui la dignità è ostaggio del capriccio degli operatori e degli ordini dei loro burattinai.

Non è difficile pensare che espulsioni e tentativi di trasferimento vengano usati per minare sia il coraggio di chi finora si è esposto che i legami di solidarietà tra gli “ospiti”, e come monito per chi finora non si è ancora unito alla protesta.

Il potere mette sempre in campo una dismisura e l’apparato sbirresco-cooperativo usa ogni mezzo per applicarlo in maniera capillare e quotidiana. Chi è confinato in questa prigione di regole e relazioni umilianti e autoritarie ha solo il proprio coraggio per non finirne schiacciato. Ed è un coraggio enorme.

Accanto a questo ci mettiamo la nostra solidarietà, la nostra complicità e anche la nostra rabbia.

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