Roma – Pranzo benefit Rete Campagne in Lotta, domenica 19 dicembre allo Strike

Fonte: Comitato lavoratori delle campagne

Roma – Pranzo benefit Rete Campagne in Lotta, domenica 19 dicembre allo Strike

Domenica 19 dicembre 2021 alle ore 13:00
Strike, via Umberto Partini 21 – Roma

Da anni le persone che vivono e lavorano nei ghetti e nei campi della provincia di Foggia, nella piana di Gioia Tauro, così come nella provincia di Cuneo lottano contro lo sfruttamento e il razzismo, contro gli sgomberi e la violenza della polizia, perché tutt* abbiano documenti, una casa degna di questo nome e contratti giusti. Dalla rivolta di Rosarno allo sciopero di Nardò del 2011, al blocco della più grande fabbrica di trasformazione d’Europa, che si trova in Puglia, alla mobilitazione nazionale a Roma nel 2016. Fino ad arrivare al più recente blocco del porto di Gioia Tauro e della zona industriale di Foggia. Nel corso degli anni gli e le immigrat* hanno dato prova di grande coraggio e determinazione.
Campagne in Lotta è un collettivo che da oltre 10 anni dà voce e supporta questi percorsi autorganizzati. Ovviamente è arrivata anche la repressione: multe, fogli di via, denunce si stanno moltiplicando contro compagn* che hanno preso parte a queste lotte. Sosteniamoci, perché chi subisce la repressione non resti isolat*, per non essere divis* come ci vorrebbero e soprattutto perché le lotte continuino ancora più determinate!

(Chiediamo di prenotarsi: seguiranno indicazioni)

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Opuscolo: che cos’è un CPR

fonte: nocprtorino.noblogs.org

Per la libertà di tutti e tutte, per l’ingovernabilità, contro le frontiere.
Sabotiamo la macchina delle espulsioni!

indice:

  • Per la libertà
  • Cos’è la Detenzione Amministrativa
  • Cos’è un CPR
  • I Centri di Permanenza per il Rimpatrio in Italia e i loro gestori
  • Il Centro di Permanenza per il Rimpatrio a Torino
  • La struttura di corso Brunelleschi
  • La vita quotidiana nel CPR: sanità, cibo, telefoni e udienze
  • Il legame tra carcere e CPR
  • Le rivolte all’interno dei CPR

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Opuscolo: Riflessioni sulla gestione sanitaria all’interno del CPR

fonte: nocprtorino.noblogs.org

“Nonostante pensiamo che i Cpr siano profondamente immersi nella cosiddetta zona grigia dove ogni oppressione sembra lecita e si normalizza essendo avvolta dal silenzio e dall’indifferenza, scrivere e ricordare che esistono delle istituzioni e delle figure responsabili di ciò che succede in quelle strutture ci sembrava importante, soprattutto in un momento in cui la comunicazione con le persone recluse è particolarmente faticosa. Per queste motivazioni abbiamo deciso di provare a scrivere questo opuscolo, qualche pagina e qualche spunto di riflessione per raccontare cosa è stato fatto e soprattutto cosa non è stato fatto dal punto di vista sanitario.”

Di seguito, il pdf dell’ opuscolo “Riflessioni sulla gestione sanitaria all’interno delle mura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio” (Torino 2021)

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Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

Traduzione da: Paris Luttes

Legami con i prigionieri condannati per violenze sessiste: tracce di riflessione e azione

I membri della «Assemblée contre les Centres de Rétention Administrative (CRA) » (Assemblea contro i Centri di Detenzione Amministrativa (CRA)) a volte entrano in contatto con dei prigionieri accusati o condannati per violenze sessuali e sessiste. Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Proviamo qui a proporre qualche spunto.

L’assemblea dell’Île-de-France contro i centri di detenzione esiste da tre anni e può capitare che dobbiamo confrontarci con situazioni complicate nell’intessere legami con le persone detenute all’interno del CRA. Alcuni detenuti con cui eravamo in contatto erano stati condannati per violenze sessiste e sessuali (moleste, violenze coniugali, aggressioni sessuali, stupri). Nella maggior parte dei casi l’abbiamo scoperto perché è stata la persona stessa a dircelo (in generale in seguito al trasferimento al CRA dopo la fine della detenzione in carcere), o perché ce l’ha detto la sua compagna. Nel marzo 2021, a seguito dell’incendio al CRA di Mesnil-Amelot, 7 persone sono state portate di fronte al tribunale di Meaux: durante le campagne anti-repressione che abbiamo tentato di portare avanti, abbiamo messo mano sui loro faldoni giudiziari e abbiamo scoperto molti di loro erano stati condannati per violenze sessiste.
Abbiamo fatto quindi molte discussioni sul tipo di supporto che avevamo voglia di dare loro: anche se eravamo tutt* d’accordo a continuare l’attività minima contro la repressione per esprimere loro la nostra solidarietà dopo la rivolta avvenuta a gennaio, non c’era però consenso sul fatto di supportarli oltre questo (ovvero mantenendo con loro una corrispondenza, andandoci a parlare, mandando loro dei vaglia). Avevano davvero voglia di fare queste cose? Se in genere partiamo piuttosto dal presupposto di interagire con le persone nel CRA in quanto persone che subiscono il razzismo di Stato e la reclusione, senza distinguere i loro percorsi di provenienza, che fare una volta che scopriamo che quella persona ha commesso uno stupro o menava la sua compagna? Nel caso dei prigionieri dell’incendio, eravamo venut* a conoscenza di questi fatti tramite i faldoni giudiziari: volevamo davvero basarci sul casellario giudiziale delle persone, ovvero un prodotto della polizia e della giustizia che rifiutiamo, per costruire la nostra azione politica?

Varie riflessioni hanno attraversato l’assemblea e, alla fine, abbiamo deciso di organizzare una discussione specifica sull’argomento: l’idea era quella di fare un passo indietro, di andarci a cercare altre risorse, di vedere cosa avevano fatto prima di noi altre persone o collettivi. Nel preparare la discussione, non abbiamo trovato quasi nessuna risorsa pratica in francese. C’erano dei testi teorici sul femminismo anti-carcerario che potevano darci degli spunti: tra di noi eravamo in generale d’accordo sul fatto di essere contro il carcere, sul fatto che la prigione non è una risposta efficace o desiderabile contro le violenze sessiste, sul fatto che le persone razzizzate vengono sovra-rappresentate tra i prigionieri sessisti quando, allo stesso tempo, uno stupratore è diventato Ministro dell’Interno e alcuni discorsi femministi vengono strumentalizzati dallo Stato a fini razzisti e repressivi … Ma pur essendo d’accordo sulla teoria, non avevamo risposte per le situazioni concrete con cui dovevamo confrontarci. Abbiamo comunque letto varie cose e discusso a lungo, e anche se non abbiamo trovato la soluzione magica, ci siamo dett* che avevamo voglia di condividere le nostre riflessioni con questo testo. Continua a leggere

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Dall’altra parte del confine europeo, c’è chi chiede un pass per non morire

Fonte: Comitato lavoratori delle campagne

Dall’altra parte del confine europeo, c’è chi chiede un pass per non morire

Ormai da quaranta giorni, davanti agli uffici dell’UNHCR di Tripoli, ci sono circa 4000 persone accampate in protesta che chiedono di essere evacuate immediatamente dalla Libia verso paesi sicuri. Molte ci sono arrivate dopo una serie di attacchi governativi iniziati il primo ottobre, veri e propri rastrellamenti dove almeno cinquemila persone, incluse intere famiglie con donne e bambini, sono state prelevate a forza dalle loro case o per strada, imprigionate nei centri di detenzione e sottoposte a violenze e torture. Dall’inizio del presidio, largamente ignorato dalle ONG così come dai media, gli episodi di violenza sono stati molteplici e quasi quotidiani: dalla morte di un giovane sudanese attivo al presidio, picchiato da uomini mascherati, agli attacchi delle guardie di sicurezza dell’edificio dove si trova l’ufficio dell’agenzia ONU.
Dopo la fuga di circa duemila persone dalla prigione di Al Mabani, la polizia ha sparato sulla folla uccidendo un numero imprecisato di persone (almeno 34) e ferendone centinaia, per poi ri-arrestarne moltissime. I sopravvissuti e gli sfollati hanno occupato le strade di fronte alla sede dell’agenzia ONU che dovrebbe occuparsi dei diritti dei rifugiati (l’UNHCR, appunto) e chiedono di essere registrati come rifugiati e di venire evacuati.
L’UNHCR, di fatto, sta a guardare, mentre l’UE finge di non vedere gli episodi delle ultime settimane, preoccupata solo dalla stabilità politica del paese, funzionale al controllo delle frontiere e al mantenimento di interessi economici (come si dirà oggi a Parigi alla conferenza per “stabilizzare la Libia”), tra cui quelli di Eni in testa. In poche parole, il gas deve passare, le persone soltanto opportunamente e brutalmente selezionate, pronte per essere poi sfruttate nelle campagne del Made in Italy.
Le imbarcazioni di chi prova a raggiungere le coste italiane continuano ad essere respinte dalla guardia costiera libica e la quasi totalità di chi ri-sbarca in Libia dopo aver fallito la traversata viene imprigionato. Tutto ciò accade leggittimizzato dal governo italiano (e dalla commissione europea), che con il Memorandum d’Intesa siglato nel 2017 con il governo libico (ma ricordiamo che si tratta di una politica che affonda le sue radici nell’era degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi) di fatto hanno un ruolo chiave nel respingimento delle persone in mare, continuando a fornire ingenti finanziamenti alla guardia costiera libica, che poi è anche il soggetto che favorisce gli sbarchi illegali, a carissimo prezzo.
Sulla frontiera orientale dell’Unione, intanto, tra Polonia e Bielorussia, la follia della violenza dei confini ha già ucciso decine di persone rimaste intrappolate e ibernate nelle foreste verso cui vengono respinte dai soldati polacchi. E’ di due giorni fa la notizia di 50 persone arrestate al confine per aver rotto e superato la recinzione di filo spinato; e mentre i soldati polacchi sparano, quelli bielorussi impediscono a chi scappa di tornare indietro. Anche qui, i migranti sono oggetto di un crudele mercato politico. L’Europa punta il dito contro il despota bielorusso Lukashenko, accusato di usare i migranti come arma umana per vendicarsi delle sanzioni europee. Sulla sorte di chi sta lottando contro due eserciti e il freddo per sopravvivere non si esprime, se non per parlare di muri e di rimpatri forzati.
In risposta a queste drammatiche cronache in molte città le comunità della diaspora si sono mobilitate per protestare e mettere pressione ai governi europei finora rimasti in silenzio, nonostante siano i principali e conclamati responsabili – per conto dei grandi interessi economici di cui sono espressione – delle morti e delle violenze così come delle crisi economiche, politiche e climatiche che portano le persone a rischiare la propria vita per attraversare il mare o le foreste.
Ma il silenzio su quanto sta accadendo è troppo diffuso, una barriera di indifferenza che è tanto complice quanto assassina, da parte non solo delle istituzioni, ma anche della “società civile” europea, poche eccezioni a parte.
La flebile attenzione generale al momento, poi, è puntata sui confini orientali dell’Europa, e quasi non si parla di come la repressione delle persone immigrate continui anche dopo essere sbarcati sulle nostre coste. Al superaffollato hotspot di Lampedusa al momento sono rinchiuse 850 persone, arrivate nei giorni scorsi e destinate a passare per tutti i gironi infernali della burocrazia razzista che regola i meccanismi di richiesta di asilo in Italia e in Europa. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone sono prive di un documento per anni, condannate ai ghetti, alla precarietà, ai lavori in nero, alla strada o alla detenzione nei CPR o nelle carceri.
Solo un mese fa, proprio in Sicilia, a Campobello di Mazara, un ghetto dove vivevano centinaia di lavoratori braccianti africani giunti lì per raccogliere le olive è bruciato, uccidendo Omar, un lavoratore senegalese. Alle insistenti proteste dei suoi compagni, le istituzioni locali hanno risposto nell’unico modo che conoscono: repressione e poi prefabbricati in plastica, forniti proprio dalla stessa UNHCR in collaborazione con la fondazione IKEA. Praticamente un nuovo ghetto, ma istituzionale e non più abusivo (e quindi riservato a chi è in possesso di documenti, gli irregolari si arrangino), dove i lavoratori continuano a vivere segregati in scatoloni che saranno nuovi e scintillanti per una stagione, il tempo di fotografarli e sbandierarli come soluzioni abitativa dignitosa. La stessa UNHCR che caldeggia la creazione di un sindacato di lavoratori agricoli immigrati si tappa occhi orecchie e bocca, dalla Libia alla Sicilia, quando quegli immigrati e quei lavoratori pretendono il minimo riconoscimento, quello di potersi spostare e fuggire da guerra, povertà, stupri, abusi e torture, e di vivere senza essere segregati in regime di apartheid a seconda del profilo giuridico, in luoghi in tutto e per tutto simili alle baraccopoli che periodicamente vengono smantellate, ma decisamente più controllati.
E che dire di chi una volta arrivato viene obbligato a vivere in un centro di accoglienza o imprigionato in un CPR, e se prova a ribellarsi viene arrestato, deportato, processato? La repressione e le violenze che iniziano ben prima dei confini costituiti da barriere e filo spinato, continuano ben oltre, dalla fase della cosiddetta “accoglienza”, ai magazzini e ai campi, fino alle piazze dove da anni immigrati e solidali manifestano per chiedere documenti per tutti.
Il gioco perverso della macchina umanitaria di UNHCR e di chi li sostiene deve essere smascherato e fermato. Contro confini e sfruttamento, l’unica strada è la lotta.

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Roma – 6 novembre presidio per documenti e sanatoria

Fonte: Comitato lavoratori delle campagne

Il 6 novembre tutt* in piazza a Roma al presidio per documenti e sanatoria!

Dopo il presidio del 23 ottobre alla prefettura di Latina, la comunità bengalese e indiana del Lazio lanciano un appello a cui ci uniamo: torniamo in strada per una manifestazione nazionale, questa volta a Roma, per chiedere lo sblocco della sanatoria e documenti per tutt*!

In questi due anni di pandemia tra chi è stato maggiormente penalizzato e chi non ha mai smesso di lottare ci sono le persone immigrate che per vivere dipendono da un permesso di soggiorno; un permesso che a sua volta è subordinato al contratto di lavoro, alla residenza, e a tutta un’altra serie di infiniti ostacoli burocratici che ne rendono sempre più difficile l’accesso e il mantenimento, sia per chi arriva in Italia che per chi ci vive e lavora da anni e magari ha anche dei figli qui, o prova a portare qui la propria famiglia.
La sanatoria del 2020, che avrebbe dovuto regolarizzare chi non aveva un permesso di soggiorno, è stata un fallimento e ha invece alimentato un giro di ricatti e di business sulle spalle dei lavoratori e le lavoratrici immigrate, che a un anno e mezzo dalla richiesta si ritrovano ancora a mani vuote.

La questione dell’accesso ai documenti ci riguarda tutti, italiani e immigrati. Si tratta dell’accesso alla salute, alla casa, ai servizi e alle tutele di base.
Per questo il 6 novembre torniamo in piazza, dalle campagne e dalle città di tutta Italia, per chiedere un incontro al ministero dell’Interno e ottenere risposte concrete. Vogliamo la regolarizzazione di chiunque non ha un permesso, l’abolizione delle attuali sull’immigrazione e dei decreti sicurezza, e la fine degli abusi nelle questure.

Contro confini e sfruttamento, per documenti per tutt*!

APPUNTAMENTO alle ORE 10:00 in PIAZZA ESQUILINO/VIA CAVOUR

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Torino – Corteo contro sgomberi, frontiere e CPR sabato 6 novembre

Fonte: Passamontagna

CORTEO CONTRO SGOMBERI, FRONTIERE E CPR SABATO 6 NOVEMBRE TORINO Ore 16:30

In montagna come in città gli spazi di autogestione sono sotto attacco.

Solo sulla frontiera del Monginevro in sette mesi ci sono stati tre sgomberi.

Vorrebbero fermare chi si organizza per attraversare e contrastare questo dispositivo che controlla, seleziona e uccide. Il numero di persone che passa il confine rimane alto e la repressione in frontiera non fa che crescere, portando con sé il suo prezzo di feriti e morti, ancora più ora con l’inverno alle porte.

In città, anche e soprattutto in quest’ultimo periodo caratterizzato da Green Pass e continui “stati di emergenza”, il controllo sociale aumenta e la repressione incalza: controlli polizieschi diffusi, retate, sgomberi, sfratti.

Il cpr di corso Brunelleschi, ingranaggio del sistema di detenzione ed espulsione, è l’incarnazione della frontiera in centro a Torino.

Assistiamo al tentativo di distruggere ogni forma di pensiero e pratica non istituzionale e ogni esperienza di autogestione e di disinnescare ogni tensione di lotta; il tentativo di eliminare la pratica delle occupazioni, impedendone di nuove e piano piano sgomberando le vecchie.

Per tutto questo, scendiamo in piazza.

Appuntamento per un corteo a Torino, sabato 6 novembre ore 16:30!.​​​​​​

Per info, aggiornamenti e materiali seguite Passamontagna.info e NoCprTorino

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Latina – Sabato 23 ottobre presidio davanti alla Prefettura

Fonte: Comitato lavoratori delle campagne

I LAVORATORI TORNANO IN PIAZZA PER CHIEDERE LO SBLOCCO DELLA SANATORIA E DOCUMENTI X TUTT: SABATO 23 OTTOBRE TUTT IN PIAZZA A LATINA!

Come comitato lavoratori delle campagne supportiamo e diffondiamo la mobilitazione lanciata dalla comunità indiana e bengalese per il 23 ottobre prossimo alle 10 di fronte alla Prefettura di Latina.
La sanatoria 2020 si è rivelata fin da subito una presa in giro e ha alimentato ricatti e business a danno di tantissimi lavoratori e lavoratrici. Il 12 aprile scorso molte sono state le manifestazioni in diverse città d’Italia per chiedere lo sblocco della sanatoria e documenti per tutti/e. Le mobilitazioni continuano, per questo ci uniamo all’appello dei lavoratori di Latina e alle lotte di chi è colpito da leggi razziste e requisiti impossibili, di chi rischia continuamente di perdere il permesso o non riuscire a rinnovarlo, di chi lo aspetta da mesi, di chi non riesce ad ottenerlo.
E’ importante essere numerosi/e, perché la lotta per i documenti è la lotta di tutt!

SOLO LA LOTTA PAGA! DOCUMENTI PER TUTT!

Di seguito, due corrispondenze con Radio Onda Rossa, sul presidio di venerdi.

Sabato 23 ottobre le comunità indiane e bengalesi del Lazio hanno indetto una manifestazione davanti la prefettura di Latina, a partire dalle ore 10, per rivendicare i propri diritti e per chiedere la fine delle difficoltà amministrative e burocratiche che impediscono il rinnovo e il rilascio dei permessi di soggiorno. Bachu, della comunità bengalese, ci spiega quali sono i problemi principali che affliggono le persone di origine straniera.

Sabato 23 ottobre a Latina ci sarà un importante presidio riguardo al problema del permesso di soggiorno: un dispositivo che, anche attraverso complicazioni amministrative, rende le persone immigrate vulnerabili e ricattabili.

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Roma – Venerdi 22 ottobre ore 11 presidio all’ambasciata libica

Fonte: Radio Onda Rossa

In Libia continuano, e anzi si aggravano, le violenze sui migranti da parte delle autorità.
La comunità eritrea invita al presidio di Venerdì 22 ottobre, dalle 11 alle 14, all’ambasciata libica a Roma, in via Nomentana 365 (all’altezza della Basilica di Sant’Agnese).

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Torino – La solidarietà è un’arma: resoconto dei due presidi al tribunale e al Cpr

Fonte: No CPR Torino

Si è appena conclusa una settimana importante per quanto riguarda la lotta contro i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Una settimana in cui la solidarietà e la complicità sono state il fulcro attorno al quale si sono organizzati due presidi: giovedi 7 al tribunale di Torino e sabato 9 ottobre al Cpr di Corso Brunelleschi.

Giovedì 7 ottobre c’è stata la prima udienza dell’Operazione Scintilla, processo che vede imputati e imputate 18 compagni e compagne che negli anni si sono organizzati e hanno lottato contro gli allora CIE (Centri d’Identificazione ed Espulsione), oggi CPR, quindi contro la detenzione amministrativa delle persone senza documenti. Fuori dal tribunale si sono ritrovate in presidio numerose persone che hanno portato la loro solidarietà alle compagne e ai compagni sotto accusa. Durante tutta la mattinata, attraverso i microfoni di Radio Blackout in diretta dal presidio, si sono ascoltate le voci, le testimonianze, le storie di questa esperienza di lotta, raccolte poi in un approfondimento che si può ascoltare qui.

Una mattinata in cui si è più volte ribadita la solidarietà a tutti i compagni e le compagne che in Italia sono oggetto della repressione dello stato, con la consapevolezza che non saranno le inchieste a fermare la voglia di libertà e la volontà di battersi quotidianamente contro i valori soffocanti di questa società carceraria.

Nella giornata di sabato 9 si sono quindi portate le voci e le grida di protesta direttamente di fronte al Cpr di Corso Brunelleschi. Compagni, compagne e solidali si sono ritrovati in presidio per più di due ore portando interventi, musica e cori e hanno cercato di comunicare con le persone recluse dentro quelle mura. Il Centro di detenzione amministrativa di Torino continua ad esistere, come continuano ad esisterne su tutto il territorio nazionale (in totale sono attivi 10 Cpr). I lager per persone senza documenti non sono un’eccezione nelle politiche statali, ma al contrario sono parte integrante e fondamentale dei meccanismi di esclusione e sfruttamento messi in campo dalle democrazie occidentali.

Negli interventi davanti a quelle mura si è ribadito più volte che la lotta non si ferma. Fino a quando di queste strutture non rimarranno che macerie ci saranno rivoltosi dentro quelle mura e compagni e compagne che da fuori porteranno solidarietà e complicità e cercheranno di supportare la voglia di libertà e la necessità di ribellarsi contro tutte le gabbie, le galere e le frontiere.

 

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