CPR di Torino – Finalmente qualche aggiornamento

Fonte: Macerie

Le comunicazioni con i reclusi della prigione amministrativa torinese sono difficoltose a causa del fatto che spesso vengono disattivate le chiamate in entrata che sarebbe possibile fare componendo il numero fisso associato alla cabina telefonica presente in ogni area del centro. L’unico modo che hanno i reclusi per comunicare con l’esterno è quello di utilizzare le schede telefoniche che dovrebbero comprarsi a loro spese perché – lo ricordiamo – che da qualche mese è proibito loro avere telefoni propri. Nella saletta c’è un televisore da cui hanno seguito e continuano a seguire quello che succede fuori, un palliativo irrisorio rispetto al fatto che i colloqui con amici e familiari sono ancora sospesi, sono permessi solo quelli con il proprio legale.

Al momento le aree aperte sono la blu, la viola e la gialla per un totale di circa una cinquantina di reclusi; non tutte le stanze di queste tre aree sono agibili a causa dei danni causati dalle rivolte dell’autunno; le gabbie dell’isolamento vengono utilizzate per mantenere quindici giorni i nuovi arrivi in quarantena forzata. A metà aprile è stata consegnata ad ogni recluso una mascherina che non è stata più cambiata da allora nonostante le continue richieste e non sono state fornite ulteriori protezioni come gel e disinfettante, come del resto non sono mai state date informazioni riguardanti le modalità e i rischi del contagio. I detenuti non hanno segnalato casi di covid all’interno del centro mentre è da segnalare il consueto e sempre più pernicioso avvelenamento con gli psicofarmaci nel cibo e di terapie a base di medicinali che causano uno stato comatoso in cui la persona mantiene per alcune ore la stessa posizione “con la bocca spalancata come se stesse dormendo”.

L’assistenza sanitaria è assente, la disperazione a causa delle continue provocazioni delle guardie e la condizione di isolamento hanno spinto in questi mesi i reclusi a compiere più volte gesti estremi come lo sciopero della fame pur di ricevere delle cure mediche. Dopo il periodo di lockdown “la normalità” è ritornata anche dentro il CPR: da inizio giugno i nuovi arrivi sono in aumento mentre alcune frontiere, tra cui quella marocchina, sono ancora chiuse. Un ragazzo ci ha raccontato che la scorsa settimana, durante un’udienza con il giudice di pace gli hanno prolungato la permanenza nel centro di altri 30 giorni concludendo che a loro giudizio “l’ospite non ha mai collaborato con le autorità durante i sei mesi di permanenza”. Purtroppo secondo lui non è il primo caso del genere in queste ultime settimane. Ieri ci hanno chiamato dall’area viola dicendo che in mattinata tutte le persone che erano nell’area blu sono state spostate in blocco all’interno dell’area bianca appena ristrutturata perché dovrebbe arrivare a breve un nuovo gruppo, probabilmente dal centro di Macomer. Nei giorni scorsi infatti il Cpr sardo è stato sede di rivolte e contro i detenuti considerati agitatori è già in azione la macchina repressiva.

Seguiranno aggiornamenti.

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Malta – Proteste ed evasioni nei centri di detenzione per migranti

Sabato mattina 20 giugno, alle 8, dopo la consueta conta mattutina, le guardie del centro di detenzione di Ħal Far a Malta si sono accorte della scomparsa di 21 persone. L’evasione è avvenuta sfondando un muro di recinzione del lager. Una ricerca è in corso su tutta l’isola ma dopo 2 giorni per fortuna ancora nessun fuggitivo è stato rintracciato.

La fuga segue quella avvenuta nello stesso lager il 14 giugno, quando 5 persone erano riuscite ad evadere ma 4 erano state successivamente ricatturate in giornata.

Nei campi di concentramento a Malta le proteste e le rivolte sono frequenti, l’ultima si era svolta il 16 aprile: tutte le persone recluse avevano cominciato a fare battiture e cantare slogan alle finestre reclamando libertà e nel centro erano subito accorsi rinforzi di polizia in assetto antisommossa

Nei vari centri dell’isola sono recluse le persone appena sbarcate, ufficialmente per un massimo di sei settimane ma in realtà a tempo indeterminato, fino ad una risposta alla loro domanda d’asilo o al ricollocamento.

Le ultime persone arrivate a Malta sono le 425 sbarcate il 6 giugno. Con il pretesto della pandemia da covid19 il governo maltese aveva chiuso ad aprile i porti dell’isola e noleggiato una serie di imbarcazioni private da diporto per segregarvi i migranti soccorsi nella zona SAR di Malta nel periodo tra il 28/29 aprile e il mese di maggio. Le persone migranti intercettate da navi private e dalle forze armate maltesi erano state trasferite e segregate per settimane su quattro battelli turistici trasformati in prigioni galleggianti, ancorati ad alcune miglia dalla costa, al di fuori delle acque territoriali. Su queste imbarcazioni turistiche la situazione a bordo si è velocemente aggravata: non erano assolutamente attrezzate per trattenere persone a bordo per lunghi periodi di tempo, essendo navi destinate a brevi tour turistici dell’isola, e alle persone imprigionate in mare non era stata data nessuna informazione né la possibilità di consultare avvocati, traduttori o di fare richiesta d’asilo. Dopo varie proteste inascoltate solo una coraggiosa rivolta a bordo delle navi aveva costretto il governo maltese ad accettare lo sbarco sull’isola.

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Egitto – Aggredita la famiglia del prigioniero Alaa mentre protestava fuori dal carcere

Da tre mesi le visite per i detenuti della prigione di Tora, al Cairo, sono annullate. Da due settimane circola anche la notizia che ci siano casi di Covid-19 dentro la galera. Ma non esiste alcuna comunicazione ufficiale. Il regime impedisce ad Alaa e a tanti altri prigionieri ogni tipo di comunicazione con le famiglie o i loro avvocati. 

A maggio Alaa ha fatto anche uno sciopero della fame di 37 giorni per chiedere che ai detenuti fosse permesso di partecipare alle udienze, di comunicare con i propri familiari e per il rilascio dei prigionieri durante l’epidemia di Coronavirus.

Alaa si trova nel carcere di massima sicurezza di Tora, una sorta di 41 bis, in isolamento, senza ora d’aria, libri, posta, e privato di tutto.

Il regime, tuttavia, continua a percorre la sua strada di violazioni e repressione. Così dopo tre settimane senza ricevere alcuna notizia da parte del figlio Alaa, sabato scorso, la dott.a Soueif ha deciso di protestare – per l’ennesima volta – davanti al carcere. 

È lei stessa a raccontare come sono andate le cose:

 Mi hanno fatto aspettare più o meno 5 ore, di modo che tutte le persone venute a fare i colloqui se ne fossero già andate e il confronto con i responsabili davanti alla porta del carcere di Tora non fosse visto da nessuno.

Allora hanno preso quanto avevo portato, cibo, medicine, vestiti intimi e hanno rifiutato di far entrare disinfettanti. Poi però hanno detto “non c’è lettera” da parte di Alaa e allora ho rifiutato di andarmene.

Cercano sempre di far passare la questione come se lasciar entrare le cose dentro il carcere  sia una gentilezza da parte loro. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che avrebbero fatto entrare la mia lettera, ma non ce ne sarebbe stata alcuna da parte sua.

Chiaramente, ho provato a spiegargli che le loro parole sono ridicole dal momento che se non mi danno una lettera di risposta io non posso sapere se consegnano veramente ad Alaa quello che prendono.

Finita la fase delle richieste è iniziata quella della prevaricazione.

 All’inizio mi hanno detto che se rimanevo dentro non potevo avere il telefono con me, al che glielho consegnato (queste erano le ore in cui Mona non riusciva a raggiungermi).

 Dopo hanno iniziato a dire che dovevano chiudere e che dovevo andare fuori, e quando mi sono rifiutata, il colonnello Muhammad al-Nashar mi ha detto che mi avrebbe denunciata. Io ho risposto di farlo pure, poi ha detto che aveva chiamato il commissariato di al-Maadi e che ero in stato di fermo, quindi mi ha preso la mano e ha iniziato a tirarmi verso la porta perché qualcuno del commissariato sarebbe venuto a prendermi. Mi ha strattonato il braccio finchè non mi ha fatto uscire. Io essendo una persona pacifica non reagisco a questo tipo di violenza 🙂 

 Appena mi ha fatta uscire hanno chiuso la porta del carcere, lui è sparito e basta.

 Alcuni di loro hanno cercato di convincermi ad andarmene poi sono spariti anche loro.

 Io rimango qua e non me ne vado!

 

Nella notte tra il 21 e il 22, la dott.a Leila raggiunta dalle sue due figlie Mona e Sanaa hanno deciso di continuare la protesta dormendo in presidio fuori dalle mura del carcere. Più o meno alle 5 di mattina sono state aggredite da un gruppo di donne che le ha malmenate rubando tutto quello che avevano – le borse, i soldi, i telefoni e i documenti – di fronte gli sguardi delle guardie che nonostante le richieste di aiuto hanno deciso di non muoversi, perché in realtà le hanno mandate loro.  

Sanaa scrive su FB:

Hanno mandato delle criminali per picchiarci davanti alla prigione, mentre gli ufficiali e gli uomini stavano lì a guardare. Un uomo in borghese ha soltanto detto: portatele fuori dalla barriera, non picchiatele qui“.  

Scrive Mona in un altro post: 

Credo che ciò che è appena accaduto spiega perché siamo davvero molto molto preoccupate per Alaa e per il fatto di non avere sue notizie“.

 

Libertà per Alaa

Libertà per tutte e tutti.

Solidarietà a tutta la famiglia di Alaa che nonostante tutto continua a lottare per ricevere sue notizie.

 
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Fratelli della costa – Memoria in difesa dei pirati somali

da macerie

Vi proponiamo la traduzione dal francese del libro “Fratelli della costa. Memoria in difesa dei pirati somali, braccati da tutte le potenze del mondo”. Il lavoro è di grosso stimolo non solo per il racconto delle vicende repressive contro della pirateria somala, ma perché le inserisce nell’analisi della costruzione di un apparato giuridico internazionale che potrebbe diventare un modello per le operazioni di gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo. La flessibilità e la panoplia della legge si sperimenta in casi considerati limite come quello che emerge dal contesto marittimo in esame per poi rientrare nelle possibilità che ogni governance nazionale si dà contro chi considera “nemico” dell’ordine.

Il testo completo qui.

 

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Grecia – Scioperi della fame nel lager di Petrou Ralli e resistenze agli sgomberi ad Atene

Durante e dopo il lockdown in Grecia la lotta delle persone recluse nel centro di detenzione per persone straniere di Petrou Ralli ad Atene non si è mai fermata.

Il 9 giugno, 16 delle 26 donne recluse hanno iniziato uno sciopero della fame. Lunedì 15 giugno 40 immigrati detenuti hanno a loro volta dato vita a un nuovo sciopero della fame, rifiutando il pranzo e reclamando il loro rilascio e l’accelerazione delle decisioni per le loro richieste d’asilo. In serata lo sciopero della fame è stato attuato da 120 persone recluse e continua anche nella giornata di martedì. Le autorità hanno affermato che lo sciopero non è accettabile e deve cessare. I detenuti invece continuano la protesta e chiedono di essere liberati o trasferiti altrove. Martedì 16 giugno l’assemblea popolare di Exarchia ha organizzato un presidio davanti al Ministero per la migrazione e l’asilo per protestare contro le condizioni di Petrou Ralli e per la chiusura del lager.

Sempre nella giornata di lunedì 15 ad alcune persone che avevano ottenuto lo status di rifugiato è stato permesso di trasferirsi ad Atene dal campo di Moria sull’isola di Lesbo, come tentativo delle autorità di decongestionare il lager, dove sopravvivono in terribili condizioni ancora altre 16.000 e più persone. Il governo greco non ha provveduto a fornire nessuna risposta abitativa, e le persone sono state costrette ad accamparsi in piazza Vittoria, prive di tutto. Rifugiatx e solidali hanno chiesto un incontro con il Sindaco di Atene Bakoyannis per pretendere soluzioni sul piano abitativo, ma la risposta è stata l’arrivo di agenti e bus della polizia per sgomberare la piazza. Solo grazie alla presenza di un buon numero di solidali e alla determinazione dei/delle rifugiatx è stato possibile evitare che lo sgombero della piazza avvenisse in giornata. Alle 4 di stamattina mercoledì 17 giugno, con un blitz a sorpresa varie forze di polizia in assetto antisommossa hanno sgomberato piazza Vittoria. Quando i solidali sono accorsi la polizia aveva già costretto, pena l’arresto immediato, circa 80 persone a salire negli autobus per portarle nel campo di Eleonas, nella zona industriale di Atene. Circa 12 solidali sono stat* fermat* e portate nella stazione di polizia. In risposta è stata convocata una manifestazione alle 16 alla metro di Eleonas.

Dal 1° giugno il governo greco ha cominciato ad attuare lo sgombero progressivo delle 11.237 persone rifugiate che finora usufruivano di un alloggio nelle strutture di accoglienza. Ad oggi il governo si vanta di aver già gettato in strada circa 2.000 persone. Sono molte le iniziative organizzate da immigratx e solidali per resistere agli sgomberi avvenute nelle ultime due settimane. Anche oggi a Larissa e Serres si tengono manifestazioni di protesta delle persone che abitano nei due centri sotto sgombero.

Di seguito traduciamo un resoconto dell’assemblea dell’Iniziativa “La casa delle donne” su quanto avvenuto recentemente nella sezione femminile del lager di Petrou Ralli.

Traduzione da: Athens Indymedia

9 giugno 2020:

16 delle 26 donne detenute a Petrou Ralli si sono rifiutate di mangiare. Hanno deciso, ancora una volta, di fare lo sciopero della fame perché non potevano più sostenersi mangiando il cibo orribile che le autorità insistono nel dare loro – cibo che si traduce in malattia, problemi digestivi, vomito e perdita di peso. La misera qualità del cibo è persistita nei quattro anni in cui abbiamo visitato Petrou Ralli, e probabilmente anche prima. Allo stesso modo, il 17 marzo, 9 donne detenute avevano iniziato uno sciopero della fame durato 3 giorni. Ci avevano inviato il seguente messaggio il 3° giorno: “9 donne abbiamo iniziato uno sciopero della fame grave (cioè della fame e della sete). La situazione è terribile e sta peggiorando. Due di noi sono svenute e non hanno ancora ripreso conoscenza. Continueremo lo sciopero della fame fino a quando non saremo libere da questa prigionia. O ci libereranno o moriremo”, seguiti dall’elenco dei loro nomi. In questa occasione, le autorità hanno utilizzato il metodo standard per terrorizzare i detenuti, impiegato in tutte le carceri del mondo totalitario del patriarcato. Le donne sono state chiamate una ad una e un ufficiale di polizia o comandante le ha interrogate e minacciate che se non avessero fermato lo sciopero della fame, sarebbe stato a spese della loro situazione: sarebbe stato troppo tardi per essere liberate o sarebbero state trasferite nella prigione di Korydallos. Il loro sciopero è terminato dopo il terzo giorno. Molte delle nove donne sono ancora dentro. Sfortunatamente Irma, dal 10 giugno, è in quarantena per 15 giorni in Georgia, dopo essere stata espulsa. Il lockdown potrebbe essere finito all’esterno, ma nel centro di detenzione di Petrou Ralli la routine continua indisturbata. Altri due tentativi di suicidio hanno seguito i tre all’inizio di quest’anno.

26 maggio:

Dopo una lunga e particolarmente dolorosa detenzione, una donna non si è sentita più in grado di resistere, assumendo una grande quantità di farmaci psicoattivi. In risposta, è stata applicata la tecnica di repressione più violenta: una tattica legalmente prescritta dalle autorità, ha spiegato il capo dei servizi in risposta alle nostre domande. Una famosa ufficiale che le detenute chiamano “Big Mama” ha ammanettato dietro la schiena la ragazza quasi incosciente per trasferirla in ospedale, sicura che non sarebbe stata in grado di scappare. https://athens.indymedia.org/post/1604878/

9 giugno, martedì:

C’è un altro tentativo di auto-immolazione. Fortunatamente, la donna fallisce nel suo intento quando le sue compagna detenute la intercettano nell’atto. La donna non vede il suo bambino dall’8 marzo, la sera in cui è andata alla stazione di polizia in cerca di aiuto dopo essere stata molestata, per poi finire a Petrou Ralli a causa della mancanza di documenti.

10 giugno, mercoledì:

  1. Ci sono state 3 deportazioni in Norvegia, Albania e Georgia. Le prime due detenute avevano chiesto di essere espulse mentre nel terzo caso si trattava di una serie di manipolazioni ed errori legali che hanno portato alla detenzione della donna per otto mesi.
  2. Dalla mattina, gli agenti hanno iniziato a portare chi faceva lo sciopero della fame una alla volta nell’ufficio degli assistenti sociali di Petrou Ralli per convincerle a interrompere la loro azione per motivi di salute.
  3. Quando il pranzo viene servito al 3 ° piano, lo psicologo sale per parlare con tutte le scioperanti con un meccanismo di repressione più “nobile”. Anche le urla dei pestaggi selvaggi dei prigionieri di sesso maschile al 2 ° piano, secondo la donna, si erano notevolmente ridotte.

11 giugno, giovedì:

La mattina vengono offerti per la colazione: panino, succo di frutta e caffè. Grande lusso per Petrou Ralli e sfida per le giovani ragazze, che non sanno che questo verrà ripetuto allo stesso modo per due o tre giorni, fino a quando ogni forma di resistenza verrà spezzata e si continuerà a nutrire le detenute con gli stessi e invariati ceci crudi per cena, nessuna insalata, tranne un pomodoro avariato che non sempre arriva, e nessuna frutta tranne l’arancia, ecc. Dalle 16 che hanno iniziato lo sciopero si passa a 11. Richiedono che la qualità e il contenuto dei pasti vengano cambiati per fermarsi.

Come Iniziativa “la Casa delle donne” abbiamo contatti costanti con le donne prigioniere ed ex prigioniere a Petrou Ralli e organizziamo incontri con loro quando vengono rilasciate. Raccogliamo beni essenziali da individui e collettivi nel movimento di solidarietà anti-gerarchico e auto-organizzato, un movimento che ha guadagnato slancio durante la pandemia, con un’abbondanza di donazioni per le donne detenute e anche per gli uomini. Ma il nostro obiettivo rimane: chiudere i centri di detenzione e i campi di sterminio per rifugiati e aprire le frontiere!

Nessuno, a prescindere dal genere, merita la privazione della libertà, la violazione dei diritti fondamentali, la tortura di vedere minacciata la propria vita o di essere degradato e maltrattato: tutto ciò sulla base del fatto che è “illegale” a causa della mancanza di documenti.

Sappiamo come vengono gestiti questi buchi infernali, con compiti delegati alle ONG che continuano a trarre profitto dalla crisi dei rifugiati e agli individui con contratti diretti, ad esempio la recente disinfezione degli sporchi centri di detenzione e campi durante la pandemia, o i compagni di affari e parenti dei potenti che approfittano vendendo cibo avariato e cancerogeno ai detenuti, trattati come “spazzatura”.

Estratti da lettere di ex e attuali donne immigrate detenute:

“(…) Immagina che ogni giorno il suono di pianti, lacrime, lamenti e urla di ragazze riempia l’universo, ma alla polizia non importa. Ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno, le ragazze urlavano a Petrou Ralli. C’erano madri che erano state lontane dai loro figli per mesi: una quando sentì la voce di suo figlio piangere al telefono, andò ad impiccarsi, ma le altre ragazze lo capirono e le impedirono di farlo.

Ogni giorno una ragazza turca sveniva, mattina e sera.

Un’altra ragazza irachena con diabete doveva assumere insulina in momenti precisi, ma la polizia non ha prestato attenzione. Un giorno chiese a “Big Mama” le sue medicine, ma lei si rifiutò di darle la pillola di insulina e la ragazza perse conoscenza. Dopo due ore, la portarono all’ospedale in manette.

Una ragazza africana che era nel centro di detenzione da tre mesi soffriva di problemi di stomaco, vomitava ogni giorno e non riusciva più a mangiare. Ha chiesto alla polizia più volte di portarla da un medico, ma non è mai successo; divenne così stanca che cercò di suicidarsi bevendo candeggina. Dopo un’ora, l’hanno portata in ospedale ammanettata.

Ci hanno minacciato dicendo che chiunque avesse tentato il suicidio sarebbe stata portata in isolamento, invece di aiutarci e indagare sui motivi del disagio.

Vengono somministrati sonniferi e altri farmaci che non conosciamo per controllare tutte le ragazze in modo che non protestino. Queste pillole sono così forti che se ne prendi una dormi per due giorni e quando finalmente ti svegli sei stordita ed esausta. Sei come uno zombi e non puoi concentrarti su niente. Ti siedi in un angolo con uno sguardo assente.

È stato così difficile sopportare di vivere lì. I prigionieri maschi del 2 ° piano, sotto di noi, hanno gridato tutta la notte per essere portati in bagno e alla polizia non importava affatto. Questa è la verità assoluta. Sono chiusi nelle loro celle giorno e notte. Ogni giorno alcuni uomini cercavano di suicidarsi, ma la polizia continuava a picchiarli.

Spero che questo centro per stranieri venga distrutto. Questa prigione è il nostro incubo. La libertà è l’unica speranza per tutte le ragazze . Possano le grida delle povere ragazze nel centro di detenzione essere ascoltate da tutte le persone in tutto il mondo”

“(…) Sono qui solo perché non avevo documenti. Dove sono quelli che chiamate diritti umani? Con quali ordini? Per quale crimine? Non ho ucciso, non ho rubato nulla. Perché e con quale accusa mi tengono qui, non solo io, ma tutti i/le prigionierx, solo perché non abbiamo documenti? ”

“(…) Mio marito mi molestava e abusava con due suoi amici. Ho rotto con lui e me ne sono andata via con i miei figli. Tuttavia, non potevo scrollarmi di dosso le sue minacce, perciò sono fuggita dal mio paese per proteggermi, e ora sono nel centro di detenzione da quattro mesi ormai, come se non avessi il diritto di vivere una vita normale. Sono molto infelice qui e il cibo è pessimo. Tu che sei una donna dovresti capire il mio dolore. E poiché sono una madre, lotterò per sempre per la mia libertà”.

“(…) Ero in Turchia, dove sono stata violentata perché non avevo soldi. Un uomo mi ha costretto a fare cose che non avrei mai voluto fare e mi ha portato a Smirne, dove ho visto il mare, e l’ho attraversato per la Grecia, in un accampamento su un’isola. Quest’uomo non mi ha lasciato spazio per parlare e mi ha fatto portare alcune cose per i suoi amici. Ad un certo punto, ho colto l’occasione per fuggire ad Atene per proteggermi da quest’uomo, e l’ho denunciato alla ONG «Medici del mondo». Lì mi hanno dato un documento che dimostrava che ero stata violentata. Dopo di che, alcuni mesi dopo, mi ritrovo nella prigione di Petrou Ralli, da dove nessuno sa quando potremmo andarcene, il cibo è pessimo e i bagni sono disgustosi. Ci ignorano quando ci ammaliamo e, a causa loro, molte di noi hanno problemi psicologici. Piango e chiedo aiuto. Sono passati tre mesi e sei giorni da quando sono in prigione. ”

Le mani che producono violenza e repressione sono sempre le stesse. Indossano uniformi, portano armi, sono arroganti, abusano della loro posizione, fanno uno spettacolo del loro potere, vengono autorizzati.

La tortura e il maltrattamento dei detenuti costituiscono reati e dovrebbero essere trattati come tali. E non essere coperti e giustificati con vaghe scuse e razionalizzazioni sulle “pratiche necessarie”.

NO all’abietta brutalità del potere.

NO alla sua legittimazione e impunità.

Alziamo la voce prima di diventare desensibilizzate rispetto all’orrore e alla miseria, messe a tacere dalla paura che cerca di reprimerci.

Siamo contro ogni pandemia fascista e patriarcale!

Sosteniamo le nostre sorelle ribelli che sono in sciopero della fame!

Svuotare tutti i centri di detenzione e i campi profughi, ADESSO!

Consegnare a tuttx i/le richiedenti asilo i documenti e trasferirlx in alloggi che soddisfino i requisiti della quarantena, con le corrette informazioni,

assistenza medica, educazione e dignità.

Nessuna persona illegale, nessuna persona invisibile.

La passione per la libertà è più forte di tutte le prigioni

Solidarietà e auto-organizzazione sono le nostre armi

Assemblea dell’iniziativa: La casa delle donne, per l’empowerment e l’emancipazione

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Qualche appunto sull’operazione repressiva del 10/06/2020 in alta Val di Susa

Fonte: Passamontagna

Si, abbiamo occupato. Abbiamo occupato gli scantinati della chiesa di Claviere.

E quando ci hanno sgomberati siamo entrati nella ex-casa cantoniera di Oulx.

Ci siamo presi degli spazi che erano necessari per incontrarci, parlarci, organizzarci. Contro le frontiere. Contro i sistemi di sfruttamento e selezione che le necessitano. Per portare solidarietà attiva a tutte quelle persone che si ritrovano discriminate, differenziate, sotto il continuo ricatto per ottenere un pezzo di carta, di uno stato che le massacra e del capitale che le sfrutta.

Abbiamo occupato. Lo abbiamo fatto e ce lo rivendichiamo.

E siamo ancora qui. La casa cantoniera esiste ancora e la lotta alla frontiera è molto più ampia dei 24 indagati/e per queste occupazioni e delle 17 persone che stanno cercando di cacciare via.
Centinaia e centinaia di persone da ogni continente hanno attraversato questi spazi.
Chi, indipendentemente dal possesso o meno dei documenti, determinato a scegliere dove e come vivere, chi per lottare questo sistema di sfruttamento, esclusione e differenziazione.

Tutti vi hanno trovato uno spazio per organizzarsi. Uno spazio per mangiare, dormire, attrezzarsi per partire, e il tempo per scegliere cosa fare. Uno spazio per elaborare discussioni, proporre iniziative, manifestazioni, cortei, cineforum. Liberi da ogni ricatto. Fuori dai giochi politici, fuori dai circuiti economici, davvero autonomi e indipendenti.

In un territorio massacrato dalle infrastrutture dei trasporti, e dalla tanto ricercata costruzione di un Treno ad Alta Velocità per muoversi sempre più in fretta, le frontiere fatte di guardie e gendarmi bloccano e fanno morire chi si trova costretto a camminare in montagna per continuare la propria vita. Le merci passano veloci e senza problemi, chi è senza documenti rischia di crepare inseguito dalla polizia.

Tra ieri e oggi i carabinieri hanno provato a notificare con insistenza (in qualche caso senza riuscirci) 17 divieti di dimora da Oulx, Claviere, Bardonecchia, Cesana, Salbertrand. Accusa: occupazione in concorso della Casa Cantoniera di Oulx.

Tra le righe si giustifica l’esigenza cautelare come prevenzione a una possibile rioccupazione dopo lo sgombero di della casa cantoniera, che sembrerebbe imminente.

Ci accusano di aver strumentalizzato il fenomeno migratorio in alta Valle Susa, di aver fatto azioni di propaganda politica, di aver favorito l’attraversamento illegale del confine dei “migranti”, mettendo in pericolo la loro vita. Come se le persone con cui per due anni ci siamo organizzati, abbiamo riso, scherzato, parlato, pianto, fossero dei manichini inermi, oggetti privi di facoltà di scelta. Anche sulla carta straccia che i carabinieri ci hanno consegnato stamattina, lo stato infantilizza e rende passive le scelte autonome di chi, del resto, sa benissimo dove vuole andare. Rimandiamo le accuse al mittente: nessuno sarebbe costretto a rischiare la vita se non fosse inseguito da un sistema che non fa altro che succhiare e sputare, se non esistessero confini e documenti. Gli assassini sono gli stati, le loro frontiere, i loro sbirri. E per loro, continuiamo a serbare il nostro odio.

Ma il reato contestato veramente è uno: l’occupazione. Con questa operazione si crea un precedente storico-giuridico rispetto alla penalizzazione di tale pratica, da sempre strumento prezioso di tutti i movimenti di lotta.

Qualunque reato abbia un massimale che vada sopra ai 3 anni può prevedere la richiesta di misure cautelari. Con l’ultimo decreto-sicurezza giallo-verde, il reato di occupazione prevede pene dai 2 ai 4 anni. Con l’aggravante in concorso, prevista se il reato è compiuto o organizzato da 5 o più soggetti, viene giustificata la misura. L’Italia si allinea al nordeuropa, cercando di eliminare gli spazi di autorganizzazione. E se ora possono allontanare anche gruppi di compagnx dai territori dove vivono e lottano per una semplice occupazione, che questa riflessione diventi più collettiva. Invitiamo chiunque a reagire, a suo modo, in difesa di questa pratica.

In questo contesto storico, e ancora di più in questo periodo di pandemia, il controllo ha aumentato la sua stretta sulle nostre vite; gli strumenti repressivi non fanno che perfezionarsi per azzittire ogni forma di lotta e pratica autonoma.

Il decreto Salvini attacca le basi stesse della solidarietà.

Non lasceremo che le nostre pratiche vengano arginate in nessun modo.
Uno sgombero, 1000 occupazioni !

Ps- in tutta questa merda, almeno una cosa ci fa sorridere: sbirri e giornalistx sottolineano stupitx la massiccia presenza femminile nella lotta contro le frontiere.

In effetti è vero: siamo tante, siamo incazzate e saremo sempre di più.

OCCUPIAMO TANTO, OCCUPIAMO TUTTO

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Saluzzo – 18 Giugno: Presidio davanti al Comune contro razzismo, sfruttamento e violenza poliziesca

da Enough is Enough – braccianti in lotta Saluzzo

Siamo braccianti agricoli, siamo lavoratori delle campagne di Saluzzo, siamo un movimento solidale. Lottiamo per mettere fine al razzismo, allo sfruttamento, alla violenza della polizia.

Il video della morte di George Floyd ha aperto gli occhi al mondo su uno dei più grossi problemi delle società in cui viviamo: il razzismo. Negli USA la potenza delle parole “I can’t breathe” ha ribaltato la normalità nella quale un poliziotto uccide un uomo a sangue freddo, con le mani in tasca, solo perché è nero, e ha dato spazio alla speranza di un mondo nuovo.

ANCHE IN ITALIA L’ARIA È IRRESPIRABILE: razzismo e violenza poliziesca sono all’ordine del giorno!

Lo vediamo negli omicidi razzisti che si sono moltiplicati negli ultimi 30 anni, negli accordi con la Libia, nei respingimenti e nei naufragi nel Mediterraneo, negli sguardi e nelle parole di disprezzo sui mezzi pubblici, nelle differenze di salario, nell’accesso differenziato alla sanità e ai diritti di cittadinanza…la lista è lunga.

Uno degli esempi più emblematici è quello delle condizioni lavorative e abitative dei braccianti, da nord a sud Italia: gli immigrati sono buoni da sfruttare, ma le loro vite non valgono. Soltanto nell’ultima settimana abbiamo assistito alla morte di Adnan Siddique, ucciso a coltellate perché sosteneva i lavoratori sfruttati nelle campagne siciliane, e di Mohammed Ben Ali, rimasto carbonizzato nell’incendio del ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia.

Nel comparto agroalimentare della zona di Saluzzo ogni anno durante la stagione della raccolta noi lavoratori delle campagne, tutti immigrati, viviamo in condizioni pessime, tra accampamenti informali e soluzioni emergenziali di accoglienza del tutto inadeguate e fortemente limitative delle libertà di chi ci vive. Quest’anno, a causa delle misure anti-coronavirus, non viene garantito nemmeno il progetto di accoglienza stagionale gestito in passato dal Comune, e per altro verso viene inviato l’esercito in modo da assicurarsi che non si creino accampamenti di fortuna.

Noi lavoratori, sul cui lavoro si regge la ricchissima economia locale, siamo costretti a dormire all’addiaccio nei parchi, senza doccia, e come se non bastasse con la polizia che ci ruba le coperte per motivi di decoro pubblico. E ovviamente con condizioni di lavoro tutt’altro che idilliache, stante che non vengono rispettati orari, paghe minime, e contributi previdenziali.

Anche le vite dei braccianti contano e per questo motivo vogliamo, innanzitutto e immediatamente, STRUTTURE ABITATIVE ADEGUATE, nel rispetto delle misure anti-covid, di cui peraltro il Governo si riempie la bocca ormai da anni, parlando di misure anticaporalato e di fine dei ghetti.

Insieme a varie realtà territoriali e torinese abbiamo deciso di scendere in strada GIOVEDÌ 18 GIUGNO, dalle 10 del mattino, per pretendere un cambiamento immediato della condizione ingiusta che viviamo ogni giorno!

Abbiamo richiesto un incontro al Comune di Saluzzo da svolgersi durante il presidio sottostante, alla presenza di tutte le parti in causa: Prefetto di Cuneo, sindaco di Saluzzo e dei comuni limitrofi, associazioni padronali (Coldiretti e Confagricoltura) e terzo settore.

Invitiamo tutti coloro che ci vogliono sostenere a partecipare numerosi, ovviamente nel rispetto delle misure anticovid: mascherine e distanziamento.

Ci vediamo giovedì alle ore 10 davanti al Comune di Saluzzo!

CASA PER TUTTI, GHETTI PER NESSUNO!

BASTA RAZZISMO, BASTA SFRUTTAMENTO!

#BlackLivesMatter
#EnoughIsEnough

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“Un anno dopo l’episodio della bandiera arcobaleno: il regime arresta, gli islamici applaudono”. Riposa in pace Sarah.

Due giorni fa è giunta la notizia della morte per suicidio della compagna Sarah el-Hegazy. Era stata arrestata nell’ottobre del 2017 insieme a 57 altre persone per aver sventolato la bandiera arcobaleno al concerto della band libanese Mashru’ Leila.
Dopo l’arresto è stata interrogata dalla sicurezza di stato, poi arrestata con l’accusa di incitare comportamenti immorali, infine torturata e seviziata dalle guardie in carcere. Uscita dopo un anno, additata e discriminata dalla società, colpevolizzata e accusata dagli islamisti e dagli uomini di religione, con la paura di finire di nuovo in carcere, come succede abitualmente nell’Egitto dei militari, decide di chiedere l’asilo in Canada dove continua a lottare per i diritti delle persone LGBTQI+.
Un saluto e un abbraccio immenso a chi come lei ha lottato fino all’ultimo.

Pubblichiamo la traduzione di una parte di un articolo che aveva scritto sul giornale Mada Masr il 24 settembre 2018, un anno dopo il suo arresto. L’articolo è titolato: Un anno dopo l’episodio “rainbow”: il regime arresta, gli islamici applaudono.

“Portala lì, dal basha

Lo Stato, e in particolare il regime che governa, salafita per capriccio; mentre mi arrestava da casa mia davanti alla mia famiglia, l’ufficiale mi ha interrogato sulla mia religione, sui motivi per cui ho tolto il velo e se fossi vergine o no!

Poi, nell’auto che mi ha portato in un posto che non sapevo cosa fosse, l’ufficiale mi ha bendato gli occhi, ho sceso le scale, non sapevo dove mi portavano. Ho sentito solo la voce di un uomo: “Portala lì, dal basha” in mezzo all’odore sporco del luogo e le voci delle persone che gridano di dolore. Mi hanno fatto sedere, con le mani legate e un bavaglio sulla bocca. Non ne conoscevo lo scopo, non vedevo nessuno e nessuno mi parlava, poco tempo prima che il mio corpo sentisse un brivido. Poi ho perso conoscenza per un po’, ma non saprei dire per quanto tempo.

Era stata una scarica elettrica. Sono stata torturata con l’elettricità! Hanno minacciato di fare del male a mia madre se lo avessi detto a qualcuno, mia madre che è morta dopo la mia partenza.

Non solo il regime mi ha torturata, ma gli uomini del distretto di polizia di Sayyeda Zainab (un quartiere del Cairo N.d.T) hanno incitato le donne del posto a molestarmi sessualmente e verbalmente.

Ma le torture non si sono limitate solo a questo. Ci sono state altre torture psicologiche contro di me, nel carcere di al-Qanater e nella cella d’isolamento dove sono rimasta per giorni e giorni, prima di trasferirmi in un reparto dove mi è stato impedito di parlare con le due donne in cella con me.

Mi è stato impedito di muovermi alla luce del sole per tutta la durata della mia prigionia, fino a quando ha perso la capacità di comunicare con gli occhi con le altre persone.

L’investigatore mi ha chiesto: l’omosessualità è una malattia?

L’indagine, che si è svolta all’interno del quartier generale della Procura di sicurezza dello Stato, è stata un modello di stupidità e apparente ignoranza; l’investigatore mi ha chiesto di dimostrare che l’Organizzazione mondiale della sanità non considera l’omosessualità una malattia. In effetti, l’avvocato Mustafa Fouad ha contattato l’OMS per presentare un documento ufficiale che certificasse che l’omosessualità non è una malattia. Così l’avvocato Hoda Nasrallah ha contattato le Nazioni Unite per avere un altro documento per dimostrare che il rispetto della libertà di orientamento sessuale è un diritto umano.

Di tutto questo abbiamo discusso io e Ahmad Alaa nella Procura della Sicurezza dello Stato.

Le domande dell’investigatore erano davvero stupide. Paragonava il comunismo all’omosessualità, e con tono derisorio mi chiese perché le persone omosessuali si astenessero dal fare sesso con animali e bambini.

Naturalmente non sapeva che il sesso con i bambini è un crimine chiamato “pedofilia” e che il sesso con gli animali è un altro crimine chiamato “zoofilia”.

Non c’è da stupirsi del suo pensiero limitato. Del resto lui vede al-Shaarawi (celebre predicatore star della tv all’epoca di Mubarak di cui fu ministro N.d.T.) come un grande predicatore e Mustafa Mahmoud un grande scienziato (un sedicente scienziato star dell’epoca di Moubarak celebre per aver tentato di dimostrare che tante scoperte scientifiche erano già scritte nella religione islamica N.d.T), crede che il mondo cospiri contro di noi e che l’omosessualità sia una religione che predichiamo. Le basi della sua cultura non sono poi così diverse dai genitori, dagli uomini di religione, dalle scuole e dai media.

Oltre l’angoscia.

E’ una cosa frustrante; ho cominciato ad aver paura di tutti. Anche dopo il mio rilascio ho continuato ad aver paura di tutti, della famiglia, degli amici e della strada mi perseguitavano. La paura è rimasta padrona della situazione.

Ho sofferto di grave depressione, disturbo post-stress, tensione, ansia e attacchi di panico. L’elettroshock mi ha portato problemi di memoria. Prima di essere costretta a viaggiare avevo paura che mi arrestassero di nuovo. In esilio ho perso la mia mamma. Mi hanno fatto di nuovo l’elettroshock a Toronto, ho provato due volte a suicidarmi, balbettavo e evitavo di parlare della prigionia, non riuscivo a uscire dalla stanza, la memoria peggiorava e evitavo di apparire in assembramenti e in pubblico a causa della perdita di concentrazione, della sensazione di smarrimento e del desiderio di silenzio. Tutto questo mentre avevo la sensazione di perdere la speranza nell’efficacia del trattamento e della guarigione.

Questo è ciò che ho guadagnato dalla violenza dello stato, con la benedizione di tutte “le persone religiose per natura”.

Applausi del branco

Non c’è alcuna differenza tra il salafita terrorista con una barba arruffata che vuole ucciderti, perché è in una posizione più alta presso il suo Signore, e per questo autorizzato a uccidere chiunque non assomigli a lui, e un uomo senza barba, che veste con abiti eleganti, ha un telefono moderno e un’auto di lusso, che fa torturare, incita e imprigiona perché ha una posizione più alta presso il suo Signore e tortura coloro che non somigliano al branco e lo fa arrestare.

Chiunque differisca dal branco, chiunque non sia un maschio sunnita eterosessuale e un sostenitore del sistema, lui o lei, fa parte dei morti, degli oppressi e degli emarginati.

Il branco ha applaudito il regime al momento del mio arresto con Ahmed Alaa, il giovane che ha perso tutto per aver alzato la bandiera arcobaleno!

Fratelli musulmani e salafiti alla fine sono d’accordo con il regime al potere contro di noi. Hanno acconsentito alla violenza, all’odio, al razzismo e alla persecuzione.

Questo è il motivo per cui non sono diversi l’uno dall’altro, poiché sono due facce della stessa medaglia.

Non ho dimenticato i miei nemici
Non abbiamo visto aiuto se non dalla società civile, che ha adempiuto al suo dovere nel migliore dei modi possibili, nonostante le restrizioni dello Stato

Non dimenticherò il personale della difesa: Mostafa Fouad, Hoda Nasrallah, Amr Mohamed, Ahmed Othman, Doaa Mostafa, Ramadan Mohamed, Hazem Salah El Din, Mostafa Mahmoud, Hanafi Mohamed e altrix.
Non è possibile descrivere lo sforzo di queste persone con delle parole su carta, ma io ho solo queste.
Pertanto, chiedo scusa agli avvocati e alla società civile per la mia incapacità di esprimere la mia gratitudine se non in parole di ringraziamento.

Un anno dopo il concerto del gruppo Mashuru’ Laila, un anno dopo che i musicisti furono banditi dal tornare in Egitto, un anno dopo il più grande attacco della sicurezza di Stato contro le persone omosessuali, un anno dopo aver annunciato la mia differenza, “Sì, sono omosessuale” non ho dimenticato i miei nemici.

Non ho dimenticato l’ingiustizia che ha lasciato una macchia nera incisa nell’anima che continua a sanguinare, una macchia che i medici non possono cancellare”.

Riposa in pace Sarah,
che il presidente al-Sisi, il suo regime e tutti coloro che lo sostengono possano crepare, in primis lo stato italiano che continua a vendere armi al regime assassino.

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Adesso la solidarietà si chiama associazione a delinquere e istigazione: ecco le motivazioni per i fogli di via alle compagne in Calabria

fonte: Comitato Lavoratori delle Campagne

Negli ultimi giorni due richieste di fogli di via sono state confermate a due solidali per aver partecipato il 6 dicembre scorso al blocco del Porto di Gioia Tauro. In quell’occasione, chi vive nei ghetti e lavora nelle campagne era sceso in strada, in maniera autorganizzata e consapevole: non solo per chiedere (per l’ennesima volta) documenti, case e contratti, ma anche per dimostrare di poter prendere parola in maniera libera e autonoma, a differenza di quanto restituisce l’immaginario mainstream. Per questo appare grave, falsa e feroce la ricostruzione dei fatti promossa dalle forze dell’ordine, con cui si motiva la pericolosità sociale e quindi la fondatezza del foglio di via notificato a diversi solidali. In primo luogo, si riporta che i manifestanti avrebbero aggredito un dipendente del porto “che tentava di guadagnare l’uscita…danneggiando con calci e pugni la sua autovettura”. Oltre a dichiarare il falso, poichè nessuno si è scagliato contro l’automobile, la ricostruzione omette il fatto che per “guadagnare l’uscita” detta autovettura abbia investito deliberatamente diversi manifestanti che in maniera assolutamente pacifica portavano avanti il blocco, ferendone uno in maniera molto grave. Vale la pena ricordare che il manifestante, dopo una visita sommaria, nonostante le gravi ferite riportare, sia stato tradotto al commissariato e denunciato.

Alle menzogne si aggiungono razzismo e paternalismo: nella ricostruzione, infatti, non solo si nega il protagonismo attivo e consapevole dei migranti alla giornata di lotta, ma vengono additati come pericolosi istigatori e unici promotori della mobilitazione i e le solidali che accorsero quel giorno a sostenere la lotta, sottolineando il fatto che fossero italiani. Evidentemente i cani da guardia del potere non riescono o non vogliono comprendere che un africano, un ‘nero’, non ha bisogno di un italiano per prendere parola e farsi sentire, non ha bisogno di un’associazione o di un sindacato a fargli da interprete.
Dulcis in fundo, le compagne e i compagni vengono condannati senza processo, additati come pregiudicati e accusati di essere un’associazione a delinquere, confermando un modus operandi dedito alla costruzione di teoremi diffamatori e criminalizzanti che ormai è sempre più diffuso. Con buona pace di forze dell’ordine, istituzioni, associazioni, sindacati e altri sciacalli, chi vive e lavora nelle campagne non rimane né muto né passivo, e continua a dimostrare di non essere disposto a farsi strumentalizzare né zittire. Allo stesso modo non ci lasceremo piegare da denunce e fogli di via e non accetteremo queste vergognose menzogne. Se pensate di fermarci vi sbagliate.

Ricordiamo che è stata lanciata una campagna contro la repressione, e di sostegno per le spese legali.
L’immigrazione non è un crimine, la solidarietà non è un reato.

Per i dettagli sulla campagna potete consultare il sito di Campagne in Lotta

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Milano – 13/6 presidio a via Padova verso il corteo del 20 giugno

fonte: Punto di rottura

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