Bologna – Mercoledì 21 novembre – Riflessioni e analisi contro il nuovo decreto immigrazione e sicurezza

Fonte: Il Tribolo

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Torino – Presidio al CPR di Corso Brunelleschi [sabato 17 novembre]

fonte: Macerie

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Roma – Sabato 24 novembre presidio al CPR di Ponte Galeria

Riceviamo e pubblichiamo. Per scriverci e inviarci contributi: hurriya[at]autistici.org

Da molti anni la propaganda mediatica dei governi dei paesi occidentali proclama che “le nostre donne” sono libere perché hanno gli stessi diritti degli uomini. Tale rivendicazione viene portata avanti in contrapposizione alla presunta condizione delle donne nei paesi colonizzati, che vivono, nell’immaginario occidentale, una situazione di passività e sottomissione.

Si riafferma ancora una volta il discorso razzista che assegna a noi brave europee il compito di salvare queste “vittime” dalla  barbarie, specialmente se donne, ancor più migranti e/o sex workers.

Di fatto, a braccetto con questa vocazione salvifica della narrazione imperialista, ci passeggia un sistema eteropatriarcale che dalla vittimizzazione della donna accresce il proprio potere e le proprie forme di dominio e controllo sui corpi, dipingendoli come non in grado di autodeterminarsi e incapaci di assumere il controllo della propria esistenza, e pertanto giustificandone la privazione di libertà in nome della “loro” sicurezza.

Come se un’emancipazione dalla condizione di vittime non fosse neppure immaginabile. Come se non esistessero esperienze di autodifesa collettive e individuali, e ci si potesse soltanto rassegnare alla propria condizione assoggettata.

La riduzione delle donne a vittime, deboli, incoscienti e irrazionali è uno dei presupposti che legittima il patriarcato e funge da spiegazione oggettiva alla sua esistenza. Fondamenta la teoria che le donne siano biologicamente inferiori e dunque le rende soggetti facilmente controllabili e strumentalizzabili.

Se gli stupri e i femminicidi quotidiani sono entrati a far parte della cronaca nera giornalistica senza destare particolare attenzione, diverso è ciò che accade quando a commettere violenza è un uomo non europeo: qui scatta il caso mediatico e il corpo della donna diventa mero strumento per portare avanti i decreti anti-immigrazione e le strette securitarie che si susseguono anno dopo anno, governo dopo governo, nascondendo da un lato la strutturalità dell’oppressione maschile sulle donne e dall’altro gli interessi economici delle guerre imperialiste.

Personalizzare le esperienze di violenza è una strategia che divide le donne e fa percepire loro le esperienze come atipiche e slegate da quelle delle loro simili. Quindi mina una visione complessiva del fenomeno e di conseguenza una possibile soluzione.

La narrazione delle esistenze individuali delle donne migranti da parte dei media rientra in questa stessa ottica: leggiamo spesso storie di donne recuperate in mare, liberate dalla schiavitù della tratta, integrate nella società, dipinte come povere vittime da compatire, da salvare dalla vita crudele dalla quale sono scappate, e da accogliere pietisticamente.

Esiste però un’enorme contraddizione insita in queste parole, che rivela due realtà che sembrano opposte, ma che in fondo sono simmetriche e rappresentano le due facce di una stessa medaglia. Queste donne, infatti, una volta arrivate in Italia, vengono istantaneamente oppresse da un meccanismo perverso che le categorizza, le classifica e le rende più facilmente controllabili. Chi decide in quale categoria inserirle e muoverle come pedine da una all’altra è sempre lo stesso potere centrale che le compatisce e che vuole salvarle.

Qualcuna viene inclusa in quella che viene chiamata “accoglienza”: un sistema infantilizzante che le rende dipendenti da tutto e per tutto. Le donne che entrano in questo circuito e in questo limbo, in attesa di un asilo politico o una sorta di protezione legale, nel “migliore” dei casi sono sottoposte a rigide regole che limitano la loro libertà e la loro iniziativa personale.

Se si decide di infrangere queste regole o se chi comanda il “gioco” decide di cambiarle, allora si passa dalla categoria “inclusa” o “includibile” a quella di indesiderabile, ed ecco che la medaglia si gira ed appaiono i lager di stato chiamati Centri Per il Rimpatrio, prigioni per persone senza documenti, e chi diceva di voler salvare quelle donne ne diventa l’aguzzino.

Lì dentro sovraffollamento, cibo avariato, assenza di cure mediche, tranquillanti e pestaggi rappresentano la quotidianità. Ma sono quotidiane anche le proteste e le resistenze che ognuna di loro mette in atto per non farsi schiacciare da questo sistema repressivo.

Le donne che finiscono nel Cpr spesso provengono dalle questure, alle quali si rivolgono per denunciare un partner violento, o semplicemente per rinnovare il permesso di soggiorno.

Le mura dei Cpr, come le frontiere tra gli Stati, sono strumenti costruiti per ostacolare quell’unione e quella solidarietà necessarie a una vera e forte lotta contro la cultura della sopraffazione e del controllo patriarcale.

All’isolamento e al silenzio ai quali lo Stato condanna le migranti recluse a Ponte Galeria, è necessario continuare a contrapporre con forza la solidarietà e la voce di chi vi si oppone, tornando ancora sotto quelle mura.

Non deleghiamo allo stato la soluzione a un problema di cui è artefice.

Contrastiamo la logica dell’accoglienza e dei centri di detenzione, non rendiamoci complici della violenza e del razzismo di stato.

Solidarizziamo con chi sabota e lotta contro le frontiere e le galere.

SABATO 24 NOVEMBRE PRESIDIO AL CPR DI PONTE GALERIA

APPUNTAMENTO DAVANTI AL CPR ALLE ORE 11 (FERMATA FIERA DI ROMA)

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L’UE arma l’Egitto e il regime continua a reprimere

Nei giorni scorsi il presidente autocrate al-Sisi si è recato in visita ufficiale a Berlino (la terza dal momento della sua elezione a presidente 2014 dopo la presa del potere dei militari) in occasione del Partenariato tedesco con l’Africa per il G20. Alla fine dei colloqui privati Merkel e al-Sisi hanno dichiarato di aver discusso di alcuni temi particolari: “lotta all’emigrazione irregolare”, lotta al terrorismo, investimenti in Egitto e questioni internazionali e regionali di interesse comune (Libia e Siria).

In realtà l’incontro ha riproposto un copione già visto diverse volte, specie in questi ultimi anni, in cui da una parte c’è l’Unione Europea o qualcuno dei suoi stati membri, esclusivamente interessati alla guerra contro i flussi migratori e alla protezione degli interessi economici; dall’altra uno degli stati confinanti del Mediteraneo, in cerca di investimenti, sostegno internazionale e silenzio sulle sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani. L’ultimo esempio di questo teatro del crimine sono gli accordi tra Spagna e Germania (con avallo UE) siglati con il Marocco la scorsa estate.

Così a Berlino mentre le autorità tedesche enfatizzavano l’importanza della stabilità dell’Egitto al fine di combattere l’immigrazione illegale – “un’isola di stabilità in un mare di disordine” – al-Sisi e la sua delegazione mettevano in evidenza il “forte peso” che il paese sta portando da solo avanti per il controllo del territorio e il blocco dei flussi migratori. Dal naufragio del 2016 della barca con più di 600 persone lasciate morire in mare dalle autorità egiziane, dalle coste egiziane non parte più nessunx. Il che corrisponde a lasciare migliaia di persone senza documenti, senza allogi, vittime di razzismo, della tratta delle spose bambine e senza sostegno economico, in balia di bande criminali che colluse con la dittatura catturano persone migranti (yemeniti, sudanesi e di altre nazionalità) per estrargli gli organi e venderli sul mercato internazionale.

Alla fine dell’incontro, oltre a confermare importanti investimenti economici, le autorità tedesche hanno autorizzato lo sblocco della seconda parte di un “aiuto” di 500 milioni di euro in armi. Dal 2013 al 2017 la vendita di armi all’Egitto, tedesche (e “made in Europe”) è aumentata del 205% rispetto al 2008-2012. La polizia federale tedesca ha addestrato (luglio – ottobre 2018) anche la polizia di frontiera egiziana e fornito 50 lettori di documenti d’identità e apparecchiature di rilevamento per esplosivi . Sono iniziati anche i colloqui formali per un accordo ufficiale che vedrebbe la marina egiziana pattugliare il Mediterraneo, con sovvenzioni UE, in cambio di un importante flusso di investimenti e altri incentivi finanziari. Due fregate saranno vendute dalla ThyssenKruup per un costo di 1 miliardo di Euro. Continua a leggere

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Bologna – Presidio davanti a BPER, boia popolari dell’Emilia Romagna

il volantino distribuito

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Bologna, martedì 6 novembre. Durante la mattinata nella prima periferia bolognese, in piazza dell’Unità un gruppo di nemici e nemiche delle frontiere ha presidiato per un paio d’ore la filiale della Banca Popolare dell’Emilia Romagna (BPER) di zona. Nulla più che semplici volantini distribuiti ai passanti o a chi entrava nella banca, nulla più che un megafono e uno striscione in cui stava scritto “BPER proprietaria di lager per migranti. No CPR a Modena”. Mezzi semplici per dar vita a un momento di controinformazione e disturbo.

Abbiamo voluto animare la vita di quell’angolo di piazza per attirare l’attenzione su una nefandezza che BPER desidera tenere celata: la sua partecipazione nella gestione della struttura del futuro Centro di Permanenza per il Rimpatrio che aprirà a Modena. BPER, assieme a BPM, Banca Popolare di Sondrio e Credito Valtellinese sono azionisti della società di locazione finanziaria Alba Leasing attualmente proprietaria dell’edificio di via Lamarmora a Modena, ex CIE e futuro CPR. Abbiamo scelto BPER perché banca locale fortemente presente nel territorio emiliano-romagnolo.

Il CPR che sorgerà a Modena sarà il CPR regionale, nei piani del governo lì arriveranno irregolari da identificare ed espellere da tutta l’Emilia Romagna, l’opposizione a esso non può dunque interessare solo la città in cui sorgerà, ma chiunque desideri opporsi all’esistenza di simili strutture. I nomi di alcuni dei responsabili sono già noti, hanno filiali in tutta la regione e nel centro-nord e chiunque voglia opporsi alla futura apertura del CPR di Modena sa adesso a chi può dar fastidio.

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Belgio – Lo stato processa le persone migranti e chi le ospita

Centinaia di persone hanno manifestato lo scorso mercoledì (07-11) di fronte al palazzo di giustizia di Bruxelles in solidarietà con 12 persone accusate di organizzazione criminale e traffico di esseri umani (una di loro non si trova più sul territorio belga). Sono tutte persone ospitali, solidali del parc Maximilien (in cui risiedono decine di richiedenti asilo) e migranti ospiti presso case private. Rischiano il carcere in ragione dell’aiuto che hanno fornito ad altre persone migranti in transito nel paese. 9 di loro sono state già sottoposte all’arresto preventivo per vari mesi e alcune di loro sono ancora dentro.

Le numerose persone solidali che si sono trovate sotto il tribunale accusano il governo di stigmatizzare e criminalizzare in maniera sistematica ogni movimento di sostegno alle persone migranti in Belgio (come nel caso dell’arresto di 6 persone avvenuto dentro il centro culturale Globe Aroma a Bruxelles o del processo contro coloro che si erano opposte all’espulsione di un migrante su un aereo).

Nell’ambito di queste proteste contro il processo a migranti, a chi li ospita nelle case e solidarizza, nella notte del 2 novembre è stata compiuta un’azione di fronte a 24 commissariati di polizia dei comuni di Bruxelles e di altre città del paese per dire che “i rastrellamenti e le perquisizioni domiciliari non ci proteggono”.

In effetti, negli ultimi mesi le persone migranti stanno subendo “un reale tormento” essendo perseguitate e arrestate negli spazi pubblici, sui mezzi di trasporto, nelle stazioni e parcheggi. La maggior parte delle persone fermate vengono portate nei vari commissariati o nel centro di identificazione di Steenokkerzeel. Nel mese di ottobre sono stati registrati 111 arresti in tutto il paese. 73 di queste persone sono state rimesse in libertà. Nello stesso mese sono uscite dai centres fermés (CIE) 32 persone migranti arrestate precedentemente e con più di un mese di detenzione, 19 delle quali sono state espulse verso paesi europei (procedura Dublino), tra le quali 6 verso l’Italia. Una di loro è stata espulsa verso l’Etiopia dopo sei mesi di detenzione.

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Libia – Tentativo di fuga di massa dal campo di concentramento di Al Furhaji Sebha

In Libia le condizioni di reclusione di decine di migliaia di persone sono in continuo peggioramento. I lager gestiti dal governo e dalle milizie sono strapieni delle persone respinte in mare dalla guardia costiera, con la collaborazione dell’Italia. Le proteste, rivolte, fughe sono frequenti ma sconosciute a causa della difficoltà a comunicare con l’esterno. Ad agosto avevamo raccontato della rivolta nel lager di Tarek al Matar e in altri campi.

Stamattina 9 novembre più di 200 persone hanno forzato i cancelli del lager di Al Furhaji Sebha e sono fuggite, riuscendo a superare le guardie che hanno sparato e ferito gravemente un ragazzo. Affamate, disperate e spaventate le persone in fuga si sono dirette poi lungo le strade di Tripoli cercando di raggiungere gli uffici dell’UNHCR, per chiedere libertà e la possibilità di lasciare finalmente l’inferno della Libia. Dopo qualche ora sono state però raggiunte e circondate tutte dai camion e dai militari dell’esercito libico, che le hanno riportate indietro nel centro di detenzione, compreso il ragazzo ferito.

Ora rischiano le ritorsioni delle guardie: le persone di altri campi si dicono preoccupate su quanto potrebbe accadere a chi viene ricatturato, e sicure che gli accadrà qualcosa di brutto. Raccontano che l’ultima volta, dopo un’evasione collettiva dal campo di Bin Keshir le persone che avevano continuato a protestare nelle strade erano state catturate dalle guardie e picchiate, trasferite in vari campi e in uno di questi un fuggiasco era stato ucciso con scosse elettriche.

La situazione nei lager in Libia è perfettamente conosciuta dalle agenzie internazionali come l’OIM e l’UNHCR e dai governi europei che hanno affidato ai libici il controllo delle migrazioni. Queste agenzie internazionali sono di fatto complici delle terribili violenze che avvengono in questi luoghi di segregazione e tortura. Da giorni le 230 persone di origine eritrea ( tra le quali ci sono 56 minorenni) recluse a Al Furhaji Sebha, contattando attivisti per i diritti umani e della diaspora eritrea in Europa e con alcuni giornalisti, avevano raccontato delle condizioni nel campo. Una lettera era stata inviata alle varie agenzie, a governi, Croce Rossa, Commissioni UE etc. senza che nulla avvenisse.
Il testo della lettera del 7 novembre:

Scriviamo in relazione ai disperati appelli di aiuto che continuiamo a ricevere da 230 rifugiati eritrei in un centro di detenzione di Tripoli, Al Furghaji Sebha, gestito dalla polizia libica. Sono presenti circa 50 minori, molti sono molto malati. Ora tutti loro credono di essere stati lasciati lì a morire! Scriviamo perché, nonostante le brevissime visite degli operatori di IOM e MSF, i detenuti continuano sistematicamente a non ricevere cibo da parte della polizia libica, che sta minacciando di trasferirli in un altro centro di detenzione più nascosto e li picchia e li maltratta quando chiedono del cibo alla polizia.

Sono molto spaventati, affamati, malati e soffrono il freddo. Comprendiamo perfettamente che è probabile che voi siate a conoscenza di tutto questo, ma le condizioni sembrano essere seriamente pericolose per la vita di questi detenuti, alla polizia libica locale non ha importato di lasciare le persone per 10 giorni senza cibo o acqua pulita, fino a quando operatori dell’OMI hanno portato loro pochissimo cibo e coperte. Ma oggi sono stati lasciati senza cibo di nuovo dalla sadica polizia per tutto il giorno! Sono lasciati morire.

Comprendiamo che migliaia di rifugiati sono attualmente detenuti in condizioni orribili in molti centri di detenzione e tutti hanno bisogno di assistenza, ma questo gruppo di 230 Eritrei nel centro di Al Furghaji Sebha è stato registrato presso l’UNHCR dal gennaio 2018. Si trovano ad affrontare gravi problemi e abusi e sono attualmente in balia di una squadra di polizia violenta e sadica. Saremmo molto grati se la loro evacuazione potesse essere portata avanti con estrema urgenza.
Ieri 8 novembre era circolato un nuovo appello urgente:

L’emergenza nel centro di detenzione di Al Furhaji Sebha continua. #PortateliFuori !! Oltre 230 eritrei, tra cui 56 minori, sono affamati e malati. Dopo che MSF e OIM hanno portato del cibo “take away”, distribuito individualmente, negli ultimi tre giorni la polizia libica ha costantemente rifiutato di dare loro del cibo la sera e li ha lasciati senza cibo, dato che nessuna organizzazione ha fatto visita alla struttura.

Ieri la polizia ha minacciato i detenuti per fargli dire all’IOM che non gli piaceva il cibo “take away” e di mentire all’OIM affermando che preferirebbero che il cibo venisse affidato alla polizia e poi distribuito. Questo ovviamente con lo scopo di consentire alla polizia di esercitare il controllo sul cibo, diminuire quello consegnato ai detenuti e farne altro uso. I detenuti sono stati molto coraggiosi e hanno detto all’OIM il contrario. Hanno raccontato all’OIM le minacce della polizia e quello che avevano ricevuto l’ordine di dire. I membri dell’OIM hanno quindi parlato alla polizia separatamente e se ne sono andati. La polizia si è arrabbiata molto e ha picchiato i detenuti.  Sono in condizioni terribili e perdono la speranza. Ora ci stanno chiedendo il massimo aiuto e pubblicità possibile. Per favore, scrivi all’UNHCR Libia, OIM Libia e MSF su messenger, su twitter e via e-mail per chiedere di dare la priorità all’evacuazione di questo gruppo vulnerabile di eritrei nel centro di detenzione di Al Furhaji Sebha a Tripoli che sono in balia degli abusanti agenti di polizia libici.”

Quello che avviene realmente nei campi di concentramento è stato raccontato, in un articolo pubblicato ieri dal giornale inglese Guardian, da un eritreo recluso nel centro di detenzione di Triq al Sikka, nell’area di Tripoli.

Ho provato a raggiungere l’Europa all’inizio di quest’anno. Siamo rimasti sulla barca per 26 ore, nel mezzo del Mediterraneo, e un elicottero italiano è venuto a fare foto. Dopo questo, è comparsa la guardia costiera libica per riportarci in Libia, e ci hanno portato all’inferno. Da allora, sono stato in un centro di detenzione a Tripoli.

Ad oggi, le persone che sono qui ammalate sono state tre settimane senza farmaci per la tubercolosi, e ora pensiamo che tutti gli uomini e i ragazzi ce l’abbiano. I medici hanno smesso di presentarsi, si è interrotta la fornitura d medicine, e viviamo tutti insieme. Persino le guardie non si avvicinano a noi, e dicono agli altri di non avvicinarsi. Il posto in cui viviamo è simile a una caverna. Non ci sono finestre. Non c’è aria fresca. Condividiamo letti, tazze, quasi tutto. Per passare il tempo, preghiamo al mattino. Rimaniamo seduti. Dormiamo. È buio tutto il giorno.

Due settimane fa, un somalo si è ucciso prendendo la benzina da un generatore e dandosi fuoco. Il suo nome era Abdulaziz e aveva 28 anni. Aveva aspettato nove mesi per l’evacuazione. Era un brav’uomo: quando i funzionari dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) lo visitarono, chiese loro perché aveva passato così tanto tempo in prigione. L’ultima volta che sono venuti, ci ha detto che l’UNHCR lo aveva respinto. Quindi ha preso la benzina. Aveva perso la speranza nel sostegno dell’UNHCR dopo aver atteso così tanto tempo per il trasferimento in un paese sicuro. Altri sette quest’anno sono morti a causa delle condizioni. Nessuno si assume la responsabilità per noi. Il nostro unico bisogno è lasciare la Libia, perché la Libia non ha governo. Sono eritreo, quindi non posso tornare a casa. Altre persone potrebbero avere una scelta, ma non eritrei, somali, sudanesi.

Nel frattempo i paesi dell’UE stanno giocando, specialmente l’Italia. L’Eritrea è stata colonizzata dall’Italia per un lungo periodo. Per la gente eritrea ancora non c’è libertà, e l’Italia l’ha plasmata direttamente o indirettamente. Il mio paese è una dittatura. Sembra che i paesi dell’UE non vogliano che gli africani si sviluppino, siano intelligenti, istruiti e così via. Ecco perché lo stanno facendo. Stanno uccidendo il nostro tempo, uccidendo il nostro cervello. È come la guerra fredda. Le nostre condizioni peggiorano sempre. Non c’è abbastanza cibo e la gente beve l’acqua della toilette.

E questo viene nascosto. Quando le persone esterne arrivano nei giorni di visita degli ospiti, le guardie ci danno del buon cibo, un buon ambiente, servizi igienici. Ma i rifugiati non hanno contatti con i visitatori, non abbiamo la possibilità di parlare loro dei nostri problemi. A volte li vediamo solo attraverso un piccolo foro nella porta. Quando l’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ci ha fatto visita quest’anno, sono passato attraversato le guardie con la forza e l’ho trovato, raccontandogli ogni problema nel centro di detenzione e chiedendo perché le evacuazioni erano cessate. Mi ha detto: “Conosco tutti i problemi”. Abbiamo parlato faccia a faccia. Dopo che se ne fu andato, le guardie mi picchiarono e mi minacciarono in modo che non lo facessi più. Da quel momento, non mi è mai stato permesso uscire o parlare con nessuna organizzazione. Ecco perché sono costretto a scrivere ora con uno pseudonimo.

Quando l’UNHCR e l’Organizzazione internazionale per la migrazione (OIM) ci forniscono cose come prodotti per l’igiene o coperte, scattano alcune foto. Poi, quando se ne vanno, le guardie la riprendono e vendono tutto. IOM e UNHCR conoscono questo gioco, ma non fanno nulla. Fingono come se non lo sapessero. A volte le guardie ci picchiano di fronte a loro e loro non le fermano. Veniamo forzati a chiedere alle nostre famiglie di inviarci denaro per cibo e prodotti per l’igiene. Arriva attraverso il mercato nero e le guardie si prendono il 40%. Altrimenti moriremmo. Recentemente abbiamo cercato di abbattere la porta e scappare insieme, ma non ce l’abbiamo fatta. Le guardie ci sono venute contro con pistole e catene.

Per tutto il tempo i libici che dovrebbero prendersi cura di noi pensano solo a come ottenere più soldi dall’UNHCR. Fanno film, mentono, fingono di gestire e aiutare i rifugiati. Quando sanno che i bianchi verranno, ripuliscono, nascondono le persone che sono in cattive condizioni e quelle che hanno picchiato. Se non rovinasse così tante vite, potresti quasi ridere del modo in cui fingono: potrebbero essere attori di Hollywood.

* Thomas Issak, un rifugiato eritreo

Le “evacuazioni” dai lager, per la stragrande maggioranza delle persone, si traducono comunque in deportazioni e trasferimenti. L’OIM continua a deportare migliaia di persone nei paesi d’origine, attraverso gli pseudo “ritorni volontari”, in pratica un ricatto per accettare la deportazione pur di uscire dai campi di concentramento. L’UNHCR invece riporta indietro le persone nei campi in Niger, in attesa di un possibile futuro accesso a meccanismi di ricollocamento nei paesi europei, ricollocamenti che diventano sempre più un miraggio, come abbiamo spiegato in questo articolo.

 

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Spagna – Manifesto delle manifestazioni antirazziste dell’ 11 novembre

Traduciamo il Manifesto di convocazione delle manifestazioni contro il razzismo istituzionale previste a Madrid e in altre città della Spagna per l’11 novembre. Si tratta di una manifesto e di una mobilitazione promossa da collettivi di persone razzializzate. I contenuti critici del testo, la messa in discussione del “privilegio bianco”, la denuncia dell’atteggiamento antirazzista eurocentrico e paternalista che silenzia  e vittimizza le persone che subiscono il razzismo istituzionale sono inusuali in Italia. Proprio il giorno precedente, a Roma si terrà una manifestazione nazionale antirazzista e contro il governo. Non si può non notare come nella piattaforma di questa manifestazione non si parli dello strutturale razzismo istituzionale, di libertà di movimento, del regime delle frontiere, dei campi di concentramento detti CPR , dei lager in Libia. Nel testo non si esprime solidarietà e supporto a chi è sotto processo o paga con la galera per essersi ribellato nei CPR, negli hotspot e centri di accoglienza, a chi lotta nei ghetti e tendopoli di stato. Non si accenna nemmeno una volta ai controlli, retate, rastrellamenti, che avvengono ogni giorno nelle strade e nei luoghi dove vivono le persone razzializzate. L’assenza di questi temi non sorprende, perché, come affermano le persone che hanno dato vita alle rete che organizza queste manifestazioni “tutto questo razzismo istituzionale e strutturale è rivolto contro di noi. Sono i migranti che sono colpiti dalla violenza delle leggi razziste, sono le persone razzializzate che sono rinchiuse nei ghetti, che vengono criminalizzate e tutelate infantilizzandole, a cui viene negato il diritto di voto nonostante risiedano qui , ai musulmani/e, che sono strumentalizzati oggi per esercitare un maggiore controllo sul resto delle comunità, che vengono criminalizzati, che vengono fermati per strada o nella metropolitana dopo che un attacco terroristico è accaduto qui o centinaia di chilometri, che sono segnalate nelle aule; partendo da questo, rivendichiamo il diritto di guidare le nostre lotte. Dovremmo porre fine al complesso industriale del salvatore bianco. Questa sindrome filantropica eurobianca “che mira a salvarci”, parlare per noi e mettere sotto tutela le nostre lotte. Questo gesto di infantilizzazione è un gesto razzista, ed è portato avanti da molti gruppi bianchi, dalla sinistra o dalle ONG – può essere con buone intenzioni – ma che però mira a toglierci autorevolezza come soggetti politici. Questa è una marcia che nasce dalla propria pelle. Ciò significa che siamo noi che viviamo quotidianamente situazioni razziste, siamo noi che attraversiamo le frontiere e affrontiamo l’impalcatura degli ostacoli presenti nelle istituzioni e nelle leggi che compongono questo stato, chi meglio di noi può organizzare questa lotta?”.

Manifesto della manifestazione antirazzista dell’ 11 novembre

Traduzione da: Es Racismo

Noi comunità razzializzate afro-discendenti, diaspora africana, mora-musulmana, gitana, latinoamericana e caraibica, e asiatica, siamo i corpi oppressi dall’occidente. Siamo qui, nipoti delle indie che il colonialismo non ha potuto uccidere, delle nere che l’eurocentrismo non ha potuto sterminare e nipoti delle gitane che le retate genocide non hanno finito di annichilire.

Siamo qui, figlie delle migranti perseguitate dalle politiche razziste di Spagna, le richiedenti protezione internazionali, le senza documenti e quelle che ricordano Lucrecia Pérez Matos (ndt. Lucrecia Pérez Matos aveva 32 anni, era da poco più di un mese in Spagna. Licenziata dal lavoro senza contratto di collaboratrice domestica, era stata costretta a vivere con altre connazionali dominicane tra le rovine della Discoteca Four Roses nella periferia di Madrid e lì morì il 13 novembre 1992, quando José Luis Merino Pérez, 25 anni, le sparò. Guardia Civil di professione, appartenente a un gruppo neonazista, quel giorno lui e il suo gruppo irruppero sparando tra le rovine della discoteca per “dare una lezione ai neri”. In Spagna la morte di Lucrecia Pérez Matos è considerata come il primo omicidio razzista e xenofobo riconosciuto come tale dalle autorità giudiziarie).

Siamo le discendenti delle comunità razzializzate che la supremazia bianca d’Europa non ha potuto assassinare.

Vogliamo riversarci per le strade anche quest’anno. Questa volta senza i nostri fratelli: Mame Mbaye che morì a Lavapiés inseguito dalle retate razziste dello stato spagnolo. Ci mancano Manuel Fernández Jiménez, assassinato dalle politiche carcerarie antigitane dello stato razzista spagnolo, e Mohamed Bouderbala assassinato nel Centro di detenzione per stranieri di Archidona, Málaga.

Non ci sono nemmeno coloro che hanno perso la vita a causa delle frontiere marittime di questa penisola-fortezza, né tutti quei corpi anonimi trasformati in cifre, prodotti della necropolitca spagnola.

Tutte queste vite che ci sono state strappate per noi non sono cifre, non sono statistiche e non permetteremo diventino il loro farmaco placebo che alimenta la buona coscienza bianca dell’antirazzismo morale. Quello a cui piace mettere facce di tutte le tonalità per far partire il gioco della democrazia razziale. Questo non è altro che una strategia cosmetica che pretende di legittimare la disonestà delle persone che vengono scelte dal potere bianco per parlare a nostro nome dandosi colpi sul petto durante i periodi di elezioni. Di fronte a questo opportunismo, noi decidiamo di prenderci le strade nuovamente per rivendicare che le voci razzializzate che scoppiarono il 12 novembre, non chiedono di essere tollerate né tutelate, siamo qui per ribaltare il tavolo del gioco politico.

Stiamo qui perché non approviamo la militarizzazione delle frontiere, né le frontiere. Non vogliamo essere perseguitatx da retate razziste, né essere incarceratx nei centri di detenzione per stranierx, non vogliamo le istituzioni penitenziarie dello stato razzista, né essere deportatx. Non vogliamo che i nostri fratelli e sorelle venditorx ambulanti, siano perseguiti e criminalizzati. Non vogliamo la legge sull’immigrazione, una legge cis-sessista e razzista. Non vogliamo che le loro imprese continuino a fare estrattivismo nei nostri territori danneggiando le nostre comunità e i popoli nativi. Non vogliamo che i libri di storia continuino a cancellare la responsabilità coloniale dello stato spagnolo e i genocidi su cui si fonda. Non vogliamo camminare per strade e stazioni della metro che rendono omaggio ad assassini e schiavisti.

Oggi celebriamo collettivamente il patrimonio di nostrx antenatx e fratellanze in lotta antirazzista, facciamo una chiamata a tuttx quellx che  si confrontano ogni giorno col razzismo istituzionale e i suoi tentacoli politici. Alle sorelle che hanno affrontato il sistema di sfruttamento razzista nei campi di Huelva, a fratelli e sorelle gitanx che dopo 500 anni di assedio e persecuzione continuano a resistere orgogliosamente all’integrazionismo di stato, a fratellx manteros che ogni giorno dimostrano, davanti alle accuse della polizia, che sopravvivere non è un delitto.

A fratelli e sorelle a cui il regno di Spagna nega la protezione internazionale condannandolx all’illegalità e a chi ci dimostra ogni giorno che la nostra umanità non dipende da un documento di identità. Alle persone trans migranti e rifugiate che lottano per un nome e combattono contro il regno di Spagna che prova a cancellarlx.

Ad ognuno dei collettivi di persone razzializzate che sono stati spinti dal potere bianco ai margini di ciò che è politico e umano, è a voi che ci rivolgiamo per iniziare un processo di responsabilità politica fondato sulla rabbia che abbiamo accumulato nei secoli. Affinché tale processo attivi la conoscenza che ormai abbiamo dell’identità politica bianca e delle sue tante facce e si articoli e mobiliti a partire dall’esperienza della materialità nella quale ci hanno obbligato a sopravvivere.

Così come tutte le risorse morali, politiche e non materiali che abbiamo ereditato dai nostri antenati per costituire un soggetto politico razzializzato che una volta per tutte faccia sentire la nostra voce, e che dall’autonomia politica rivendichi lo spazio che ci appartiene. In breve, ci appelliamo alla costruzione dello strumento politico che serve per l’emancipazione di tutti i collettivi non bianchi dello Stato spagnolo, di quelli più in basso di quelli in basso.

La nostra forza risiede nella nostra capacità di creare insieme, non in collaborazione con il potere caritatevole bianco. Non dimentichiamo, ed è per questo che siamo qui, perché camminiamo sempre con la nostra lunga memoria sveglia, ricordando che non vogliamo vivere in questo mondo razzista costruito dalla bianchezza. Ricordando loro che siamo vivi, che voi europei spagnoli bianchi avete la responsabilità di riparare e di abolire tutte le strutture e l’oppressione coloniali, le istituzioni razziste e le leggi che attentano alle nostre vite.

Organizzazioni firmatarie:

MAPA 12N – Movimiento de Acción Política Antirracista Courage

Kale Amenge – Gitan@s por l@ nuestr@s Conciencia Afro

uMMA – Movimiento Moro Antirracista Kwanzaa

Migrantes Transgresorxs/Ayllu

SOS Racismo Madrid

Estudiantes Latinoamericanxs de Abya Yala

Iniciativa Comunista

Federación Estudiantil Libertaria

Colectivo de Manteros de Zaragoza

Asamblea 12N ZGZ Antirracista

Asociación Musulmana por los Derechos Humanos (AMDDHH)

Asociación de inmigrantes Senegalés de Aragón

Feministas Comunitarias de ABYA YALA Tejido España

Se suman también los tejidos de México, Colombia, Brasil, Bolivia, Chile, Suecia

Asociación de Estudiantes Antirracista Raíces de la UAM

Madrid Solidaria por Palestina

Somos Migrantes

Pubblicato in Appuntamenti, General | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su Spagna – Manifesto delle manifestazioni antirazziste dell’ 11 novembre

Roma – Torpignattara: la chiamano sicurezza ma è violenza quotidiana [15 novembre a Piazza della Marranella]

A Torpignattara la costante intensità di retate e controlli delle forze dell’ordine sta suscitando l’interesse a discuterne tra chi abita il quartiere.
Se da una parte le vicende repressive spingono nei guai chi viene colpito, il fatto che siano molto diffuse produce, inevitabilmente, l’interesse a parlarsi, raccontando i molteplici episodi, immaginando qualcosa che vada oltre la lamentela individuale, poco utile a uscire dalle difficoltà.

Nel corso degli anni, una parte delle persone che abitano il quartiere ha già organizzato delle giornate di protesta contro la criminalizzazione della popolazione immigrata che media e politici associano al terrorismo, contro la conseguente chiusura di luoghi di preghiera con pretesti burocratici e contro il muro di gomma che le amministrazioni locali oppongono alla richiesta di certificati di residenza per chi vive in quel quadrante.

Al giorno d’oggi prosegue una vera e propria caccia all’uomo nelle strade di Torpignattara.
La polizia municipale scende in campo con le sue squadrette contro i venditori ambulanti e un capillare controllo del territorio viene esercitato da uomini di qualsiasi divisa: identificazioni continue a chi cammina in strada, ripetute “visite” a piccole attività commerciali con l’intento di trovare qualsiasi pretesto per impartire pesanti multe.
Anche i numerosi bar presenti nel quartiere vengono considerati come delle tonnare dove prelevare la gente, dei luoghi di ritrovo dove le forze dell’ordine eseguono continui rastrellamenti tra la clientela.

Purtroppo, come accade sempre più spesso, lo Stato trova anche i suoi complici e, come accaduto al Pigneto, gruppi facebook e comitati di quartiere sono strumenti utilissimi per spingere le persone alla delazione.
Alcune pagine sui social network e alcuni gruppi della cosiddetta società civile hanno scelto di “intervenire” nel quartiere, segnalando semplicemente alle istituzioni ciò che non va.
Dal segnalare l’immondizia che straripa ovunque sono passati a fotografare la vicina di casa che getta il sacchetto della spazzatura accanto il secchione colmo, da questa tendenza ossessiva, quotidiana, si è arrivati a dirette video su qualsiasi episodio nel quartiere e esposti collettivi alle forze dell’ordine contro gli schiamazzi in strada, associati a bar e piccoli alimentari.
Persone che si battono il petto e piangono per le vicende legate alla morte di Stefano Cucchi, oggi sono disposte a creare lo stesso inferno al proprio vicino di casa. Esposti, denunce e segnalazioni, piuttosto che scendere da casa e parlare, anche in maniera accesa, per risolvere i problemi legati alla vita quotidiana.

In questo clima pesante, mentre qualcuno gioca al computer con la vita altrui, le ripercussioni sui singoli sono reali.
Qualcuno passa nottate intere in questura per semplici identificazioni, qualcuno viene raggiunto da decreti di espulsione e denunce, chi lavora per strada deve correre via con le bancarelle per evitare il sequestro della merce, qualche piccola attività commerciale viene costretta a chiudere in ripetute occasioni, qualche bar viene costretto alla chiusura perché “fonte di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica” date le frequentazioni.
Sotto attacco ci sono le esistenze di tanti e tante.

Di seguito pubblichiamo il manifesto che abbiamo ricevuto via mail da chi si sta organizzando nel quartiere. Per scriverci e inviarci contributi hurriya[at]autistici.org

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Milano [25 novembre] – Contro i CPR, ancora

Riceviamo e pubblichiamo. Per scriverci e inviarci contributi: hurriya[at]autistici.org

Il prossimo 30 novembre il Centro Accoglienza Straordinaria (CAS) per rifugiati e richiedenti asilo di via Corelli, in Milano, sarà chiuso e trasformato in un centro d’espulsione per immigrati “irregolari”.

Con questa decisione il governo di Lega e Cinque Stelle vuole marcare, innanzitutto simbolica-mente, la propria differenza rispetto all’approccio del governo precedente, che del “modello di accoglienza” milanese aveva fatto un suo fiore all’occhiello. Com’era prevedibile, la “linea Salvini” provoca malumori e resistenze da parte di numerosi soggetti e operatori che della “seconda accoglienza” avevano fatto il proprio mestiere e il modo di salvarsi l’anima in un “mondo senza cuore” com’è l’attuale.

Nel mentre riaffermiamo la “banalità di base” secondo cui non esiste una differenza sostanziale e di principio tra “Minniti e il suo mondo” da una parte e la “banda Salvini” dall’altra, così come non esiste una differenza sostanziale e di principio tra “fascismo” e “democrazia” – fra essi funzionando invece un sistema di avvicendamenti, più o meno pacifici, e porte girevoli –, vogliamo qui sottoline-are il fatto che la storia che ha portato nel 2014 alla chiusura dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) è ora oggetto di una interessata distorsione e rimozione.
Secondo questa operazione, per nulla innocente, di riscrittura della storia i CIE sarebbero stati “superati” grazie alle pressioni esercitate, con impegno equo-solidale e spirito di partecipazione, dalla “società civile”. Le cose andarono ben diversamente: i CIE furono distrutti (ne rimangono 5 su 13) dall’azione diretta degli uomini e delle donne che vi erano rinchiusi, sostenuti da un certo numero di individui e collettivi che, all’esterno, seppero rispondere a una domanda già “classica” di fronte all’orrore e all’abominio: “Se non ora, quando?”. Ed è solo a fronte della loro palese ingovernabilità che è poi subentrato un modello più articolato e di maggiore portata, anche sul piano internazionale, com’è quello varato lo scorso anno dal ministro dell’Interno Minniti e ridefinito oggi dal suo successore Salvini. Questa e non altra è la storia di lager quali Corelli, innanzitutto, Gradisca di Isonzo, Bologna, Modena, Crotone, Torino, Lecce, Roma.

Domenica 25 novembre vogliamo farcela raccontare, per poi discuterne con loro, da compagne e compagni di varie parti d’Italia che hanno partecipato a questa storia di lotte. Per continuarla.

Punto di rottura

Domenica 25 novembre 2018
dalle ore 17.30, presso il CSOA Cox 18
via Conchetta 18 – Milano

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